6 AGOSTO 1908, QUI COMINCIA L’AVVENTURA

maggio 21, 2020 by Redazione  
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A partire da oggi vi riproporremo i nove capitoli della storia del primo Giro d’Italia, già pubblicati su questo sito nel 2009, in occasione del centenario della Corsa Rosa. Il primo capitolo racconta i passi che portarono il 13 maggio del 1909 al via della prima tappa, iniziando il racconto dalla precedente estate del 1908, quando una soffiata permise alla “Gazzetta dello Sport” di rubare l’idea del Giro al “Corriere della Sera”

C’era una volta una spia.
Inizia come una favola la storia del Giro d’Italia. Ma c’è quell’apparentemente brutto termine, “spia”, a riportarci saldamente coi piedi per terra, a quella che non è una favola, ma una bellissima realtà, quella Corsa Rosa che, anno dopo anno, arriverà nel 2020 alla sua 103a edizione.
Ha un nome quella benevola spia: è Angelo Gatti, fondatore e comproprietario dell’Atala, la famosa azienda di biciclette. In una calda giornata dell’agosto del 1908, venuto a sapere che il Corriere della Sera è seriamente intenzionato a lanciare un Giro d’Italia in bicicletta – sulla falsariga di quanto accadeva in Francia già da un quinquennio e cavalcando l’onda di una precedente manifestazione automobilistica, che il quotidiano milanese organizzava dal 1901 – il Gatti telegrafa la notizia all’amico Tullio Morgagni, caporedattore della Gazzetta dello Sport ed uno dei soci amministratori della “Rosea”, che già da tre anni era impegnata in campo organizzativo con il Giro di Lombardia e da uno con la Milano – Sanremo.
Il Morgagni non perde tempo e invia subito un telegramma al caporedattore della sezione ciclismo Armando Cougnet e al direttore del quotidiano Eugenio Camillo Costamagna: “Improrogabili necessità obbligano Gazzetta lanciare subito Giro Italia. Ritorna Milano. Tulio”.
È il 5 agosto e in quel momento i due soci si trovano fuori Milano, il primo a Venezia per lavoro, il secondo a godersi le ferie nel fresco della natia San Michele Mondovì.
Il giorno successivo si svolge la riunione decisiva, al civico 2 di Via della Signora, nella sede della “Rosea”. Si stabilisce di organizzare la corsa e di darne notizia sulla prima edizione utile del giornale, che all’epoca ha cadenza bisettimanale. Già ventiquattrore dopo, venerdì 7 agosto 1908, l’Italia verrà a sapere che l’anno successivo si sarebbe disputata la prima edizione del “Giro Ciclistico d’Italia”, come viene chiamato.
Il Corriere viene così battuto sul tempo, ma ora bisogna “correre” a recuperare i mezzi necessari affinché quest’avventura possa compiersi. Sotto l’aspetto organizzativo non ci sono problemi poiché Cougnet, che avrà l’incarico di direttore della neonata corsa, ha avuto la possibilità di impratichirsi seguendo come inviato le edizioni 1906 e 1907 del Tour de France ed organizzando le prime corse promosse dalla Gazzetta. Sono le tasche quelle più difficili da colmare, considerati anche gli stipendi da “fame” che percepiscono i tre amministratori, che spesso faticano a saldare i debiti con la tipografia che stampa la Gazzetta. In loro aiuto giunge Primo Bongrani, ragioniere presso la Cassa di Risparmio, che consiglia loro di agire come le banche, chiedendo agli altri i soldi, dove questi mancavano. È lo stesso Bongrani, preso un mese di licenza dal lavoro, a scendere in campo per bussare a tutte le porte possibili, compresa quella del Corriere della Sera che, da gran signore, offre le 3000 lire che costituiranno il premio massimo, quello destinato al vincitore, una cifra che corrisponde a circa 12.600 euro odierni.
L’ultimo aiuto, necessario per coprire il rimanente buco di 1000 lire, viene fornito in occasione della Milano-Sanremo del 1909 dal casinò della cittadina ligure e dall’ingegner Sghirla, che in passato aveva già collaborato con la Gazzetta nell’organizzazione della Milano – Acqui – Sanremo, corsa per vetturette che si era rivelata un totale fiasco ma che sarà la scintilla che porterà alla nascita della Classicissima.
Nel frattempo si procede ai primi sopralluoghi, necessari alla costruzione “fisica” del Giro. Si sceglie di imitare il Tour de France, proponendo otto tappe non consecutive ma inframmezzate da più giornate di riposo, indispensabili per permettere ai corridori di riprendersi dai disagi di frazioni interminabili, disputate su strade dai fondi squassati e caratterizzate da orari di partenza ed arrivo oggi improponibili. Stabilita la partenza assoluta a Milano, in casa Gazzetta, le sedi di tappa sono individuate in Bologna, Chieti, Napoli, Roma, Firenze, Genova, Torino e Milano, dove il Giro terminerà il 30 maggio. In tutto si dovranno coprire 2448 Km, pari ad un chilometraggio medio di 306 Km. La frazione più lunga sarà proprio quella del debutto – prevista sulla distanza di 397 Km – mentre l’ultima sarà la più breve, 209 Km appena!
Fatto il Giro, bisogna fare i “girini” e la caccia non sarà così difficile come quella ai finanziamenti. Le prime iscrizioni giungono negli uffici della Gazzetta già nei mesi successivi: il primo a presentarsi è il bresciano Felice Peli, seguito da altri 165 corridori. 146 sono italiani mentre tra gli stranieri spicca il nome del francese Lucien Georges Mazan: più famoso con il soprannome di “Petit-Breton”, si è imposto nelle ultime due edizioni del Tour ed è noto in Italia per essere stato il primo vincitore della Milano – Sanremo. La notizia della nascita del Giro fa davvero il giro del mondo, perdonateci il gioco di parole, e lo testimonia l’iscrizione di due atleti provenenti da paesi molto lontani, l’argentino Anselmo Ciquito e il russo Iwan Nedela.

Il gran giorno è fissato per giovedì 13 maggio 1909, alle 2.53 della notte. Data l’ora antelucana, il raduno inizia già il giorno prima quando, tra le 13 e le 18, l’Albergo Loreto è teatro delle operazioni di punzonatura. Si presentano solo 128 dei 146 corridori iscritti e pesa soprattutto il clamoroso forfait dell’Alcyon, una delle formazioni più temute ed agguerrite dell’epoca, la “Mapei” d’inizio secolo, che priva della corsa di ben 11 pretendenti di spessore.
Non manca all’appuntamento il pubblico, che si riversa in massa in Corso Buenos Aires sorprendendo gli stessi organizzatori e i “ghisa” meneghini, costretti a trattenere la folla schierando un vero e proprio esercito tra guardie, vigili e carabinieri, anche a cavallo. E ancor più gente affollerrà i traguardi, creando talvolta non pochi problemi agli organizzatori.
Con l’avvicinarsi dell’ora X aumenta ancor più il numero dei tifosi, gran parte dei quali inneggiano a Giovanni Gerbi, l’astigiano “Diavolo Rosso”, forse il più famoso tra gli italiani al via.
Le automobili ufficiali cominciano a scaldare i motori. La prima a muoversi, bardata con bandiere rosse e fasce rosa, è la Züst sulla quale viaggerà il direttore Costamagna – che scriverà gli editoriali dal Giro, firmandoli con lo pseudonimo di “Magno” – accompagnato dall’avvocato Pilade Carozzi, vice presidente dell’UCI e primo italiano a rivestire tale carica. Il pistard bresciano Gian Ferdinando Tomaselli, due volte campione italiano di velocità, è al volante della “Bianchi” riservata ai rappresentanti delle case ciclistiche in gara. Chiude la carovana delle vetture apripista un’Itala fornita dalla Pirelli per permettere al primo direttore di corsa Cougnet e agli altri giornalisti accreditati di seguire la corsa dal vivo.
Mancano oramai pochi minuti alla partenza. C’è il tempo per un ultimo, breve discorso inaugurale, affidato al cavalier Carlo Cavanenghi, il presidente dell’UVI (Unione Velocipedista Italiana, l’odierna Federazione Ciclista Italiana).
Il prestigioso ruolo di primo gran mossiere spetta a Gilberto Marley, ex corridore e tra i più celebri cronometristi dell’epoca.
Alle due e cinquantatre l’abbassarsi d’una piccola bandierina rappresenta il levarsi del grande sipario rosa sul palcoscenico del Giro d’Italia.
Ha inizio l’avventura!

1 – continua

Mauro Facoltosi

1986, L’ANNO DELLA SVOLTA

maggio 20, 2020 by Redazione  
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Dopo una serie di edizioni caratterizzati da percorsi “all’acqua di rose” il Giro inizia lentamente a riscoprire le grandi montagne e lo fa a partire dall’edizione del 1986. È l’anno della vittoria di Roberto Visentini, che dodici mesi più tardi avrebbe potuto collezionare uno strepitoso bis se non avesse trovato sulla sua strada un compagno di squadra che lo tradirà…

Se chiedessimo agli appassionati di ciclismo che hanno vissuto in “diretta” gli anni ’80 quale edizione della Corsa Rosa di quel decennio fosse rimasta nel loro cuore potremmo avere tre risposte differenti. Una parte degli intervistati senza dubbio ci indicherebbero il Giro del 1984, quello dell’incredibile rimonta di Francesco Moser nella cronometro conclusiva dell’Arena di Verona quando, utilizzando per la prima volta su strada le ruote lenticolari che aveva sperimentato all’inizio della stagione nel vittorioso record dell’ora in Messico, riuscì a infliggere 2′24″ a Laurent Fignon e così scavalcare definitivamente in classifica il francese, che alla partenza di quella tappa era in vantaggio di 1’21” sul corridore trentino.
Altri, invece, ricorderanno l’edizione del 1988, quella della prima vittoria di un corridore che veniva d’oltreoceano, lo statunitense Andrew Hampsten, ma soprattutto quella del ritorno del Giro sul Gavia, che non veniva più affrontato dall’anno della scoperta della salita lombarda (1960) e che venne inserito in una tappa drammatica, una frazione disputata sotto una pesante nevicata che rispolverò l’episodio – che sembrava oramai lontano nel tempo e irripetibile – della tremenda tappa del Bondone del 1956.
Ci sarà, infine, chi rammenterà l’edizione disputata l’anno precedente, quando nel 1987 accadde lo storico “tradimento di Sappada” nella tappa che terminava nell’allora località di sport invernali friulana, recentemente passata al Veneto. E non è un modo di dire perché davvero ci fu quel giorno un tradimento da parte dell’irlandese Stephen Roche, che vincerà quell’anno la Corsa Rosa, ai danni del proprio capitano Roberto Visentini, che vestiva la maglia rosa con un vantaggio importante e che, attaccato da un uomo che riteneva suo fido scudiero, patì una profonda crisi – fisica prima e psicologica poi – che lo porterà a tagliare il traguardo con un ritardo vicino ai sette minuti. Se non ci fosse stata quella pugnalata alle spalle quell’anno il Giro con tutta probabilità l’avrebbe vinto proprio il corridore bresciano, considerate anche l’autorità e i pesanti distacchi con i quali si era imposto nella cronoscalata di San Marino, un paio di giorni prima di Sappada.

E per Visentini quello sarebbe stato uno strepitoso bis perché un Giro lui l’aveva già vinto, quello disputato l’anno prima. Ed è proprio dell’edizione del 1986 che vi parleremo, una delle meno note e “chiaccherate” di quel decennio ma che vale la pena d’esser ricordata, anche perché rappresentò un importante punto di svolta nella storia della Corsa Rosa, una sorta di pietra miliare. Come abbiamo ricordato nell’articolo sul Giro del 1982, la prima metà degli anni ’80 era stata caratterizzata da giri disegnati con mano molto leggera per favorire la presenza dei corridori all’epoca più acclamati dagli italiani, il citato Moser e Giuseppe Saronni, che avrebbero garantito una maggior tiratura della Gazzetta dello Sport e che pativano le grandi salite, il trentino più del lombardo. Quella filosofia di concepire i percorsi aveva, però, avuto l’effetto di penalizzare gli scalatori, anche perché fu adottata anche in altre corse italiane, con il risultato di privare dei “grimpeur” nostrani di competizioni nelle quali farsi la gamba in vista di gare come il Tour de France, nel quale in quel periodo i nostri non furono mai competitivi per la vittoria finale. Tutto cambiò a metà di quel decennio, quando Vincenzo Torriani si rese conto sia dell’errore compiuto nel troppo sottostare ai desideri dei dirigenti della Rizzoli (proprietari della Gazzetta), sia del fatto che i due tanto osannati campioni avevano cominciato a imboccare la strada del declino agonistico (Moser gareggerà fino al 1988, Saronni smetterà due anni più tardi) ed era oramai inutile e controproducente continuare a perseguire quella modalità. Dal 1986 comincerà così a “rimpolpare” il percorso del Giro, inizialmente in maniera graduale al punto che quell’edizione della Corsa Rosa può essere definita quasi una figlia maggiorata delle precedenti ma priva ancora di quei tapponi che diventeranno sempre più abituali negli anni successivi, quando la corsa andrà alla scoperta di ascese dimenticate (come il Gavia o la Marmolada) o di asperità inedite come il tremendo Mortirolo, che farà la sua prima comparsa nel 1990 e che era una difficoltà inconcepibile per i primi anni ’80. Non c’erano solo Visentini, Saronni e Moser al via di quel Giro che, dopo il Bernard Hinault visto in gara nel 1985, proponeva un altro grosso nome nella starting list, l’americano Greg Lemond, che correva proprio nella formazione del corridore francese e che fino a quel momento era principalmente conosciuto per aver vinto i campionati del mondo del 1983 e per essersi piazzato secondo in quelli del 1982, alle spalle di Saronni (il mondiale della “fucilata” di Goodwood).

Si parte dalla Sicilia con un il più breve cronoprologo della storia del Giro, un chilometro e nulla di più che viene per l’appunto ribattezzato “Millemetri”, la distanza sulla quale il velocista e pistard elvetico Urs Freuler fa registrare quella che fino al 1994 sarà la media più elevata della storia della corsa (52.728 Km/h), mentre i distacchi sono ovviamente ridottissimi: un secondo per Saronni, due per il bergamasco Silvestro Milani, per “Guidone” Bontempi e per Moser.

Dalla festa per la conquista della prima maglia rosa l’Atala diretta da Franco Cribiori sprofonda purtroppo nel dramma poche ore più tardi, dopo la conclusione della pomeridiana tappa diretta a Sciacca, dove il pavese Sergio Santimaria taglia il traguardo con meno di 200 metri di vantaggio sulla volata del gruppo e si prende le insegne del primato. Il dramma ha il volto di Emilio Ravasio, che cade a pochi chilometri dall’arrivo ma riesce a risalire in sella e a terminare la tappa, seppure con forte distacco dai primi e senza apparentemente manifestare conseguenze per l’incidente. A sera in albergo si sente male, fatica a parlare, ha capogiri perché aveva battuto forte il capo sull’asfalto e il suo compagno di stanza – il futuro vincitore del Giro Gianni Bugno – avverte Cribiori che si precipita ad avvisare il dottor Giovanni Tredici, medico del Giro. Nel frattempo Ravasio sviene e il medico della Corsa Rosa lo fa ricoverare d’urgenza in ospedale, dove entra in coma.

È in un clima non certo festoso che il Giro si risveglia l’indomani. Tra l’altro ancora vivo è il ricordo dell’incidente mortale avvenuto nel 1976 proprio sulle strade di Sicilia, anche quello verificatosi nella tappa d’apertura del Giro quando, per una caduta in discesa, aveva perso la vita il corridore spagnolo Juan Manuel Santisteban. Quel giorno si arrivava a Catania, dove anche oggi sono attesi i “girini” al termine di una frazione lunga 259 Km e quasi del tutto priva di difficoltà, una frazione movimentata da un paio di cadute eccellenti nel finale ma senza gravi conseguenze (finiscono a terra Saronni e Lemond, con quest’ultimo che perde 1’38”, passivo senza il quale l’americano avrebbe terminato il Giro in seconda posizione, e non in quarta, con 48” di ritardo da Visentini) e che termina allo sprint con la vittoria dell’olandese Jean-Paul van Poppel, che si veste di rosa sullo stesso traguardo dove farà bottino doppio, tappa e a maglia, anche al Giro del 1989. Tutti, però, più che allo svolgimento della corsa sono interessati alle condizioni di salute di Ravasio, operato d’urgenza nella notte per la rimozione di un ematoma extradurale dalla scatola cranica.

Prima di lasciare l’isola si deve affrontare una delle tappe più delicate del sessantanovesimo Giro d’Italia, una difficile cronometro a squadre di 50 Km il cui tratto conclusivo è in salita verso il traguardo di Taormina. È uno degli ultimi atti dell’annosa sfida tra Saronni e Moser, che vede la formazione del primo corridore, la Del Tongo – Colnago, fare meglio della Supermercati Brianzoli del trentino per 9”, con quest’ultimo che sbeffeggia il rivale sostenendo che se la tappa si fosse disputata individualmente l’avrebbe vinta lui. Intanto l’atteso Lemond paga ancora – la sua squadra, La Vie Claire, è 3a a 1’41” – e la maglia rosa cambia padrone per la quarta volta in tre giorni finendo proprio sulle spalle di Saronni.

Un fatto storico attende il gruppo una volta varcato lo Stretto perché nella prima tappa continentale, la Villa San Giovanni – Nicotera, Gianbattista Baronchelli riesce finalmente a fare sua la maglia rosa, dopo un inseguimento durato 12 anni e iniziato il tardo pomeriggio del 6 giugno del 1974 verso le Tre Cime di Lavaredo. L’ambito simbolo del primato è suo dopo un tentativo che gli frutta al traguardo un vantaggio di 18” sul gruppo dei migliori e che gli consente, anche grazie all’abbuono, di portarsi al comando della classifica con 17” sul suo capitano Moser e 22 sull’ex leader Saronni.

Intanto i “moseriani” cominciano a fare gli scongiuri per la tappa del giorno dopo, che prevede a 28 Km dal traguardo di Cosenza la salita del Passo della Crocetta, sulla quale l’anno prima il loro beniamino aveva accusato una piccola crisi nel finale della frazione di Paola, una momentanea défaillance che lo aveva portato ad accusare quasi un minuto di ritardo in vetta al colle, passivo annullato quasi completamente nel corso della picchiata che conduceva al traguardo, dove aveva trovato la vittoria il portoghese Acacio Da Silva. E in quella occasione si era affrontato il lato più facile dell’ascesa calabrese, che stavolta viene presa dal più probante versante tirrenico. I timori non sono infondati e non lo si riveleranno perché il trenino soffre anche stavolta e in maniera maggiore, arrivando ad accusare 2’20” in cima alla Crocetta e 1’27” al traguardo, dove Lemond anticipa di un paio di secondi la volata del gruppo, regolato da Saronni.

Si lascia la Calabria con un’altra frazione dal chilometraggio abbondante, 251 Km per viaggiare verso Potenza dove il traguardo è posto al termine di una pedalabile ascesa lunga circa 3 Km. È un finale che si adatta alle caratteristiche di un corridore come Saronni e, infatti, è proprio lui a tagliare la linea d’arrivo a braccia levate, precedendo allo sprint l’australiano Michael Wilson e Van Poppel. Peccato che quello non fosse lo sprint per la vittoria: il corridore di Parabiago aveva spesso l’abitudine di stazionare in fondo al gruppo e di uscirne solo all’ultimo e così non si era accorto che a 5 Km dal traguardo se n’era andato tutto solo Visentini, giunto a Potenza 11 secondi prima di tutti gli altri. Ora Saronni, tornato in maglia rosa dopo i due giorni d’interregno di Baronchelli, comincia a guardare con occhi diversi lo scalatore bresciano e inizia a temerlo, nonostante sia ancora lontano in classifica da lui, sesto a più di due minuti.

Nell’attesa della prima frazione di montagna si devono affrontare due tranquille tappe di trasferimento, la prima delle quali vede Bontempi vincere il secondo “round” tra i velocisti precedendo l’attuale dirigente di RCS Sport Stefano Allocchio e Paolo Rosola sul traguardo di Baia Domizia, nel casertano. Un pelo più movimentato è il finale della successiva Cellole – Avezzano, che vede una leggera frattura nel gruppo maglia rosa, grazie alla quale Visentini guadagna sette secondi su tutti gli altri. A vincere questa frazione è Franco Chioccioli, il toscano che si imporrà nel Giro del 1991 e che nelle interviste nel dopo tappa dichiarerà di ambire a finire quell’edizione della corsa tra i primi cinque della classifica (in quel momento è nono a 2’13” e alla fine si dovrà accontentare del sesto posto assoluto).

L’operazione di rilancio delle grandi salite parte dal Terminillo, che Torriani inserisce nel finale della tappa di Rieti, proponendolo dal versante più impegnativo. Nel 1978 la medesima salita, affrontata dallo stesso lato, era stata fatale a Saronni e Moser, che accusarono quasi 2 minuti di ritardo dalla maglia rosa Johan De Muynck sul traguardo del Lago di Piediluco. Tre anni più tardi stesso scenario, era la tappa di Cascia, e anche in quell’occasione i due soffrirono e in particolar modo il trenino che, dopo essersi staccato in salita, cadde in discesa per lo scoppio di un copertoncino e lasciò per strada quasi 6 minuti. È con un pizzico di timore che i due, dunque, si apprestano a disputare questa frazione che stavolta è magnanima nei loro confronti perché Beppe e Francesco terminano nel gruppo di Lemond e Visentini, dopo che Saronni aveva perduto poco meno di mezzo minuto in salita ed era successivamente riuscito a ricucire il buco. A imporsi sul traguardo reatino è il portoghese Da Silva, del quale avevamo già parlato in occasione della tappa calabrese, che allo sprint precede il romagnolo Alfio Vandi e il giovane lombardo Marco Giovannetti, che due anni prima da dilettante aveva conquistato la medaglia d’oro nella cronosquadre alle Olimpiadi di Los Angeles.

Consegnata agli archivi la prima tappa di montagna si attende ora la cronometro in programma tre giorni più tardi sulle strade del senese, prima della quale si devono affrontare una lunga tappa per velocisti diretta a Pesaro e poi una frazione disegnata sulle colline umbre con approdo a Castiglione del Lago che prevede nel finale l’ascesa al Monte Castiglione. Lassù ci prova Visentini, che si porta sul gruppetto dei fuggitivi ma poi preferisce farsi riprendere e la tappa termina allo sprint, vinta come quella del giorno prima da Bontempi.

La prima delle due prove contro il tempo lunghe è in programma tra Sinalunga e Siena, 46 filanti chilometri in gran parte tracciati sulla pianeggiante superstrada che collega la città del Palio con lo svincolo di Bettolle, mentre il finale è in salita verso Piazza del Campo. È la tappa che dimostra come Moser non sia più l’asso di un tempo nelle cronometro, che negli anni precedenti lo avevano visto o vincitore o sconfitto di poco; stavolta il trentino non riesce a scatenare la sua potenza e termina 10° a 1’20” dal sorprendente neoprofessionista polacco Lech Piasecki, corridore che nella massima categoria conseguirà altre 13 vittorie, quasi tutte ottenute in Italia e prevalentemente in gare a cronometro. Tra gli uomini che puntano alla maglia rosa finale quello che fa meglio di tutti è Visentini, che si piazza secondo a 7 secondi da Piasecki e intasca anche l’abbuono, la cui assegnazione in quegli anni era prevista anche in queste frazioni; gli altri distacchi che contano sono di 30” per Saronni, di 40” per Lemond e di 1’30” per Baronchelli, con Beppe che riesce a conservare il primato in classifica con 1’18” su Baronchelli e 1’31” su Visentini.

Dopo la pianeggiante tappa di Sarzana, nella quale Van Poppel bissa il successo ottenuto a Catania, si arriva al primo dei quattro appuntamenti alpini, che prevede di percorrere 236 Km dal mare alla montagna, da Savona alla stazione di sport invernali di Sauze d’Oulx, in alta Valsusa. In partenza c’è d’affrontare il facile Colle di Cadibona sul quale è già corsa vera e, nonostante la mole di chilometri ancora da percorrere, dove tentano la sortita diversi corridori, tra i quali Visentini e Lemond mentre non c’è nessun uomo della maglia rosa, la cui squadra è costretta a un lungo inseguimento. Calmatesi le acque e passata senza sussulti l’interminabile ascesa al Sestriere, Visentini torna all’attacco sulla breve ma ripida salita che conduce al traguardo, si muove e fa selezione. Mentre davanti viaggia verso la vittoria l’irlandese Martin Earley, l’unico a riuscire a reggere al ritmo del bresciano è Lemond, che taglia il traguardo in sua compagnia mentre Saronni perde 16 secondi, non molti ma che lo fanno seriamente preoccupare perché un paio di giorni più tardi è in programma un tappone molto più duro di quello oggi affrontato. E intanto si gode un altro giorno in maglia rosa, ora indossata con 1’10” su Visentini e 1’51” su Baronchelli.

Dopo un’altra tappa “fiume” (Oulx – Erba, 260 Km, vittoria in solitaria del norvegese Erik Pedersen) si disputa la frazione più difficile di questa edizione della Corsa Rosa, nella quale ci si gioca una considerevole fetta della vittoria finale. I chilometri da percorrere non sono molti, 143 Km, ma si devono affrontare due ascese molto lunghe e impegnative, quella che conduce al traguardo di Foppolo e l’inedito Passo San Marco, quasi 2000 metri di quota e 26 Km di salita che Torriani aveva già inserito nell’edizione del 1977, quando la strada per raggiungere il passo orobico era ancora sterrata, ma poi fu costretto a cambiare il tracciato della tappa di San Pellegrino Terme a causa della neve. Ed è proprio sul San Marco, affrontato sotto la grandine e dopo due settimane di una corsa che aveva sempre proposto giornate meteorologicamente calde, che “tramonta” l’astro rosa di Saronni, attaccato da Visentini sulla salita valtellinese: transita in vetta con 2’20” di ritardo e senza più le insegne del primato sulle spalle, verdetto che viene confermato al traguardo di Foppolo, dove si presenta con uno svantaggio quasi identico. Il nuovo capoclassifica è il bresciano, al quale la vittoria sfugge a causa di un salto di catena dentro l’ultimo chilometro (a imporsi è lo spagnolo Pedro Muñoz) e che si veste di rosa con 1’06” su Beppe e 1’54” su Baronchelli ma che non ha né il tempo, né la voglia di gioire. Subito dopo la conclusione di quella tappa, infatti, cala come una mannaia sulla festa del Giro la brutta notizia della morte di Ravasio, che non era più uscito dal coma nel quale era stato farmacologicamente indotto dai medici dopo il disperato tentativo di salvargli la vita rimuovendo l’ematoma.

È con il lutto al braccio che si riparte l’indomani da Foppolo alla volta di Piacenza, con l’intenzione di onorare la memoria del corridore brianzolo correndo e dedicandogli la vittoria. Lo farà Bontempi al termine di una frazione che vede il passo in avanti in classifica di Lemond, dal quarto al terzo posto a 2’05” da Visentini, in seguito al misterioso ritiro di Baronchelli, per un motivo che il corridore mantovano sempre si rifiuterà di raccontare, anche a decenni di distanza. Al momento ad acuire il mistero ci pensano le dichiarazioni nettamente contrastanti dei due direttori sportivi della Supermercati Brianzoli, con Luigi Stanga che tira in ballo un attacco di diarrea che aveva colpito il corridore in albergo a Foppolo e con Enzo Moser che si limita a dare del “pistola” a Baronchelli. La versione ufficiosa parla invece di un Gianbattista impermalositosi per le troppe attenzioni ricevute da Moser, come quella volta che il trentino era stato atteso da Claudio Corti dopo la crisi sulla Crocetta, mentre tutto questo non era successa a Foppolo, dove Corti non solo non aveva aspettato Baronchelli ma aveva continuato a fare la sua corsa piazzandosi quarto, a 21 secondi da Visentini e a quasi un minuto prima dell’arrivo di Gianbattista.

Dopo il tramonto di Saronni arriva la resurrezione tardiva di Moser, sul terreno a lui più congeniale. Dimenticata l’inattesa débâcle di Siena, il recordman dell’ora torna a far sfoggio del suo potenziale nella cronometro di Cremona, tappa che costituirà anche l’ultimo dei suoi 23 successi conseguiti sulle strade del Giro d’Italia. Alle spalle del trentino – che s’impone a 49.128 Km/h distanziando di 49” il tedesco Dietrich Thurau e di 1’05” il danese Jesper Worre – la sfida a distanza tra i primi due della classifica si risolve quasi in pareggio, con Saronni che riesce a recupere a Visentini solo 4 dei 126 secondi che lo separano dal bresciano.

Si torna sulle montagne per una frazione non particolarmente difficile e, infatti, non si muove una foglia tra i big lungo i 211 Km che conducono alle terme di Pejo dopo esser saliti sul passo di Campo Carlo Magno. Fin dalle dichiarazioni rilasciate alla stampa Saronni pare demotivato e sentenzia che oramai il Giro è nelle mani del rivale, a meno di una clamorosa crisi nel tappone dolomitico. Dal canto suo Visentini non intende sprecare energie che potrebbero essergli utili sulle Dolomiti e decide di rimanere in cabina di regia, lasciando infilare nella fuga di giornata – al termine della quale consegue la vittoria l’olandese Johan van der Velde – il suo fidato (ancora per poco) gregario Roche.

Dopo l’ultima frazione destinata ai velocisti – si corre verso Bassano del Grappa, dove Bontempi va cogliere la sua quinta affermazione – il tappone dolomitico si disputa su di un tracciato storico. I 234 Km che si devono percorrere tra la cittadina del celebre “Ponte degli Alpini” e Bolzano ricalcano fedelmente le rotte di una delle mitiche cavalcate di Fausto Coppi, quella che porta la data del 2 giugno del 1949, nella stessa edizione della Cuneo – Pinerolo. Si devono affrontare Rolle e Pordoi, Campolongo e Gardena, nella medesima sequenza che 37 anni prima vide il Campionissimo trionfare in solitaria a Bolzano con quasi 7 minuti di vantaggio sui primi avversari giunti al traguardo. Ma da allora sono cambiate tante cose, tra strade perfettamente levigate e biciclette molto più leggere, e non solo sarà impossibile ripetere le gesta di Fausto, ma forse non si riuscirà nemmeno a prendere e mantenere fino all’arrivo un piccolo vantaggio sugli altri rivali. Va a finire che neanche stavolta qualcuno azzarda qualcosa: l’unico a provarci è Lemond sul Pordoi, dove piazza due flebili attacchi senza convinzione che entrambi hanno come conseguenza altrettanti lievi cedimenti di Saronni, che ben presto riesce a rientrare in gruppo. Come due giorni prima a Pejo, in un quadro simile buon gioco ha la fuga andata via tra Rolle e Pordoi e che strada facendo si assottiglia ai tre corridori che vanno a giocarsi il successo allo sprint a Bolzano, dove si impone Da Silva sull’elvetico “Niki” Rüttimann e Alessandro Paganessi, il corridore bergamasco che nel 1983 aveva vinto il tappone dolomitico di Arabba.

Si arriva così all’ultimo giorno di gara, per il quale Torriani ha messo in programma i “girisprint”, una delle sue ultime e meno fortunate invenzioni, proposti per la prima volta al Giro dell’anno precedente a Foggia e che nelle sue intenzioni dovevano dare una sferzata di brio alla corsa ma che, invece, saranno accolti con diverse critiche da parte dei corridori. La tappa del 1985, disputata su un circuito pianeggiante di 5 Km da ripetere nove volte, prevedeva un traguardo volante con abbuoni a ogni passaggio dal traguardo, ma alla fine si era risolta con lo sprint finale di Allocchio e senza che nessuno dei favoriti per la maglia rosa si impegnasse nelle altre volatine, in una tappa che non aveva suscitato particolari entusiasmi e che qualcuno riteneva anche pericolosa. Il circuito del gran finale del Giro 1986 a Merano, invece, è più intrigante perché in ciascuna delle tredici tornate da 8.4 km cadauna è prevista la breve ma ripida salitella verso il quartiere di Maia Alta. Ma la tappa non solo risulta inutile ma anche noiosa a causa del “catenaccio” imposto dalla squadra di Visentini, che lascia uscire dal gruppo solo corridori di seconda schiera, selezionato gruppetto che a sua volta si sgrana lungo l’anello meranese fino alla vittoria in solitaria, con un minuto di vantaggio sul secondo, di Eric Van Lancker, il corridore belga che oggi è uno dei direttori sportivi della formazione asiatica Israel Start-Up Nation.
È il 2 giugno, giorno nel quale Roberto Visentini spegne 29 candeline sulla torta, una torta con una prelibata farcitura rosa. Ma è anche il giorno nel quale il Giro ha riassaporato l’aroma delle salite, un sapore che non sarà mai più abbandonato…

Mauro Facoltosi

LE ALTIMETRIE

Note: mancano il cronoprologo di Palermo, l’8a tappa (Avezzano), la 15a (Erba) e la 22a (Merano)

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1978, QUEL GIORNO TRA CALLI E RII

maggio 19, 2020 by Redazione  
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Nel 1978 Vincenzo Torriani riesce finalmente a coronare il suo “sogno rosa” di portare il Giro d’Italia in Piazza San Marco a Venezia. È questa la tappa principalmente ricordata di quell’edizione, pur non avendo avuto un peso significativo nella storia di quel Giro, vinto dal belga Johan De Muynck e che segnò la nascita della rivalità tra Moser e Saronni.

Il Giro del 1978 è forse l’unico della storia della Corsa Rosa a essere ricordato non per l’impresa di un campione o per una particolare azione di corsa, ma per una tappa a cronometro breve e nemmeno troppo incisiva per la classifica. Quella era la tappa che vide concretizzarsi un sogno ricorrente di Vincenzo Torriani, quello di portare il Giro d’Italia in Piazza San Marco a Venezia prima che i francesi riuscissero a organizzare un arrivo di tappa in cima alla Tour Eiffel (parole sue). Non era la prima volta che il vulcanico patron accarezzava questo sogno che era arrivato vicino a realizzare nel 1963 perché nel marzo di quell’anno, quando fu svelato il percorso del Giro, sulla planimetria spiccava tra le altre frazioni una cronometro di 50 Km che collegava Treviso a Piazza San Marco. Nelle settimane successive, però, il progetto saltò e quella tappa si disputò tutta sulla terraferma, in circuito attorno a Treviso. E forse fu meglio così perché se quel giorno si fosse corso sul tracciato prestabilito si sarebbe arrivati a Venezia in un giorno molto triste per l’Italia, per il mondo intero e per la città veneta in particolare: era il 4 giugno e ventiquattrore prima era venuto a mancare Giovanni XXIII, il “Papa Buono” che prima di essere eletto pontefice era stato per molti anni patriarca di Venezia. Torriani per poter finalmente vedere i suoi “girini” pedalare tra calli e rii dovrà attendere l’intero pontificato del successore di Papa Roncalli: riuscirà nel suo progetto nel 1978, tre mesi prima della scomparsa di Papa Paolo VI, al quale succederà un altro patriarca veneziano, quell’Albino Luciani che prenderà il nome di Giovanni Paolo I e il cui papato durerà solamente 33 giorni.

Al via di quell’edizione del Giro, che scatta da Saint-Vincent con un breve “preludio agonistico” in salita di 2 Km dal casinò alle terme, ci sono due grandi favoriti, l’italiano Gianbattista Baronchelli, che era giunto terzo al Giro dell’anno precedente, e il tedesco Dietrich Thurau, che si era piazzato quinto all’ultimo Tour. Anche Francesco Moser, secondo l’anno prima, potrebbe fare bene grazie alle cronometro, mentre c’è molta attenzione sul promettente Giuseppe Saronni, al secondo anno di professionismo, che corre in squadra con Baronchelli. C’è anche il “vecchio” Felice Gimondi, che viaggia verso i 36 anni e affronta il suo ultimo Giro per fare da spalla a Johan De Muynck, il corridore belga al quale due anni prima il bergamasco aveva soffiato la maglia rosa per soli 19” alla penultima tappa. Manca, invece, il connazionale Michel Pollentier, che aveva vinto il Giro del 1977 e per quella stagione ha messo nel mirino il Tour, corsa dalla quale sarà espulso per aver tentato di frodare il controllo antidoping al traguardo della tappa dell’Alpe d’Huez, che aveva vinto conquistando la maglia gialla, poi assegnata all’olandese Joop Zoetemelk (a Parigi arriverà in giallo Bernard Hinault).

Il primo giorno di gara risulta piuttosto caotico a causa della decisione di anticipare di sette giorni la partenza del Giro rispetto alle date solite per evitare la sovrapposizione mediatica con la prima settimana del campionato mondiale di calcio, che inizia in Argentina il primo giugno. In questa maniera, però, il prologo del Giro viene a disputarsi il 7 maggio, lo stesso giorno nel quale si conclude il Giro di Romandia e ci sono corridori iscritti a entrambe le gare che, una volta terminata la corsa elvetica a Thyon, devono poi precipitarsi in Valle d’Aosta. Così si decide di non considerare il “preludio” né valido per la classifica, né per l’assegnazione della maglia rosa, istituendo premi e ingaggi per ciascun corridore, che solo per prendere parte alla gara riceveranno dall’organizzazione centomila lire dell’epoca (corrispondenti a circa 340 €). Nonostante questo ci sono proteste e alcuni corridori – come Gimondi, per esempio, che arrivava proprio dal Romandia – decidono di rimanersene in albergo e di non disputare la gara, senza venire per questo sanzionati dalla giuria, che forse ha capito che non è il caso di usare il pugno di ferro. Per chi, invece, sceglie di correre il tempo migliore è quello di Thurau che per soli 4 centesimi di secondo fa meglio di Moser, mentre terzo a 3” è Saronni.

Il primo atto ufficiale è una frazione pianeggiante di 175 Km che dalla località termale valdostana conduce a Novi Ligure, dove il belga Rik Van Linden conquista la prima maglia rosa regolando allo sprint Thurau e il connazionale Alfons De Bal. E, nonostante l’ascesa al Passo del Bracco nel finale della tappa successiva, si arriva allo sprint anche sul traguardo della Spezia, dove Van Linden riesce a difendere la sua leadership piazzandosi secondo alle spalle di Saronni. Beppe esulta sul traguardo per la sua prima vittoria in carriera al Giro, ma non sa ancora che non ci sarà festa per il suo successo perché la direzione ha sospeso tutte le cerimonie di rito in seguito al tragico epilogo del sequestro di Aldo Moro, il cui cadavere era stato rinvenuto quel pomeriggio nel bagagliaio di un’auto parcheggiata in Via Caetani a Roma.

A differenza di quanto accaduto nel 1974, quando dopo la strage di Piazza della Loggia il Giro osservò un giorno di riposo in segno di lutto, stavolta la Corsa Rosa non si ferma e propone il giorno successivo la prima salita, il Monte Serra. Sull’ascesa pisana se ne va un uomo pericoloso come De Muynck e dietro Moser insegue, almeno fino a quando il trentino si accorge che Saronni non lo aiuta e rallenta. È forse in quest’occasione che nasce la storica rivalità tra i due corridori, che oggi si fanno scappare un pesce grosso come il belga, giunto al traguardo di Cascina con 52” sul gruppo degli altri migliori (regolati proprio dal trentino) e sulle spalle quella maglia rosa che non mollerà più.

Non sarà comuque una passeggiata quella sulle strade d’Italia per De Muynck, che l’indomani dilapiderà quasi tutto quanto guadagnato sul Monte Serra nella cronometro individuale da Larciano a Pistoia, 25 Km pianeggianti a parte il pedalabile strappetto di Serravalle Pistoiese. Come nel preludio valdostano, è Thurau il più lesto a coprire la distanza, impiegando poco più di mezz’ora alla media di 47,650 Km/h e precedendo anche in quest’occasione Moser, secondo a 7”. Saronni accusa 37”, principalmente a causa di un incidente meccanico che lo rallenta, il peggiore dei big è Baronchelli che perde 1’22” dal tedesco, mentre la maglia rosa si piazza sesta a 44” e salva il primato per soli 8”, con Moser che torna a farsi sotto e ora è 3° a 15”.

Seguono due tappe destinate ai velocisti, entrambe conquistate da Van Linden, che a Cattolica precede Moser e Marino Basso, mentre a Silvi Marina a essere battuti dal belga sono i connazionali Roger De Vlaeminck e De Bal.

Dopo il Serra, le prime vere montagne del Giro d’Italia n° 61 sono quelle dell’appennino abruzzese, attraversato nel corso della Silvi Marina – Benevento. Affrontate molto lontane dal traguardo, le salite del Piano delle Cinquemiglie, di Rionero e del Macerone servono solo per far fuori parte dei velocisti e il tedesco Thurau, partito da Silvi con febbre e bronchite e arrivato a Benevento con oltre quattro minuti di ritardo dal gruppo dei 31 corridori che si giocano il successo allo sprint, conquistato da Saronni.

La seconda occasione per gli scalatori viene offerta il giorno dopo dalla frazione che termina a Ravello, spettacolare belvedere sulla costiera amalfitana sul quale si giunge dopo aver affrontato il Monte Faito, sul quale quattro anni prima Fuente aveva “saccagnato” Merckx. Ma anche in questa tappa c’è parecchia strada da percorrere dopo lo scollinamento, circa 45 Km per la precisione, e non si muove nessuno fino al passaggio da Amalfi, dove inizia la rampa finale verso Ravello e dove parte Saronni, un tentativo che nessuno riesce a rintuzzare. È ancora lui a imporsi, stavolta per distacco: dopo 19” transita sulla linea del traguardo Baronchelli, primo corridore di un gruppo ridotto a una ventina di elementi nel quale ci sono tutti i migliori di classifica, ancora comandata da De Muynck con 15” su Moser e 26” su Saronni.

Van Linden si conferma ancora miglior sprinter del Giro 1978 imponendosi nella volata del gruppo sul traguardo della Amalfi – Latina. Ma non vince perché quello è lo sprint dei “battuti”, in una tappa nella quale la fuga da lontano riesce ad andare fino alla meta (la vittoria premia il pesarese Enrico Paolini) e un corridore s’installa alle spalle del podio di classifica: grazie al minuto e poco più guadagnato grazie a questo tentativo, il varesino Wladimiro Panizza scala posizioni fino ad agguantare il quarto posto a 34” da De Muynck.

Nel cuore geografico dell’Italia si corre un’altra tappa di montagna, che ha il suo spauracchio nell’interminabile salita al Terminillo, la cui vetta è posta a 50 Km dal traguardo, fissato in riva al Lago di Piediluco. A dispetto dalla notevole distanza da percorrere dopo la cima della “montagna dei romani” stavolta la battaglia infuria e lascia sul campo diverse vittime, a cominciare dal ritiro di un delibitato Thurau. Tra chi viene piegato dalla salita laziale ci sono nomi di spicco, come quelli di Saronni, di Moser e del vincitore del Giro del 1975 Fausto Bertoglio, che al traguardo accusano un passivo di quasi due minuti rispetto a De Muynck, che conclude la frazione – vinta dal futuro direttore sportivo Giuseppe Martinelli – assieme a Panizza, Battaglin e Baronchelli. Ora l’unico corridore che in classifica ha un ritardo inferiore al minuto dal belga è il varesino, 2° a 34”.

Il programma dopo il Terminillo prevede due semitappe poco impegnative, la prima delle quali termina con il successo in solitaria del bergamasco Bruno Zanoni, che sul traguardo della Terni-Assisi precede di un paio di secondi un altro neoprofessionista di belle speranze, quel Roberto Visentini che nel 1986 vincerà il Giro e l’anno successivo sarà tradito dal suo luogotenente Stephen Roche nella storica tappa di Sappada.

Registrato il ritiro del tre volte vincitore di tappa Van Linden, che riporta una lieve commozione cerebrale per aver battuto la testa a 300 metri dal traguardo di Assisi, nel pomeriggio si riparte alla volta di Siena per una frazione sponsorizzata da una nota cantina vinicola chiantigiana, che ha messo in palio per la maglia rosa di turno bottiglie di vino per un valore complessivo di circa tre milioni delle vecchie lire (circa diecimila euro odierne). A brindare sul traguardo toscano sarà anche Moser, che “vendica” la giornata storta trascorsa ventiquattrore prima scattando a 2 Km dal traguardo e riuscendo per 3” a resistere al ritorno di un gruppo che la sera sarà raggiunto dalla notizia del ritiro delle competizioni di Eddy Merckx, annunciato dall’oramai ex cannibale in una conferenza stampa a Bruxelles.

Mentre i “suiveurs” commentano lo storico e inatteso annuncio del campione belga, nei cui progetti iniziali della stagione c’era la partecipazione al suo ultimo Tour de France nel luglio successivo, il gruppo si rimette in marcia per un’insidiosa frazione disegnata sulla nervosa geografia dell’appennino romagnolo. La partenza viene data da Poggibonsi, il traguardo è posto sulla vetta del Trebbio, il piccolo colle consacrato dalle tre vittorie di Fausto Coppi al Giro di Romagna, del quale è la salita più emblematica. Il percorso è piuttosto complicato ma tra i big c’è pochissima selezione, con Saronni che guadagna appena tre secondi e Moser che invece ne perde cinque, vanificando il piccolo vantaggio preso a Siena. Davanti si danno battaglia per il successo di tappa i gregari con l’anziano (33 anni compiuti due giorni dopo) Ottavio Crepaldi che parte secco a circa 1500 metri dal traguardo e rimane in testa sino ai meno 300 metri, quando la sua azione si esaurisce di schianto e viene superato da tre colleghi, tra i quali c’è il piemontese Giancarlo Bellini, che nel 1970 era stato il primo vincitore del Giro d’Italia riservato ai dilettanti e che s’impone sul colle romagnolo con 8” sul trevigiano Claudio Bortolotto e 10” sul varesino Alfredo Chinetti, mentre Crepaldi è solo 4° a 22”.

Alla vigilia della tappa di Venezia si disputa una noiosa frazione di trasferimento che parte da Modigliana per arrivare a Padova, dove Moser bissa il successo di due giorni prima regolando in volata il bresciano Pierino Gavazzi e il varesino Luciano Borgognoni.

Il 21 luglio è il grande giorno che Torriani sogna da anni e per il quale stravede, forse ancor più del tappone dolomitico in programma qualche giorno più tardi e che comunque qualche grattacapo lo sta dando all’organizzatore a causa della neve che ancora ammanta i passi. Ma ora i suoi occhi sono tutti per i 12 Km che ha predisposto tra i cantieri navali di Marghera e Piazza San Marco, dove si giungerà dopo aver percorso il ponte translagunare realizzato negli anni ’30. Il percorso prevede poi di costeggiare la stazione marittima e quindi lasciare l’asfalto al momento dello sbarco sulle Fondamenta delle Zattere, strada lastricata che costeggia il canale della Giudecca e che supera cinque piccoli rii con ponticelli sui quali per l’occasione vengono installate pedane che permetteranno ai “girini” di rimanere in sella alle biciclette. Lasciate le “Zattere” si svolta in Rio Terà dei Saloni per attraversare il sestiere (quartiere) di Dorsoduro e giungere al cospetto dell’imponente Basilica di Santa Maria della Salute, di fronte alla quale inizia un traballante ponte di barche appositamente costruito sbarrando il corso del Canal Grande, percorrendo il quale si punterà dritti verso il traguardo di Piazza San Marco. È un miraggio che prende forma tra molti timori, sia per le previsioni meteo che annunciano pioggia, sia per il rischio che qualche corridore “svirgoli” e si ritrovi in acqua tirandosi dietro la bici (c’erano ancora i lacci a tener fermi i piedi sui pedali), rischio considerato dall’organizzazione che ha predisposto una ventina di sommozzatori nei punti critici. Fortunatamente nessuno incappa in bagni inattesi in questa giornata che piace molto a Torriani e molto meno ai corridori, che si vedono respinta la richiesta di prendere i tempi di gara a circa 1.5 Km dall’arrivo, nel punto dove finisce l’asfalto: la crono terminerà in Piazza San Marco anche per i cronometri, che assegnano la vittoria a Moser – uno dei corridori più a rischio quest’oggi, non essendo capace di nuotare – in 16 minuti e 11 secondi, alla media di 44.484 Km/h. Alla fine sarà anche una crono di basso impatto in classifica, poco più di un prologo, vista le contenute entità dei distacchi: 6” per Visentini, 14” per Saronni, 22” per De Muynck e 25” per Baronchelli, mentre tra i primi della classifica quello che paga di più è Panizza, 15° a 51”, che riesce comunque a mantenere il secondo posto in classifica, anche se ora il suo ritardo dalla maglia rosa supera di poco il minuto.

Archiviata l’irripetibile crono veneziana – interpellato il giorno prima su una riproposizione di quella tappa Torriani disse “Io sono come Paganini: non ripeto” – ora l’attenzione si sposta sul tappone dolomitico in programma fra Treviso e Canazei dopo l’unico riposo previsto quest’anno. È una giornata febbrile per l’organizzazione, che si vede costretta a causa del rischio di valanghe a modificare tutto il finale stralciando dal percorso le ascese ai passi Cibiana, Falzarego e Pordoi, che vengono sostituite da quelle a Rolle, Valles (nuova Cima Coppi) e San Pellegrino. Ne viene fuori un percorso più lungo dell’originale (si passa da 220 a 234 Km), con l’ultimo colle piazzato a 30 Km dal traguardo, inizialmente previsto esattamente in fondo alla discesa del Pordoi. Ma alla fine quello che sembra un ripiego meno appetitoso della portata inizialmente imbandita si rivelerà una tappa molto più selettiva delle previsioni, che vede per primi giungere al traguardo tre corridori – il romagnolo Alfio Vandi, la maglia rosa De Muynck e Baronchelli, che s’impone nel tappone – con Saronni e Panizza che crollano, mentre Moser stringe i denti e limita i danni a poco più di un minuto, compresi i nove secondi di penalizzazione ricevuti per spinte. Ora la maglia rosa ha 1’33” di vantaggio su Baronchelli e 3’03” su Moser, che nell’immediato ha a disposizione un’altra tappa favorevole alle sue caratteristiche, molto più lunga rispetto a quella di Venezia.

La crono disegnata sulle strade delle valli di Fassa e di Fiemme, da Mazzin a Cavalese, è lunga quasi 50 Km e presenta la prima metà tracciata in dolce discesa, un tratto nel quale uno spilugone come Moser può imprimere alte velocità, favorite anche dall’alta quota alla quale si gareggia. Non può che vincerla Francesco e con distacchi decisamente superiori a quelli registrati in Piazza San Marco: sulle strade di casa il campione del mondo in carica vola a 46,591 Km/h e recupera 2’18” a De Muynck, scavalcando in classica Baronchelli – oggi staccato di 1’42” – e portandosi in seconda posizione a 45” dal belga, mentre il mantovano scende di un gradino pur avendo recuperato circa mezzo minuto dal leader della corsa.

Quanto costruito nella crono dal trentino viene però totalmente demolito l’indomani dall’ultima tappa veramente difficile della corsa, che a breve dovrà fare i conti con un altro taglio di percorso a causa della neve. Ripartendo da Cavalese si deve arriva in cima al mitico Bondone, che torna a essere arrivo di tappa ventun anni dopo l’ultimo traguardo fissato lassù (la famosa tappa della pipì di Gaul, Giro del 1957). Stavolta la conoscenza del territorio non gioca a favore di Moser, che notoriamente soffre le salite impegnative e che oggi giunge in ritardo al traguardo, 1’36” dopo la maglia rosa e 2’37” dopo il vittorioso arrivo di Panizza. I gradini più bassi del podio tornano ora a invertirsi, con Baronchelli secondo a 59” e Moser 3° a 2’10”, una situazione che dovrebbe cristallizzarsi e non essere più messa in discussione perché l’ultima tappa di montagna non dovrebbe causare grosse sorprese e perché il corridore più vicino al podio, Panizza, ha un ritardo di quasi otto minuti.

Forse ci sarebbe stato spazio per un’altra giornata di distacchi fioccanti tra i primi tre se la Trento – Sarezzo si fosse disputata sul tracciato prestabilito, che prevedeva il temuto Passo di Croce Domini prima delle ascese della Presolana e del Passo Tre Termini. Ma la neve costringe l’organizzazione ad un altro cambio di programma, “dirottando” il gruppo verso il Tonale e conservando le altre due salite di una tappa che termina con un nulla di fatto tra i primi di classifica, mentre i tifosi a bordo strada inveiscono contro gli italiani, colpevoli di non aver attaccato abbastanza il belga in rosa (e ci scappa anche qualche ombrellata ai danni di Moser). Intanto s’invola verso la vittoria il ligure Giuseppe Perletto, che taglia il traguardo alle porte di Brescia con 18” sul gruppo, regolato allo sprint dal corridore di casa Gavazzi.

Ci sarebbe ancora una salita da affrontare, la Cima Sormano, che poi altro non è che lo scollinamento del celebre muro, anche se il muro i corridori neanche lo vedranno salendo dal versante di Nesso per poi planare dalla più comoda strada verso Asso. Si devono poi percorrere 37 Km per completare la Brescia – Inverigo, frazione che non può dire nulla per la classifica ma che costituisce una succulenta opportunità per i cacciatori di tappe. La fuga da lontano parte ed è una fuga di lusso perché dentro ci sono corridori del calibro di Saronni e di Bertoglio, ma dura quanto un amen. Poi sul Sormano non succede nulla di nulla, forse anche a causa del tempaccio che riversa sui corridori secchiate di grandine. E la tappa si risolve con un paio di sparate nei chilometri conclusivi, dove azzecca il momento giusto Vittorio Algeri, che si presenta sulla fettuccia del traguardo un paio di secondi prima del sopraggiungere del gruppo, regolato da Martinelli.

Mancano 220 Km alla consacrazione di De Muynck, tanto è lunga l’ultima, inutile tappa verso Milano, dove in Piazza Duomo Gavazzi ottiene la sua terza affermazione in carriera al Giro davanti a Martinelli, secondo anche oggi, e Saronni. Finisce così l’ultima edizione della corsa rosa vinta da un corridore proveniente dal Belgio, l’edizione che mise in luce il talento di Saronni, che segnò l’inizio dell’annosa rivalità con Moser e che distolse un attimo l’attenzione degli italiani dalle tragiche vicende di Aldo Moro. Ma che sarà principalmente ricordata per quei 12 Km pericolosamente vissuti tra le calli e i rii di Venezia.

Mauro Facoltosi

LE ALTIMETRIE

Note: mancano il prologo (Saint-Vincent), la 1a tappa (Novi Ligure), la 3a (Cascina), la 5a (Cattolica), la 9a (Latina), la 18a (Sarezzo), la 19a (Inverigo) e la 20a (Milano). L’altimetria della 15a tappa (Canazei) è quella originaria, modificata per neve.

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1957, TUTTA COLPA DI UNA “PISSADA”

maggio 18, 2020 by Redazione  
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È l’episodio più celebre dell’edizione del 1957 quella sosta per un bisogno fisiologico che costò la vittoria nella Corsa Rosa a Charly Gaul. Il corridore lussemburghese puntava a uno strepitoso bis al Giro e, invece, si ritroverà messo in croce proprio nella tappa alla quale più puntava, quella che terminava sul quel monte trentino che l’aveva consacrato dodici mesi prima.

Nel 1949 viene fondata a Legnano una delle più celebri compagnie di teatro dialettali italiane, quei “Legnanesi” la cui fama travalicherà ben presto i confini della Lombardia arrivando a “contagiare” anche le genti delle altre regioni (pure al sud, come testimoniano i recenti passaggi televisivi su Rete4 registrati dall’Auditel), grazie anche alla simpatia dei personaggi creati da Felice Musazzi, in particolare la brontolona moglie Teresa e il sempre avvinazzato marito Giovanni. In uno dei più noti sketch ideati da Musazzi si vede Teresa riproverare il marito perché sul posto di lavoro si era fatto sostituire da un collega per andare in bagno e proprio in quel momento il collega aveva perso la vita a causa di un infortunio, in conseguenza del quale alla povera vedova era stato riconosciuto un risarcimento milionario. E così Teresa sgridava l’incolpevole Giovanni facendogli notare che doveva esserci lui al posto del collega e così lei aveva perso l’occasione di diventare milionaria per colpa di una “pissada” (termine che non vi traduciamo, tanto l’avete capito). Vi abbiamo raccontato questa storia perché Musazzi – che nelle sue storie inserirì anche richiami al ciclismo (come quando fece raccontare a Teresa che il marito la portò a compiere la Tre Valli Varesine in bicicletta come viaggio di nozze) – potrebbe aver trovato l’ispirazione per quello sketch da quanto accadde a Charly Gaul al Giro del 1957, che il lussemburghese perse proprio per una “pissada”.

Per Gaul quella doveva essere l’edizione della conferma, dopo aver vinto a sorpresa il Giro dell’anno prima nella storica tappa del Monte Bondone. Fino a quel momento il lussemburghese si era fatto notare vincendo un paio di tappe al Tour nel 1955, una frazione al Delfinato nel 1954 e la cronoscalata alla Madonna di San Luca proprio nel Giro del 1956, ma nessuno avrebbe puntato un soldo sulla sua vittoria, anche perché alla partenza della tappa del Bondone in classifica generale era ventiquattresimo con un ritardo di 16 minuti dalla maglia rosa, Pasquale Fornara. Ma quell’8 giugno un eccezionale colpo di coda della stagione invernale trasformò in un incubo l’ultima tappa di montagna, con i corridori letteralmente congelati al traguardo, 45 ritiri (su 86 partenti da Merano) e Gaul proiettato dai bassifondi della classifica alla posizione di comando. Tornando al 1957, Gaul non è l’unica “stella”al via perché a sfidare il lussemburghese ci sono anche l’italiano Gastone Nencini, che ancora ha il dente avvelenato per la clamorosa sconfitta al Giro del 1955, il citato Fornara, il francese “Louison” Bobet e il giovane neoprofessionista Ercole Baldini, passato nella massima categoria pochi mesi dopo aver conquistato la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Melbourne. Fa, invece, una certa sensazione la mancanza di Fausto Coppi, che sin dall’edizione del 1940 non aveva mai mancato l’appuntamento con il Giro e che salterà quasi completamente la stagione 1957 a causa di una frattura al collo del femore patita a febbraio, incidente che farà temere per la fine della sua carriera anche se da qualche anno il “Campionissimo” non era più l’asso di un tempo.

L’inizio del Giro è subito velocissimo e ad alta tensione. La prima tappa da Milano a Verona scivola via a una media di quasi 45 Km/h e si assistono a diversi tentativi di fuga, nei quali si fanno vedere anche alcuni dei favoriti per il successo finale come Bobet e Fornara, che s’infilano nel gruppo di 13 corridori che si presentano sul rettilineo d’arrivo quasi due minuti prima degli altri. A vestirsi di rosa per la prima volta quest’anno è il belga Rik Van Steenbergen, che ottiene la sua 11a vittoria in carriera al Giro precedendo allo sprint lo spagnolo Miguel Poblet e il cremasco Pierino Baffi e spegnendo in parte le proteste scaturite dalla sua decisione di non presentarsi alla punzonatura della corsa il giorno prima, per la quale era stato chiesto anche un intervento della giuria, che però si era dichiarata incompetente a giudicare il caso e non aveva così preso provvedimenti.

La seconda tappa è di quelle che già stimolano Gaul che, come abbiamo ricordato, al Giro dell’anno prima si era imposto nella cronoscalata di San Luca. Stavolta la prova contro il tempo in salita arriva molto presto, al secondo giorno di gara, e su una distanza ben maggiore rispetto ai 2 Km della tappa bolognese. Di chilometri se ne devono, infatti, percorrere 28 per raggiungere i poco più di 1000 metri della località di villeggiatura di Bosco Chiesanuova, dove è ancora Charly a far valere la legge del più forte su questo tipo di terreno fermando il cronometro sul tempo di 55’04” (media di 30.508 Km/h) e distaccando di 57” il francese d’origini romagnole Raphaël Géminiani e di 1’13” il piemontese Nino Defilippis, mentre il primo dei diretti avversari è Bobet, che perde 1’15” (lo stesso distacco di Baldini) ma conquista la maglia rosa grazie al vantaggio acquisito nella prima tappa. Ora il francese comanda con 27” su Poblet e 37” su Gaul, mentre Fornara è 4° a 49”, Baldini 8° a 1’52” e Nencini 12° a 2’32”.

Dopo le prime sfide tra i big si torna in pianura per la Verona – Ferrara, altra tappa che fa l’occhiolino ai velocisti e che termina con un verdetto ribaltato rispetto a quello della prima frazione perché è Poblet a prevalere su Van Steenbergen. Stavolta l’arrivo è a gruppo compatto ma, come il primo giorno di corsa, lungo la tappa s’è verificato un tentativo altisonante con protagonista Nencini, che approfitta di un passaggio a livello che si stava abbassando a 40 Km dall’arrivo – cosa all’epoca consentita – e si porta dietro altri sei corridori, mentre l’inseguimento forsennato provoca la rottura in più drappelli del gruppo, che impiega quasi 15 minuti per riuscire a riportarsi sulla testa della corsa.

L’attacco sfumato sulla strada per Ferrara riesce invece il giorno dopo, quand’è in cartellone un’altra frazione dal profilo totalmente piatto, interamente tracciata sulle strade di Romagna, da Ferrara a Cattolica. Come il giorno prima a provarci sono Nencini e Defilippis, che stavolta si muovono in un momento particolare, quando a 60 Km dall’arrivo il gruppo si rilassa un attimo dopo aver ripreso un precedente tentativo. I due si ritrovano in testa alla corsa con una ventina di altri corridori e viaggiano spediti, arrivando al passaggio da Rimini a far vestire a Defilippis, seppur virtualmente e per pochi secondi, la maglia rosa. Arrivati a Cattolica, dove a imporsi è il belga André Vlayen, la situazione a livello distacchi è di poco mutata ma a ruoli invertiti perchè Bobet riesce a tenersi sulle spalle la maglia rosa per 8 secondi, mentre Nencini risale al 6° posto con un passivo di 50” dal transalpino. È una giornata, questa, nella quale non si parla solo di Giro perché in serata arriva anche l’annuncio del ritiro alle competizioni su strada dell’elvetico Hugo Koblet, il primo vincitore straniero della Corsa Rosa (1950), che inizialmente aveva messo la corsa italiana nei suoi programmi e che, nonostante il terzo posto al recente Tour de Romandie, si era accorto di non rendere più in salita come un tempo a causa di problemi alla colonna vertebrale.

Rimasti finora a bocca asciutta gli italiani assaporano per la prima volta il successo al termine della Cattolica – Loreto, frazione caratterizzata da uno strappo finale sul quale lascia la compagnia dei fuggitivi Alessandro Fantini, velocista abruzzese che perderà la vita a soli 29 anni nel 1961, dopo due giorni d’agonia e un apparente miglioramento in seguito ad un incidente allo sprint avvenuto sul traguardo della tappa di Treviri del Giro di Germania. Nel frattempo un altro corridore si avvicina sensibilmente alla leadership di Bobet poiché, grazie ai quasi 4 minuti guadagnati nella fuga odierna, Baffi risale ben 28 posizioni in classifica portandosi al quarto posto con 21” di ritardo dalla maglia rosa.

Il giorno dopo nella Loreto – Terni Defilippis prova ancora a demolire gli 8 secondi che lo separano dalla maglia rosa ma l’imboscata non gli riesce, dopo aver nuovamente provato sulle proprie spalle l’effimera ebbrezza della leadership virtuale. Gli va male perché, dopo 100 chilometri di fuga e aver guadagnato fino a 4 minuti di vantaggio, il gruppo di Bobet riesce ad organizzarsi e annulla il tentativo quasi in fondo alla discesa che dal Passo della Somma porta al traguardo di Terni, mentre davanti rimangono due dei sette protagonisti della fuga promossa da Defilippis, che erano riusciti a lasciare la compagnia al passaggio da Spoleto: uno è il piemontese Ugo Massocco, che tre anni prima si era imposto nella classifica finale del Giro di Sicilia, l’altro è l’olandese Wout Wagtmans, che taglia per primo il traguardo della cittadina umbra affiancando questo successo agli altri due conseguiti alla Corsa Rosa nel 1954 (tappe di Torino e San Martino di Castrozza).

Le prime salite di un certo calibro, seppur distanti dal traguardo, si affrontano nella Terni – Pescara e poi nella successiva tappa diretta a Napoli. Nel corso della prima, che scavalca in due punti la catena appennica, prima alla Sella di Corno e poi al Passo delle Capannelle, i big preferiscono risparmiarsi in vista della più movimentata frazione napoletana e così ha gioco facile la fuga, pur questa arrivando con un vantaggio abbastanza risicato al traguardo di Pescara (27 secondi), dove il francese Antonin Rolland coglie il successo davanti al piemontese Agostino Coletto.

Come anticipato, propone un menù più succulento la tappa del giorno dopo, che porta la corsa sulle mitiche ascese del Piano delle Cinquemiglia, di Rionero Sannitico e del Macerone, che continuano a suscitare un po’ di timore nonostante i 110 Km privi di ostacoli naturali che si devono percorrere per andare al traguardo dopo l’ultimo colle. Le tre salite, in effetti, non provano nessuno scompiglio ma chi aspettava un ennesimo attacco di Defilippis non rimane deluso, anzi trova oggi il modo di gioirne perché il tentativo finalmente porta all’obiettivo perseguito da giorni dal corridore piemontese. L’attacco al vertice si concretizza nel finale quando, a pochi chilometri dal traguardo, il trevigiano Vito Favero prende l’iniziativa e lascia il gruppo con un’azione talmente decisa che soltanto in due riescono a tenergli le ruote, Defilippis e il marchigiano Michele Gismondi. I tre riescono ad andare di comune accordo sino al traguardo, dove s’impone Favero e dove, grazie ai 21 secondi guadagnati, Defilippis stavolta può fasciarsi anche fisicamente della maglia rosa, strappata a Bobet per 13 secondi.

S’inizia a risalire la penisola con la tappa che fa scalo a Frascati, inserita per recuperare la frazione saltata l’anno precedente a causa della concomitanza con la data delle elezioni politiche, che avevano costretto Torriani a far annullare la tappa ed inserire un giorno di riposo straordinario per permettere ai corridori italiani di votare. Fino al 1993, infatti, la partecipazione alle votazioni era obbligatoria e fino al 1956 era anche prevista una multa, poi sostituita dall’anno successivo dall’iscrizione dei “non votanti” senza giustificato motivo (e la partecipazione al Giro non lo era, per lo stato) in un apposito certificato. Questo “girone di recupero”, però, serve a poco o nulla perché la tappa termina – nonostante diversi tentati di fuga, tra i quali un altro di Defilippis – con lo sprint di un folto gruppo di una cinquantina di elementi, dal quale emerge per la seconda volta la sagoma di Poblet, che anche nella cittadina laziale ha la meglio su Van Steenbergen.

Per lo sprinter iberico arriva quindi il “triplete” con il terzo successo al Giro 1957 sul traguardo della successiva Roma – Siena, dove precede Fantini e il romano Nello Fabbri, mentre gli sfugge il pokerissimo a Montecatini, dove Van Steenbergen porta a due il suo bilancio di vittorie in questa edizione della corsa rosa davanti a Giorgio Albani e Baldini.

Lo stesso pomeriggio della tappa di Montecatini fa la comparsa al Giro il convalescente Coppi, venuto a fare da spettatore all’attesa tappa che si disputerà dopo il giorno di riposo, quando è in programma una lunga cronometro individuale disegnata tra la località termale toscana e Forte dei Marmi. Sotto gli attenti occhi del “Campionissimo” sfreccia più veloce di tutti il corridore che negli anni successivi si meriterà l’appellativo di “Direttissimo di Forlì”, quel Baldini che oggi corre per davvero alla velocità di un treno diretto e si beve i 58 Km del tracciato in 1h19′46”, alla media di 44,223 Km/h, vincendo la cronotappa con otto secondi di vantaggio sul vicentino Cleto Maule. Per quanto riguarda gli altri “grandi” Nencini viene distanziato di 1’15” dal campione olimpico, Bobet paga 1’50” ma si riprende la maglia rosa, Gaul e Fornara terminano rispettivamente con un distacco di 2’16” e 2’29”, mentre il vincitore si piazza immediatamente alle spalle di “Louison” in classifica, dal quale lo separano appena 2 secondi. Dopo la lunga crono, dunque, il Giro è più aperto che mai, perché ridottissimi sono i distacchi anche tra i primi cinque della classifica: dietro a Baldini ci sono Nencini a 15” da Bobet, Defilippis a 27” e Gaul a 55” mentre il primo a superare il minuto di ritardo è Fornara, 6° a 1’28”.
Il Giro punta ora verso le frazioni alpine, anticipate da due tappe di trasferimento la prima delle quali termina a Genova con il successo del laziale Bruno Monti, che taglia il traguardo solitario anticipando di un minuto e mezzo la volata del gruppo, conquistata da Poblet.

Un’altra fuga, questa a diciotto voci, va in porto nella tappa di Saint-Vincent e stavolta riesce a cambiare il volto della maglia rosa perché tra gli attaccanti giunti nella cittadina valdostana (dove s’impone il toscano Mario Baroni) con quasi 5 minuti sul gruppo c’è Rolland, il vincitore della tappa di Pescara, che oggi toglie per 5 secondi il simbolo del primato dalle spalle del suo capitano Bobet.

C’è intanto fibrillazione in casa Gazzetta per la prima tappa di montagna perché l’ANAS non ha ancora accordato il permesso di transitare sul Gran San Bernardo, nonostante si sia riusciti a liberare per tempo la strada dalle sei slavine precipitate dai monti nei giorni precedenti il passaggio della corsa. I tecnici del Giro già approntano un tracciato alternativo che prevede l’arrivo in salita ad Alagna Valsesia in sostituzione del traguardo in terra elvetica di Sion, ma poi arriva il via libera e la tappa si può disputare sul percorso prestabilito di 133 Km, che prevede l’ascesa ai 2473 metri del passo poco prima di metà tappa. Il corridore più atteso non fa mancare il proprio apporto alla cronaca di corsa andando all’attacco sul San Bernardo, tra due muraglie di neve, e riuscendo a rimanere a lungo in testa alla corsa, fin quando Gaul non viene raggiunto quasi al termine della discesa da Géminiani, Nencini e Bobet. È questo quartetto a costituire l’avanguardia della corsa nel lungo tratto pianeggiante finale, al termine del quale Bobet in un solo colpo si prende la vittoria di tappa e si riappropria della maglia rosa data in temporaneo prestito al suo compagno di squadra, mentre Baldini e Fornara perdono qui l’opportunità di competere per il successo finale tagliando entrambi il traguardo 4’59” dopo l’arrivo dei primi.

Al rientro in Italia è prevista un’altra preziosa occasione per Gaul, anche perché stavolta l’arrivo è in salita, ai 1100 metri del Campo dei Fiori, la montagna sopra Varese dove il Giro giunge dopo una tappa bersagliata da vento e forte pioggia che fanno venire i brividi perché ancora “fresco” è il ricordo della giornata del Bondone dell’anno prima e qualche giorno più tardi si tornerà a far scalo sulla montagna trentina. Stavolta ci sono tutte le condizioni perché lo scalatore lussemburghese riesca a confezionare un’altra impresa leggendaria, pur senza la neve a far da companatico all’avventura, e Charly ci riesce, anche se il suo non è un “en plein” perché la vittoria gli sfugge per 51 secondi, il vantaggio con il quale giunge al traguardo il veneto Alfredo Sabbadin. Dietro il lussemburghese, però, i distacchi sono importanti e qualcuno già suona il “De Profundis” per un’edizione della Corsa Rosa che a questo punto pare decisa a favore di Gaul: Nencini giunge al traguardo varesino 1’16” dopo l’arrivo di Charly mentre per vedere Bobet sotto lo striscione del traguardo occorre attendere un ulteriore minuto.

Con una classifica rivoluzionata – ora Gaul è tornato a comandare con 56 secondi sul toscano e 1’17” sul francese mentre al quarto posto a oltre 6 minuti c’è Baldini – si corre una giornata interlocutoria suddivisa in due semitappe, la prima da Varese a Como e la seconda, brevissima, tutta in circuito nella cittadina lariana. Le difficoltà sono ridotte all’osso, si arriva allo sprint in entrambe (con successi di Fantini nella prima e di Van Steenbergen nella seconda) e l’unica nota di cronaca di un certo interesse arriva da un reclamo della Leo-Chlorodont, la formazione di Nencini, che protesta con la giuria per i 20 secondi di penalità inflitti a Gastone per spinte ricevute sulla salita del Campo dei Fiori. Reclamo che sarà, però, respinto al mittente per “vizio di forma” perché firmato non dai diretti interessati (vale a dire lo stesso corridore o il direttore sportivo Gaetano Belloni) ma da Rolly Marchi, il dirigente della formazione che, inoltre, aveva versato solo ottomila lire invece delle sedicimila richieste dalla tassa di accompagnamento prevista per ogni reclamo.

I più, a questo punto, pensano che il Giro sia già finito e che Gaul non potrà che incrementare il proprio vantaggio nella “Como – Trento Alta”, tappa che si disputa sulla medesima distanza dell’infernale tappone dell’anno prima, ma tra minori difficoltà. Non solo le condizioni meteorologiche sono decisamente agli “antipodi” ma anche il tracciato è più semplice perché nessuna difficoltà altimetrica è prevista prima di quella finale, se s’esclude l’ascesa di Lipomo subito dopo il via. Nessuno, però, poteva immaginare quello che sarebbe accaduto nel bel mezzo della pianura quando, poco dopo il 100° km di gara, la gara sarebbe giunta in quel di Ospitaletto, comune alle porte di Brescia il cui nome da quel giorno sarà perennemente accostato a quello di Gaul. È lì che il capoclassifica compie un’operazione normale, che tutti i corridori compiono anche più d’una volta durante una gara, una sosta per fare pipì. Ma la normalità di quel gesto si trasforma in un’autentica battaglia a causa di una leggerezza del lussemburghese, che anziché farla in sella – come fan tutti – scende di bicicletta e si fa pure notare dagli avversari, che danno il via a un feroce attacco. Dopo un errore il lussemburghese, vittima anche di una crisi di pianto, ne commette un altro quando decide di andarsene tutto solo in fuga dal gruppo inseguitore nel tentativo di annullare autonomamente lo svantaggio accumulato, che aveva superato i 4 minuti al passaggio da Riva del Garda. Riesce a limare un minuto ma poi va in “riserva” e si pianta sulla salita che l’anno prima lo aveva visto in gloria: mentre a sorpresa taglia per primo la linea d’arrivo il velocista spagnolo Poblet, a Vaneze – dove all’epoca terminava la strada, che ora permette di arrivare fino a Vason – il lussemburghese giunge 10 minuti dopo l’arrivo dell’iberico e quasi otto minuti e mezzo dopo i corridori che lo seguivano in classifica. E ora un Giro che sembrava chiuso si riapre di botto perché la nuova maglia rosa Nencini e Bobet sono separati da appena 19 secondi, mentre a Gaul per vincere servirebbe una giornata “invernale” come quell’anno prima poichè è sprofondato al quarto posto con un passivo di 7’38”.

Ma stavolta Giove Pluvio è più clemente e promette solo pioggia per il tappone che conduce la corsa da Trento a Levico Terme affrontando i passi Rolle e Brocon. Tutti guardano ancora a Gaul, forse cullando nuovamente il sogno di un’impresa come quella dell’anno precedente, anche se le condizioni non ci sono. E Gaul mantiene in piccola parte le attese vincendo a Levico, ma senza attacchi sui passi e con un vantaggio esiguo su Nencini, Bobet e Baldini, che terminano la tappa sette secondi più tardi, anche loro senza “sbattersi” più di tanto.

C’è ancora una salita da affrontare, ma il Passo di Vezzena da superare in partenza della penultima tappa verso Abano Terme è un colle inutile, come inutile si rivela questa tappa, che viene vinta allo sprint da Van Steenbergen, che poi il giorno successivo al Vigorelli fa poker nella conclusiva frazione della Corsa Rosa.

Cala così il sipario sul 40° Giro d’Italia, edizione vinta da Nencini con appena 19” su Bobet e 5’59” su Baldini. Ma quello, per la maggior parte dei “suiveurs”, non fu l’unico Giro vinto in carriera dal campione di Barberino di Mugello, non fu il Giro della conferma delle sue doti tra i professionisti di Baldini.

Quello fu il Giro che Gaul perse per una “pissada”.

Mauro Facoltosi

LE ALTIMETRIE

Nota: manca l’altimetria della 12a tappa (cronometro di Forte dei Marmi); della 1a tappa (Verona) è presente la sola planimetria

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1966, E IN MEZZO CI STA MOTTA

maggio 17, 2020 by Redazione  
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Il Giro del 1966 proponeva una starting list da “urlo”: Gimondi, Adorni, Anquetil, Balmamion. Ma a precederli tutti sarà un giovane 23enne, il lombardo Gianni Motta.

Negli anni ’60 ci sono due edizioni della Corsa Rosa che vengono spesso rammentate dai “suiveurs”. Una è quella del 1965 che fu conquistata da Vittorio Adorni, il cui successo fu annunciato in prima pagina sulla Gazzetta dello Sport con il titolone “Il più bel rosa dopo Coppi”; l’altra è quella del 1967, che non fu soltanto la prima delle tre vinte da Felice Gimondi ma anche la corsa che permise di capire che Eddy Merckx non era soltanto poco più di un velocista, come veniva considerato fino a quel momento, ma anche un corridore competitivo in salita e in grado, in futuro, di vincere un grande giro. Tra queste due edizioni se ne disputò una, quella del 1966, che raramente viene ricordata ma che merita d’essere raccontata perché quell’anno un giovane che non era stato annoverato nel novero dei grandi favoriti, il lombardo Gianni Motta, riuscì a prevalare sui “big” presenti al via della corsa. E che big! Ai nastri di partenza di quell’edizione del Giro c’era innanzitutto Gimondi, che nove mesi prima – al primo anno da professionista – aveva già lasciato il segno portando a casa il Tour de France; c’era il vincitore uscente Adorni, per il quale Torriani aveva disegnato due delle tappe principali su strade a lui care; c’erano i due volte vincitori del Giro Jacques Anquetil (1960 e 1964) e Franco Balmamion (1962, 1963), entrambi alla caccia del tris. E poi c’era il 23enne Motta, il cui curriculum quasi impallidiva al confronto dei quattro corridori citati ma che non si doveva troppo sottovaluture perché al primo anno nella massima categoria (1964) era riuscito a conquistare il Giro di Lombardia e il quinto posto finale a 2′38″ da Anquetil al Giro d’Italia, nel quale si era imposto nell’ultima tappa di montagna.

La 49a edizione del Giro è la seconda a prendere il via dall’estero e, dopo che l’anno prima si era partiti da San Marino, stavolta viene scelto il Principato di Monaco per il “grand départ”. La prima tappa misura circa 150 Km e si snoda tra Montecarlo e Diano Marina, dove si arriva dopo aver superato il Colle di San Bartolomeo a metà strada e i primi due storici capi della Milano-Sanremo, Mele e Cervo, nel finale. Nessuno si aspetta particolari sorprese da questo tracciato che, invece, a sera emette una prima clamorosa sentenza: Anquetil non riesce a recuperare il terreno perduto, dopo aver perso le ruote del gruppo nel corso della discesa dal San Bartolomeo, e al traguardo giunge con un passivo di quasi 3 minuti, mentre la prima maglia rosa viene conquistata dall’abruzzese Vito Taccone, che al fotofinish precede il toscano Bruno Mealli, vincitore su questo stesso traguardo al Giro dell’anno prima e fratello dell’ideatore della Tirreno-Adriatico, la cui prima edizione si era disputata proprio in quella stagione.

Subito è prevista una tappa di montagna al secondo giorno di gara, brevissima perché si devono percorrere appena 60 Km per andare da Imperia a Monesi, piccola stazione di villeggiatura del comune di Triora. Lassù, a 1300 metri di quota, giunge per primo Julio Jiménez, compagno di squadra di Anquetil al quale il capitano ha lasciato carta bianca dopo la disfatta del giorno prima e che va a conquistare la maglia rosa a causa della débâcle odierna di Taccone, giunto al traguardo 2’51” dopo l’arrivo dello spagnolo, mentre i distacchi tra altri “big” della classifica sono dell’ordine di una decina di secondi.

Le sorprese non finiscono qua perché la successiva frazione da Diano Marina a Genova, 120 Km interamente tracciati sull’Aurelia, ne riserva un’altra, stavolta con vittima Gimondi. Succede che il bergamasco fora dalle parti di Finale Ligure, quando ancora c’è parecchia strada da percorrere, e davanti si mettono a viaggiare a tutta per distanziarlo, al punto che alla fine vengono registrate una media di 48.828 Km/h, quasi come una cronometro, e un passivo di 1’36” per Felice al traguardo, dove il veronese Severino Andreoli s’impone allo sprint precedendo Adorni e il belga Jan Nolmans.

Più tranquillo è il decorso della lunga Genova – Viareggio (241 Km) che prevede il passaggio sui passi del Bocco e della Cisa. A livello classifica stavolta non ci sono emozioni e riesce ad andare in porto un tentativo di fuga andato via nel finale e che porta alla vittoria il bellunese Giovanni Knapp, il cui strano cognome non è del tutto sconosciuto agli italiani perché il corridore è nipote di quel “Dr. Knapp” che aveva ideato una serie di farmaci pubblicizzati in quel periodo sui principali quotidiani e nel popolare programma televisivo “Carosello” (qualcuno potrebbe ricordarsi quello dell’antidolorifico il cui slogan era “Contro dolor di denti… denti… denti… contro dolor di denti cachet Dottor Knapp“).

Si rimane in Toscana per una tappa disegnata sulle colline del senese che vede il ritorno nei piani alti della classifica di Taccone, che nel finale a saliscendi s’infila nel gruppetto di sedici corridori che riusce a giungere al traguardo di Chianciano Terme circa 2 minuti primo dell’arrivo della maglia rosa, che a sua volta perde sette secondi dai “big”. A tagliare per primo la linea d’arrivo è il veneto Vendramino Bariviera, che subito dopo viene punito con un’ammenda pecuniaria dalla giuria per aver esultato alzando le braccia al cielo, gesto all’epoca proibito poiché ritenuto pericoloso. Taccone digrigna i denti per il secondo posto ma si consola per aver recuperato gran parte del tempo perduto a Monesi ed essere risalito al terzo posto della classifica a 58” da Jiménez, mentre al secondo con un ritardo di 43” s’installa un altro dei protagonisti del tentativo di giornata, il veneto Guido De Rosso.

Nella tappa verso Roma si tornano a vivere le emozioni vissute nei primi giorni di gara quando vanno in fuga in otto e dentro ci sono Adorni e la maglia rosa Jiménez. Il drappello rimane in avanscoperta per un centinaio di chilometri arrivando ad accumulare fino a 5 minuti di vantaggio e viene raggiunto soprattutto grazie al lavoro della Molteni, la squadra di Motta. Esaurito questo tentativo, se ne va via un altro privo di nomi pericolosi che riesce ad andare fino al traguardo, dove sulla pista del Velodromo Olimpico s’impone Raffaele Marcoli, velocista lombardo che tre mesi più tardi perderà la vita in un incidente stradale.

Con queste premesse, cresce l’attesa verso la seconda tappa di montagna, che prevede l’arrivo in salita a Rocca di Cambio, sopra L’Aquila. La tappa si rivela, invece, deludente per la totale assenza di attacchi tra i big, nemmeno da parte di quel Taccone che oggi corre sulle strade di casa. Alla fine a primeggiare è il tedesco Rudi Altig, che sul traguardo abruzzese precede il veneto Silvano Schiavon – un altro corridore che ci lascerà troppo presto – e di 1’11” il primo dei corridori di classifica, quel Gianni Motta che oggi è l’unico a guadagnare sui rivali, anche se strappa loro tre secondi appena. Lasciate le montagne si ritorna poi in pianura con la tappa di Napoli, che termina con lo sprint vicente del corridore più giovane al via del Giro, il vicentino Marino Basso.

La risalita della penisola inizia con la nervosa frazione di Campobasso, nella quale è ancora Gimondi a pagare dazio alla sfortuna. Un’altra foratura e si vede volar via altri 31” nella tappa che vede il gruppo giungere al traguardo ben undici minuti dopo l’arrivo di Vincent Denson, primo inglese a inserire il proprio nome nell’albo d’oro della Corsa Rosa.

Dal capoluogo molisano si riparte alla volta di Giulianova per una tappa di 221 Km semplice nell’altimetria ma che alla fine non risulterà una passegiata. Prima cade Anquetil, tradito da una macchia d’olio, poi a trenta chilometri dall’arrivo un capitombolo collettivo sotto la pioggia manda a terra una ventina di corridori e, infine, un’altra caduta – innescata da Adorni nella curva a gomito che introduce il rettilineo d’arrivo – scompagina le carte dello sprint, vinto dal veneto Dino Zandegù davanti a Basso, Taccone e Motta.

Dopo l’inconveniente patito senza conseguenze da Anquetil verso Giulianova continua il momentaccio in casa Ford nella tappa diretta a Cesenatico, durante la quale fora la maglia rosa, che riesce prontamente a rientrare in gruppo proprio grazie all’aiuto del corridore francese, mentre davanti la fuga va e viene coronata dal bis di Altig.

Alla vigilia della prima tappa chiave si disputa una frazione priva di difficoltà altimetriche nella quale si pensa che i big si risparmino in vista della crono, ma non la pensa così Motta che azzarda la fuga nel finale, tentativo che muore nel giro di un paio di chilometri, immediatamente rintuzzato dagli avversari. Anche oggi è la fuga ad avere la meglio e sul traguardo di Reggio Emilia arriva un altro bis, quello di Zandegù, che a fine Giro s’imporrà nella classifica a punti, proposta quest’anno per la prima volta, al momento senza una maglia a segnalarne il leader (questa sarà introdotta nel 1967 e inizialmente sarà di colore rosso per poi “virare” al tradizionale ciclamino)

Si arriva così al 30 maggio, data che Adorni si è segnato in rosso perché quel giorno è in programma una crono di 46 Km disegnata sul pianeggiante circuito di Parma, sulle sue strade natali, e lui ci tiene a fare particolarmente bene anche perché la partenza è fissata dalla sede della Salvarani, l’azienda di cucine che gli sponsorizza la squadra. Questo mix di motivazioni lo gasa al punto giusto e gli permette non solo di vincere ma anche di fare registrare quella che all’epoca è la media record per le tappe a cronometro, 48,617 Km/h, addirittura migliore di quella che due anni prima era stata impressa da uno specialista del tic-tac come Anquetil nella Parma-Busseto. I distacchi che affligge non hanno la stessa entità di quelli accusati dagli avversari del francese nel 1964, ma sono comunque importanti: “Jacquot” è 2° a 27”, Motta 4° a 58”, Gimondi 5° a 1’26” mentre il capoclassifica Jiménez perde 4’36” e con essi la maglia rosa, che finisce proprio sulle spalle di Adorni, vestita dal parmense con 47” su Motta.

Dopo l’unico giorno di riposo si disputa l’altra tappa che Adorni ha nel cuore perché nel finale dell’interminabile Parma – Arona (267 Km) si deve salire sul Mottarone, impegnativa salita dal fondo sterrato che Vittorio conosce alla perfezione perché in passato più volte ci è salito in bici diretto all’abitazione della fidanzata Vitaliana, da lui sposata nel 1964, i cui genitori lassù gestiscono un rifugio. Stavolta l’emozione gli tira uno scherzetto perché Vittorio attraversa un piccolo momento di crisi, subito rientrato, e non riesce così a scrollarsi di dosso gli altri avversari. Nel frattempo in testa alla corsa rimangono Jiménez e il toscano Franco Bitossi, che scollina il Mottarone una decina di secondi di vantaggio sullo spagnolo, rischia in discesa e riesce poi a giungere al traguardo di Arona con 32” sul gruppo maglia rosa, regolato allo sprint da Motta.

Il piccolo tesoretto accumulato da Adorni nella crono, che aveva cominciato a scricchiolare sul Mottarone, svanisce del tutto il giorno dopo al termine della tappa di Brescia, che prevede l’arrivo in salita sul soprastante Monte Maddalena, sul quale Jiménez bissa il successo di Monesi. Sono proprio i continui scatti dello spagnolo a mettere in croce la maglia rosa, che perde le ruote degli altri avversari quando mancano 2 Km all’arrivo e accumula al traguardo un ritardo di 1’24” da Jiménez e, quel che più conta, fa peggio di 54” di Motta, che gli strappa il primato in classifica per soli sette secondi.

L’indomani è previsto un altro arrivo in salita, anche se l’ascesa verso Bezzecca – alla quale si arriva nel 100° anniversario del celebre “Obbedisco!” garibaldino – si rivela molto meno impegnativa di quanto lasci intendere l’altimetria della frazione, al punto che un corridore come Zandegù si piazza al secondo posto nella volata che chiude la tappa, vinta da Bitossi.

La prossima sfida tra Motta e Adorni è così rinviata alla successiva Riva del Garda – Levico Terme, che prevede a ridosso del traguardo l’impegnativa salita del Vetriolo. Ma la sfida viene ancora a mancare e stavolta non è colpa dell’altimetria: semplicemente il corridore emiliano, sofferente per dolori di gambe e addominali, patisce una grossa crisi sul Vetriolo che lo porta a tagliare il traguardo 5 minuti dopo l’arrivo dell’avversario, che s’impone nella località termale trentina dopo avere ripreso in discesa il solito Jiménez, che si porta al secondo posto della classifica con quasi 2 minuti di ritardo da Motta. A questo punto, considerato che le rimanenti tappe di montagna non si annunciano particolarmente dure, difficilmente si potrà privare della maglia rosa il corridore di Cassano d’Adda.

In attesa delle Dolomiti si affronta una frazione di montagna che è anche tappa di trasferimento perché nel corso dei 137 Km che si devono percorrere per andare al traguardo di Bolzano si deve affrontare solamente il Passo della Mendola, per giunta dal versante più facile. Ne approfittano otto corridori per lanciarsi in una fuga che ha ottime possibilità per andare al traguardo e riesce nell’obiettivo, centro in pieno dal bresciano Michele Dancelli, che nel capoluogo dell’Alto Adige precede in volata il trevigiano Adriano Durante e Nolmans.

La prima delle due frazioni dolomitiche è lunga 100 Km spaccati e prevede l’arrivo in discesa a Moena, dove la Corsa Rosa fa tappa dopo esser saliti prima sul Passo di Lavazè e poi sul Costalunga. Sull’inedito Lavazè, sterrato, non accade nulla di significativo, poi lo spettacolo che più attendono i tifosi va in scena sull’ultima salita con un attacco del torinese Italo Zilioli al quale risponde prontamente Motta. Più avanti li raggiunge Anquetil e da lì in poi i tre viaggiano assieme fino traguardo, dove la maglia rosa li distanzia di un paio di secondi a testa. Alle loro spalle fioccano i distacchi e oggi fanno particolare senzazione i 3’37” patiti da Jiménez, che da secondo che era in classifica scende al quarto posto, mentre risale posizioni Zilioli, che ora è subito dietro la maglia rosa con un passivo di 3’46”.

Da un mini-tappone se ne passa a uno più consistente perché la Moena – Belluno propone 5 passi in 212 Km e ha l’unico difetto di essere disegnato “al contrario”: in partenza si devono affrontare le uniche due salite over 2000 del Giro 1966 (Pordoi e Falzarego), poi arriva il Tre Croci e, dopo un lungo tratto privo di difficoltà, i passi Cibiana e Duran e quindi nuovamente un tratto privo di ascese negli ultimi 45 Km. Nulla a che vedere con la “contraria” Belluno – Moena che aveva deciso l’edizione del 1963 a favore di Balmamion e che nel 1962 l’organizzazione era stata costretta a interrompere in vetta al Passo Rolle a causa di una pesante nevicata. E, in effetti, sui passi non succede nulla di rimarchevole, a parte la deplorevole abitudine dei tifosi di spingere i loro beniamini, episodi verificatesi in più occasioni in questa edizione della corsa, che causeranno multe e penalizzazioni ai corridori e che l’anno successivo porteranno addirittura all’annullamento del tappone delle Tre Cime di Lavaredo. Gli unici squilli di cronaca di una certa rilevanza arrivano da due forature patite da Motta, che però non viene neanche minimamente attaccato. Le luci della ribalta per gran parte della tappa sono tutte per Bitossi, che si sciroppa 200 Km di fuga solitaria sui passi, facendo un’incetta di punti che gli consente di portarsi al comando della classifica dei Gran Premi della Montagna con un vantaggio tale che nessuno potrà più portargli via la maglia verde. Il tentativo del corridore toscano termina dopo il Duran, poi a meno sette dal traguardo parte Gimondi, che se ne va indisturbato al traguardo dove giunge 26” prima del gruppo maglia rosa, regolato da Adorni.

Non sono ancora terminate le montagne perché nella penultima tappa verso Vittorio Veneto si devono affrontare la spettacolare ascesa del Passo di San Boldo e poi quella del Bosco del Cansiglio prima della picchiata che si conclude a pochi chilometri dall’arrivo. Ma il dominio di Motta è incontrastabile e così trova terreno fertile la fuga da lontano, che arriva al traguardo con un vantaggio mostruoso sul gruppo, oltre un quarto d’ora, mentre il corridore lombardo riesce a guadagnare ancora qualcosina perché nella bagarre dei chilometri conclusivi il plotone si spezza e i primi due avversari di classifica, Zilioli e Anquetil, perdono 11 secondi. E intanto la festa in casa Molteni comincia con un giorno di anticipo, incamerato anche il successo a Vittorio Veneto di un loro corridore, il cremasco Pietro Scandelli.

L’ultimo giorno sarebbe “affaire” per i velocisti con la poco impegnativa tappa di Trieste ma sulla pista dell’ippodromo di Montebello approdano per primi i fuggitivi con Bariviera che va a prendersi l’ultima dose di applausi destinata ai vincitori di tappe prima di lasciare il palcoscenico al re del Giro n° 49. Un re che non veniva considerato come tale alla partenza, ma quell’anno Motta riuscì a surclassare tutti i grandi nomi che si schierano al via dell’avventura del Giro d’Italia.

Mauro Facoltosi

LE ALTIMETRIE

Nota: manca l’8a tappa (Napoli); della 1a tappa (Diano Marina) è presente la sola planimetria; della 2a tappa (Monesi) sono presenti altimetria e planimetria

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1974, CALA IL SIPARIO SULL’ERA MERCKX

maggio 16, 2020 by Redazione  
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È l’ultimo dei cinque Giri vinti da Eddy Merck, la vittoria più sofferta. Dopo aver dominato incontrastato nei quattro Giri precedenti stavolta trova lungo il cammino due ossi duri che gli daranno parecchio filo da torcere, lo spagnolo Fuente e l’italiano Baronchelli. E quest’ultimo gli finisce molto vicino perché l’asso belga riuscirà a vincere il suo ultimo Giro con appena 12 secondi di vantaggio sullo scalatore mantovano.Ma se non avesse fatto l’ingordo quel Giro probabilmente non lo avrebbe vinto né il belga, né il lombardo, ma lo scatenato scalatore iberico.

Cinque sono i Giri vinti da Eddy Merckx e di questi abbiamo scelto l’ultimo, quello che il “cannibale” vinse nel 1974 e che fu definito dai giornalisti che lo seguirono come uno dei più belli e appassionanti dell’intera storia della Corsa Rosa. Fino al 1973 i Giri che aveva vinto il belga li aveva dominati da autentico despota e lo testimoniano i distacchi affibbiati ai corridori giunti al secondo posto, primi dei “terrestri”: 5’01” per Vittorio Adorni nel 1968, 3’14” per Felice Gimondi nel 1970, 5’30” per José Manuel Fuente nel 1972 e 7’42” per Gimondi nel 1973, edizione della corsa che vide Merckx vestire la maglia rosa dal primo all’ultimo giorno. Nel 1974, invece, riuscirà a prevalere per soli 12”, dopo aver lottato come un leone contro due avversari che lo fecero davvero penare, il citato Fuente e il ventenne Gianbattista Baronchelli, passato professionista in quella stessa dopo che nel precedente anno trascorso tra i dilettanti aveva vinto sia il Giro, sia il Tour de l’Avenir. È da questo momento che il sipario comincia progressivamente a calare su Merckx, che riuscirà ancora a dare un saggio della sua forza al successivo Tour (vinto con oltre 8 minuti su Raymond Poulidor), ma poi negli anni successivi le sue energie cominceranno lentamente ad eclissarsi fino al ritiro, annunciato il 18 maggio del 1978 dopo che l’anno prima si era piazzato ultimo ai mondiali di San Cristóbal e dopo aver preso parte per l’ultima volta al Giro nel 1976, quando si piazzerà 8° a 7’40” da Gimondi.

Per quel Giro del 1974 Torriani propone una partenza fuori dai confini nazionali, anche se per poche centinaia di metri. Dopo la benedizione di Papa Paolo VI la bandiera del via viene, infatti, abbassata in Piazza San Pietro, poi si lascia la Città del Vaticano in direzione di Formia per una tappa destinata agli sprinter che termina con una sorpresa perché il poco quotato Wilfried Reybrouck, neoprofessionista belga fratello di quel Guido che vinse tra tappe al Giro del 1968, riesce a battere tutti i grandi nomi dello sprint, a partire dal connazionale Eric De Vlaeminck.

Un altro sprint è atteso al termine della successiva frazione di Pompei e stavolta sorprese non ce ne sono perché è il “re delle Sei Giorni” Patrick Sercu a imporsi sul gruppo ancora compatto, con i big attenti a studiarsi in vista della prima tappa di montagna, prevista già il giorno dopo.

È il Monte Faito la prima delle grandi asperità del 57° Giro d’Italia, inserito nel finale di una breve frazione di 137 Km che prevede anche la salita di Agerola. Sull’impegnativa ascesa campana non è l’atteso Merckx a dare il primo squillo di battaglia ma Fuente, che soli quattro giorni prima del via della Corsa Rosa si era imposto nella Vuelta di Spagna con appena 11” di vantaggio sul portoghese Joaquim Agostinho. Sul Faito il corridore asturiano riesce addirittura a staccare di due minuti gli altri favoriti, che poi recuperano in discesa parte dello svantaggio riducendolo a 33” sul traguardo di Sorrento, dove il primo gruppo inseguitore viene regolato allo sprint da Francesco Moser su Giovanni Battaglin, mentre poco più staccato termina il “cannibale”.

C’è anche Capri nel percorso del Giro. Torriani ha voluto portare la corsa anche in quel posto incantevole ma, essendo impossibile organizzarci una tappa a causa delle ridotte dimensioni dell’isola e della mancanza di spazi, i “girini” la visitano durante il primo dei due giorni di riposo previsti. E c’è anche qualcuno che si lamenta di questo giorno sprecato, arrivato troppo presto, dopo il quale si torna in sella alla volta di Sapri dove, nonostante i saliscendi, si arriva tutti assieme allo sprint e dove ottiene la sua ottava vittoria al Giro De Vlaeminck, l’unica che conquisterà in questa edizione.

Attraversati in partenza in primi contrafforti del Pollino, la quinta tappa collega le sponde del Tirreno a quelle dello Jonio, dove a Taranto è ancora una volata l’atto conclusivo della giornata, che vede il bresciano Pierino Gavazzi ottenere il primo successo per un corridore italiano in questa edizione davanti al parmense Ercole Gualazzini. Nulla cambia in classifica anche perché la giuria decide di punire Fuente e Merckx, colpevoli di aver ricevuto spinte durante lo sprint, solo con una retrocessione nell’ordine d’arrivo e un’ammenda di 50 mila lire a testa.

Anche la Taranto – Foggia dovrebbe essere una frazione destinata a un volatone e sarà così, nonostante il forte vento del Tavoliere che, a un certo punto, arriva a spezzare il gruppo in tanti piccoli segmenti, ben presto tutti ricuciti. Ci sono comunque dei tentativi di fare secco il gruppo, ma sono tutti rintuzzati e allo sprint è ancora un italiano a emergere: è il 33enne Franco Bitossi, popolare “cuore matto”, che sul secondo traguardo pugliese ha la meglio sul belga Karel Rottiers e sul bergamasco Walter Avogadri.

In attesa delle future tappe di montagna a movimentare un po’ la corsa arrivano due tappe dai finali collinari e la prima di questa è una delle più lunghe, quasi 260 Km dalla Puglia all’Abruzzo con il traguardo in ascesa a Chieti dopo un po’ di saliscendi nell’entroterra molisano. E, infatti, stavolta il vincitore si presenta da solo sotto lo striscione dell’arrivo dove il lombardo Ugo Colombo, in fuga solitaria per quasi 70 Km, precede di 44” De Vlaeminck, il veneto Marcello Bergamo e Merckx, che a sua volta guadagna una manciata di secondi sugli altri rivali di classifica (e in particolare 7 secondi su Fuente).

Più semplice è la successiva tappa di Macerata, con la sola ascesa finale che non impensierisce troppo i velocisti più potenti. A rompere loro le uova nel paniere ci pensa una curva a gomito posizionata a 400 metri dal traguardo, che sorprende tutti e rischia di spedire contro le transenne Merckx, che è anche sprinter e l’ha presa a tutta velocità in testa al gruppo nel tentativo di guadagnare anche oggi sullo spagnolo. Dalla confusione scaturita ne approfitta Bitossi che va a prendersi un’altra vittoria di tappa, stavolta precedendo il colombiano Martín Emilio Rodríguez, noto con il soprannome di “Cochise” (era il nome di un condottiero indiano apache) e conosciuto in Italia per aver conquistato diversi successi nella nostra nazione, dove ha corso per la Salvarani e per la Bianchi-Campagnolo.

Intanto gli appassionati s’interrogano sullo stato di forma dell’asso belga alla vigilia della seconda grande montagna del Giro, il durissimo Monte Carpegna. Ma il risponso dell’ascesa marchigiana sarà il medesimo del Faito, anzi sarà molto più salato perché al traguardo posto nel centro del sottostante paese, una decina di chilometri dopo aver superato la cima del “Cippo”, Fuente si presenta con 1’05” sul belga, che l’anno precedente sulla medesima salita l’aveva pesantemente “maltrattato” facendogli pagare ben 9 minuti di ritardo. Ora lo spagnolo si gonfia il petto fasciato di rosa e lo fa con 1’40” su di un cannibale che sembra non più in grado di “mordere” come un tempo; e a breve è in programma un altro arrivo in salita sul quale lo spagnolo potrà ancora incrementare il suo vantaggio.

Si torna nel frattempo in pianura dove a Modena i tifosi belgi ripagano la delusione delle mancate affermazioni di Merckx con il bis di Sercu, che poi otterrà un terzo successo il giorno successivo nella semitappa pomeridiana di Forte dei Marmi. Il mattino si era, invece, ripresa la strada delle montagne diretti all’inedita meta del Ciocco, il primo resort d’Italia, aperto nel 1967, che con Torriani ha firmato un contratto triennale che s’inaugura proprio in questa stagione. È una salita per ora senza storia ciclistica, dunque, ma destinata a rimanere nella storia per le pendenze impegnative che impongono i suoi 4 Km, che come da previsioni bastano a Fuente per guadagnare ancora: un’altra stoccata e via, riprende il fuggitivo Giuseppe Perletto e strappa altri 41” al sogno rosa del campione belga.

Arriva ora la tappa che Merckx attende con la stessa bramosia con la quale un assetato anela all’acqua, la cronometro individuale di 40 Km disegnata sul tradizionale palcoscenico di Forte dei Mami, un classico di quegli anni che Torriani proporrà in quattro edizioni consecutive, dal 1972 al 1975. L’anno prima, su di un percorso leggermente più corto, era stato Gimondi a far segnare il miglior tempo distanziando di 23” il danese Ole Ritter e di 31” Merckx, che in quest’occasione riesce a far meglio di tutti: vola a 48.468 Km/h infliggendo 27” a Moser e 48” al vincitore del Giro del 1971, lo svedese Gösta Pettersson. In quanto al capoclassifica Fuente, lo spagnolo fatica come il solito in prove come queste e perde 2’03”, un vantaggio che non basta al belga per spodestarlo perché la maglia rosa rimane sulle spalle dell’iberico per 18”.

Quel giorno, però, le gesta di Merckx passano in secondo piano, adombrate dalle tragiche notizie che arrivano da Brescia dove in un attentato terroristico in Piazza della Loggia sono morte sei persone, vittime che saliranno a otto nelle giornate successive. Su invito delle autorità della Spezia, dalla quale la corsa sarebbe dovuta transitare il giorno successivo, Torriani decide di fermare per un giorno la corsa in segno di lutto, anticipando di quarantottore il riposo che era stato previsto dopo la frazione di Sanremo, preceduta dalla rinviata Forte dei Marmi – Pietra Ligure, che termina in volata con il successo di Enrico Paolini su Gavazzi e De Vlaeminck.

Si arriva sulle Alpi con un Fuente che non sta più nella pelle. Intende recuperare subito il tempo perduto a cronometro e mira a rendere durissima la tappa che propone le impegnative salite del Monte Ceppo e del Passo Ghimbegna prima del traguardo fissato nella città della Classicissima. Dopo che Merckx aveva tentato una fuga nei primi 20 pianeggianti chilometri sull’Aurelia, Fuente mette in atto una tattica dispendiosa e chiede ai suoi compagni di tirare a tutta in testa alla corsa, una strategia che alla fine gli si ritorce contro: quando Baronchelli attacca ai piedi del Ghimbegna, lo spagnolo – rimasto a secco d’energie – rimbalza clamorosamente all’indietro arrivando ad accusare al traguardo, dove s’impone il ligure Perletto, un passivo di otto minuti e mezzo dal campione belga, che può finalmente vestire la maglia rosa. Anche questa tappa, comunque, fa capire che il belga non è più il campione visto nelle stagioni precedenti perché il suo è ancora un regno “traballante”: oggi Baronchelli lo ha anticipato di quasi due minuti sul traguardo e ora sono 35 i secondi che separano il mantovano dalla vetta della classifica.

Dopo l’interlocutoria frazione di Valenza, vinta in fuga da Gualazzini, si torna a salire con la tappa che sconfina in Svizzera, dove l’arrivo è previsto ai 1200 metri del Monte Generoso, sopra Mendrisio. Qui risorge Fuente che stavolta non commette errori e riesce a distanziare di 31” uno scatenato Gimondi e di 2’21” un demotivato Merckx, che ha disputato la tappa con il magone dopo che, pochi chilometri dopo la partenza, l’ammiraglia della sua squadra l’ha affiancato per comunicargli la notizia del ricovero in ospedale per un infarto di Jan Van Buggenhout, manager e grande amico di Eddy. Dai volti tesi di chi gli sta comunicando la notizia, dalle parole che stentano a uscire dalla bocca Merckx ha, però, intuito che la realtà è molto più tragica, che l’amico è deceduto, come gli confermerà Torriani subito dopo l’arrivo. La reazione del campione è drastica e annuncia al suo entourage di voler abbandonare il Giro per tornare in patria e partecipare ai funerali dell’amico, ma riescono a convincerlo a rimare in gara e a continuare a difendere una maglia rosa sempre più in bilico perché dopo la tappa elvetica Gimondi lo tallona in classifica a 33”, mentre Baronchelli ha perso qualcosa e ora il suo distacco è di 41”.

Ci sono un paio d’ascese da affrontare anche nella successiva tappa Como – Iseo e in particolare c’è il breve ma durissimo Colle di San Fermo da scavalcare quando mancano poco meno di 30 Km al traguardo. Chi attende anche su questa inedita salita l’attacco di Fuente non rimane deluso, a differenza di chi avrebbe auspicato un altro tentativo da parte dei rivali più vicino a Merckx, che invece non si muovono. Lo spagnolo, dal canto suo, se ne va con il compagno di squadra Santiago Lazcano e guadagna fino a quasi un minuto e mezzo, vantaggio che successivamente si riduce a soli 13” al traguardo di Iseo, dove Fuente si fa da parte e lascia la vittoria di tappa al suo luogotenente.

Si rimane ancora in montagna per la 18a frazione che, dopo la scalata al Passo del Sommo a 50 Km dal traguardo, prevede il facile arrivo in salita a Sella Valsugana, piccola località trentina dove venti anni prima era scomparso uno dei padri fondatori della Repubblica Italiana, Alcide De Gasperi. Ma la salita finale si rivela ancor più facile della dolcezza che comunque già traspare dall’altimetria e sul traguardo si presenta un gruppetto forte di 14 corridori, contenente tutti i migliori della classifica, regolati allo sprint da Bitossi, alla sua terza affermazione in questa edizione della Corsa Rosa.

Con una classifica incertissima si arriva così ai due tapponi più “saporiti”, preceduti da una corta tappa di trasferimento da Borgo Valsugana a Pordenone vinta allo sprint da Paolini. Il primo propone l’arrivo alle Tre Cime di Lavaredo, in vetta a un’aspra salita cara a Merckx, che nel 1968 vi aveva conquistato la maglia rosa in occasione del primo Giro vinto dal “cannibale”. Anche oggi ha fame di vittoria (al pari di Fuente, che oggi ottiene la quarta vittoria personale), ma a un certo punto le cose si mettono male per il belga, che patisce gli scatti di Baronchelli e a 300 metri dal traguardo perde virtualmente le insegne del primato perché esattamente in quel punto il mantovano riesce a colmare totalmente il disavanzo da Merckx. Ma in quei 300 metri Eddy mette sul piatto tutto l’orgoglio che ha nel cuore e ribalta la situazione, riguadagnando quei 12 secondi che gli permettono di tenersi la maglia rosa sulle spalle.

Per scaraventare il re giù dal suo trono “Gibì” ha ancora un tappone a disposizione, quello che si snoda tra Misurina e Bassano del Grappa passando per i passi Falzarego, Valles e Rolle e soprattutto per il temuto Monte Grappa, che presenta lunghi tratti di strada sterrata. Ma stavolta non gli riesce di ripetere l’exploit del giorno prima, forse anche per la stanchezza che comincia a imperare: e, infatti, non ci sono distacchi quest’oggi tra i primi della classifica, che vanno a giocarsi in volata la tappa in quel di Bassano, dove taglia per primo il traguardo proprio Merckx davanti a Moser, corridore che solitamente faticava parecchio sulle grandi salite.

L’ultima tappa di Milano è firmata da Marino Basso, poi c’è anche l’affermazione di Gianni Motta nell’inutile epilogo, l’antitesi del prologo (in linea e non a cronometro) che Torriani ha voluto proporre dopo l’ultimo giorno ufficiale di gara, mentre con uno sospiro di sollievo Merckx può festeggiare con i propri compagni di squadra la vittoria in rosa più sofferta per lui. Il tremendo giovincello Baronchelli gli è finito alle spalle per 12” e il non più giovane Gimondi – che viaggia verso i 32 anni – gli è giunto poco più dietro, a 33” dal belga.

E Fuente? Lo spagnolo conclude quel Giro in quinta posizione con un passivo di 3’22”. Ma se non avesse peccato d’ingordigia quel giorno a Sanremo forse, anzi molto probabilmente, ora staremo qui a raccontare dell’unica vittoria in classifica al Giro dello scalatore asturiano, finalmente riuscito a mettere nel sacco il gatto Merckx. E della sua doppietta con la Vuelta, un’impresa riuscita solo a due corridori prima del 1995 (l’anno nel quale la corsa spagnolo traslocò da aprile a settembre), al solito Merckx nel 1973 e al nostro Battaglin nel 1981. E a Fuente nel 1974….

Mauro Facoltosi

LE ALTIMETRIE

Nota: manca la seconda semitappa dell’11a tappa (Il Ciocco – Forte dei Marmi); della 6a tappa (Foggia) è presente la sola planimetria

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1994, L’AVREBBE VINTO PANTANI SE…

maggio 15, 2020 by Redazione  
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Fu il Giro della consacrazione di Marco Pantani quello del 1994. Il “Pirata”, che solo in pochi consideravano alla partenza di quell’edizione della corsa rosa, riuscì a farsi notare grazie alla crisi che colpì capitan Chiappucci nella prima tappa di montagna e che gli diede via libera. Si fermerà a 2’51” dal primato del russo Berzin ma forse, senza i dispettucci intercorsi alcuni mesi prima tra Castellano e Conti, quel Giro avrebbe potuto vincerlo lui…

C’è una stella al via del Giro del 1994, il terzo consecutivo a presentare ai nastri di partenza il grande campione spagnolo Miguel Indurain. Quella stella è lo stesso navarro, che si era imposto con autorità nelle due precedenti edizioni, nonostante l’imprevista difficoltà patita l’anno prima nel finale della tappa con arrivo a Oropa, e per questo in molti pensano che conseguirà la tripletta in rosa senza troppi problemi. Gli italiani rivolgono le loro speranze su Gianni Bugno e Claudio Chiappucci, con il primo che sembra risorto dopo un 1993 sottotono e che in questa stagione ha vinto il Giro delle Fiandre, mentre il “Diablo” dopo esser salito tre volte sul podio finale spera ancora in una crisi in salita di Indurain. C’è molta attenzione anche sulla Gewiss, la squadra di Moreno Argentin – nel 1993 maglia rosa per dieci giorni – e di Evgenij Berzin, il russo che poche settimane prima si era imposto alla Liegi e all’Appennino e che, intervistato dalla rivista Bicisport, aveva stupito tutti dichiarando che intendeva gareggiare per la maglia rosa, almeno nei primi giorni, e che Indurain avrebbe potuto anche batterlo, come già era riuscito a fare in quella stagione con Tony Rominger nella crono del Critérium International. E Marco Pantani? Per ora non ne parla nessuno perché lo conoscono solo gli appassionati che seguono anche le gare delle categorie inferiori, nelle quali l’illustre sconosciuto di Cesenatico aveva vinto il Giro d’Italia dei dilettanti nel 1992, corsa che l’aveva visto piazzato terzo nel 1990 e secondo nel 1991. Un Giro da professionista l’ha già all’attivo ma nel 1993 la sua era stata una presenza di “apprendistato”, terminata senza note particolari di cronaca con il ritiro a tre tappe dalla conclusione. E nelle strategie in casa Carrera anche il Giro del 1994 dovrebbe svolgersi secondo questo copione per il “Pirata”, ma capitan Chiappucci al quarto giorno di corsa si scioglierà letteralmente come neve al sole nella calura di Campitello Matese, lasciandolo così libero di fare la propria corsa….
… e sappiamo come andrà a finire quel Giro che si apre il 22 maggio a Bologna con un doppio appuntamento, il mattino una semitappa in linea di 86 Km e il pomeriggio una breve crono di 7 Km spaccati. La prima maglia rosa finisce sulle spalle di Endrio Leoni, velocista veneto che sul traguardo felsineo precede Giovanni Lombardi e Adriano Baffi, poi nella prova contro il tempo c’è da registrare la vittoria a sorpresa di Armand De Las Cuevas, atipico corridore francese dallo sguardo perennemente triste (morirà suicida nel 2018) che fino all’anno prima gareggiava nella squadra di Indurain e quel pomeriggio fa registrare quella che fino al 2001 sarà la media più alta di una tappa del Giro (53.391 Km/h).
Intanto Argentin, ottavo in classifica a 17” dal francesino, mette nel mirino la maglia rosa e ha subito l’opportunità per andare a prendersela perché la seconda tappa si addice alla perfezione alle sue doti grazie alla rampa finale verso Osimo: è la stessa che si affronterà anche nella tappa del Giro 2018 vinta da Simon Yates e che in quest’occasione vede Moreno fare il vuoto e giungere all’arrivo con 6” su Andrea Ferrigato, 8” su Davide Rebellin – l’unico di quel Giro a essere in gara ancora oggi, alle soglie dei cinquant’anni – e 12” sul gruppo dei migliori. E c’è una soddisfazione nella soddisfazione per Argentin, che va a riprendersi la maglia rosa proprio nelle stesse terre dove l’anno prima l’aveva perduta, quando Indurain gliel’aveva levata dalle spalle dopo la cronometro di Senigallia, dalla quale si transita quel giorno pedalando in direzione di Osimo.
Pure la tappa del giorno successivo è una di quelle che piacciono tanto al corridore trevigiano, anche se la salita finale verso Loreto Aprutino (da non confondere con la quasi omonima cittadina marchigiana) è più agevole rispetto a quella di Osimo, che presentava anche tratti in pavè. E, infatti, qui si assiste a un finale totalmente diverso, con un attacco che si può quasi definire “telepatico” perché succede che in piena diretta Davide De Zan, che commenta il Giro per Italia 1, si rivolge alla seconda voce Beppe Saronni chiedendogli a bruciapelo “E se provasse Bugno?”. Il suo interlocutore non ha nemmeno il tempo di replicare perché in quel momento preciso con una sparata inattesa esce dal gruppo proprio il corridore monzese, che a 3 Km dall’arrivo tenta la soluzione solitaria e ce la fa resistendo per un paio di secondi alla forsennata rincorsa del gruppo e portandosi al secondo posto in classifica, a 7” da Argentin.
Con queste premesse cresce l’attesa per la prima tappa di montagna, prevista per il giorno successivo quando si parte dal livello del mare, da Montesilvano Marina, per arrivare in 204 Km ai 1440 metri di Campitello Matese. Non si preannunciano definitive sentenze e invece ne suona una clamorosa per Chiappucci al quale, dopo esser andato all’attacco lontano dal traguardo in una giornata particolarmente torrida, si svuota improvvisamente il serbatoio delle energie mandandolo incontro a un crollo verticale che lo porta ad accusare un passivo di quasi 5 minuti. E ce n’è un’altra di sentenza inattesa, quella che dimostra come le dichiarazioni della vigilia di Berzin non fossero campate per aria: il russo va all’attacco sulla salita finale, si lascia tutti i migliori alle spalle e va a riprendere il fuggitivo Oscar Pellicioli, che poi fulmina allo sprint al traguardo, dove i due giungono con 47” sul gruppo nel quale ci sono Indurain, Bugno e Pantani, che con l’uscita di scena del “Diablo” ora può cercare di far sfoggio delle proprie doti senza dover sottostare a obblighi di scuderia.
Un’altra sorpresa attende gli spettatori del ciclismo il giorno dopo quando la corsa arriva a Melfi da Campobasso, dove è atteso un arrivo allo sprint all’esterno dello stabilimento che la FIAT aveva inagurato all’inizio di quell’anno con la produzione della “Punto”. Vince Leoni, che così bissa il successo ottenuto a Bologna, Djamolidine Abdoujaparov rischia di falciare mezzo gruppo nel tentativo di disincastrare un cappellino che il forte vento gli aveva sparato nel mezzo delle leve dei freni, e – ecco la sorpresa – in mezzo alla volata ci si butta anche Indurain, che velocista non è ma riesce comunque ad agguantare un inaspettato quinto posto.
Toccato il suo estremo meridionale, il Giro del 1994 prende a risalire verso nord con la lunga e vallonata tappa da Potenza a Caserta, che sembra disegnata apposta per i cacciatori di tappe, per corridori che amano lanciarsi in lunghe fughe da lontano. È il caso di Marco Saligari, che in questa maniera si era già portato a casa due tappe della Corsa Rosa negli anni precedenti, in Valle Varaita nel 1993 e a Sondrio nel 1992. E all’ombra della reggia è proprio lui a presentarsi con le braccia levate, stavolta in maniera differente rispetto alle vittorie in solitaria alle quali ci aveva abituato perché qui sfodera doti di velocista e precede Massimo Ghirotto e l’elvetico Heinz Imboden.
Con un lungo trasferimento la carovana del Giro si sposta a Fiuggi per una breve e frizzante frazione in circuito che prevede di salire e scendere per tre volte dagli altipiani di Arcinazzo, difficoltà risibili nelle pendenze che Argentin, uscito di scena al pari di Chiappucci nella tappa di Campitello, tenta di sfruttare per rientrare nei piani alti della classifica, riuscendo a guadagnare quasi un minuto prima che la reazione del gruppo annulli il suo tentativo. Della tornata calma ne approfittano poi sei corridori, che schizzano verso il traguardo dove si impone lo scalatore spagnolo Laudelino Cubino, che al Tour del 1988 aveva conquistato il tappone pirenaico di Luz-Ardiden e che nel suo palmarès ha anche tre affermazioni alla Vuelta (e ne aggiungerà un’altra al Giro nel 1995, quando conquisterà l’arrivo in salita al Monte Sirino).
Il Giro intanto arriva a uno degli appuntamenti più attesi da Indurain, la cronometro individuale che Carmine Castellano, da due anni alla direzione del Giro, ha disegnato tra Grosseto e Follonica ricalcando fedelmente una tappa che il suo predecessore Vincenzo Torriani aveva proposto nel 1953. Entrambe le tappe forniranno il medesimo verdetto, quello di una sonora sconfitta per il corridore che si accingeva ad affrontarle da favorito: se 41 anni prima Fausto Coppi si era visto sopravanzare da due avversari, ancora peggio va a “Miguelon” in questa crono “maledetta” perché il navarro termina solo quarto, preceduto di 53” dal corridore che si piazza terzo (Bugno), di 1’18” dal secondo (il compagno di squadra De Las Cuevas, che già aveva fatto meglio di lui a Bologna) e di 2’34” dal vincitore, il sempre più sorprendente Berzin, che ora porta il suo vantaggio in classifica a 2’16” sul francese, a 2’38” su Bugno e 3’39” sul deludente Indurain.
Dopo quest’autentica tempesta ora cresce l’attesa per i tapponi alpini, sui quali si vedrà se il russo, che mai si era finora misurato in un grande giro, sarà in grado di reggere, se Bugno confermerà di aver ritrovato lo smalto di un tempo e se Indurain s’inventerà qualcosa per riprendere il controllo della corsa. E di Pantani ancora nessuno parla perché, dopo il quinto posto di Campitello e una crono affrontata senza particolari ambizioni, ora si ritrova in quattordicesima posizione in classifica con un passivo di sette minuti e mezzo. Prima di conoscere questi verdetti si deve superare una lunga serie di tappe di trasferimento che, a meno di sorprese, dovrebbero tutte concludersi con un arrivo in volata. Si comincia con la Castiglione della Pescaia – Pontedera, che viene vinta dal ceco Ján Svorada dopo che un tentativo di Chiappucci nel finale viene stoppato dalla squadra della maglia rosa e dopo una caduta innescata da Fabiano Fontanelli all’imbocco del rettilineo d’arrivo e che coinvolge altri quattro corridori, tra i quali uno dei favoriti per il successo – l’uzbeko Abdoujaparov – in un Giro che non presenta al via Mario Cipollini, gravemente infortunatosi alla prima tappa della Vuelta dopo esser stato stretto contro le transenne da Adriano Baffi, incidente che gli farà saltare anche il Tour.
Dopo un altro chilometrico trasferimento (del quale torneremo a riparlare alla fine dell’articolo) si corre sul tradizionale circuito della Rosina, con la breve ma ripida ascesa vicentina da ripetere cinque volte prima di giungere sul traguardo di Marostica. Ma anche qui sono i velocisti a spadroneggiare e stavolta il successo premia “Abdou”, che viene pilotato verso la vittoria da un gregario d’eccezione, quel Bugno che oggi ci si mette d’impegno al punto da riuscire anche a rosicchiare 6 secondi a Berzin.
Un perfetto biliardo è la successiva frazione alla volta di Bibione, la stazione balnare tanto amata dai turisti nordeuropei perché una delle più vicine al valico di frontiera del Brennero. E qui a vincere è proprio un corridore che arriva da nord delle Alpi, quel Svorada che era stato più veloce di tutti anche due giorni prima a Pontedera e che anche in quest’occasione s’impone mentre alle sue spalle si cade di brutto, con Leoni e Roberto Pagnin che finiscono per andare a saggiare la dura consistenza dell’asfalto, ci piroettano sopra più volte mentre il casco di Leoni si spezza nell’impatto e i due rischiano d’esser travolti da chi sopraggiunge.
C’è un’altra tappa che pare predestinata all’arrivo in volata, nonostante la non breve salita dall’impronunciabile nome di Črni Vrh che svetta a un centinaio di chilometro dal traguardo sloveno di Kranj, nel primo dei tre sconfinamenti previsti dal 77° Giro d’Italia. C’è anche uno strappo proprio sulla linea del traguardo che finisce per frenare “Abdou” che si piazza terzo e perde anche un paio di secondi dai primi due corridori a tagliare la linea d’arrivo, i vicentini Andrea Ferrigato e Fabio Baldato.
Nel gruppo, intanto, si vivono queste giornate d’attesa delle Alpi senza troppi patemi, anche se Bugno comincia a preoccuparsi per un piccolo ma doloroso problema di salute che lo tormenta, un callo a un alluce che è pure tormentato da un’unghia incarnita, che si fa sentire anche a causa dagli scarpini stretti. È così con piccolo sospiro di sollievo che il monzese apprende la notizia della cancellazione a causa di una frana della prima salita alpina, il Passo di Pramollo, che si doveva affrontare nelle fasi iniziali dell’austro-slovena tappa da Kranj a Lienz, frazione che si trasforma così in un’altra occasione d’oro per i cacciatori di tappe. Ne approfitta un promettente giovane, il futuro “Leoncino delle Fiandre” Michele Bartoli, che si presenta tutto solo sul traguardo della cittadina tirolese con 2’31” su Fontanelli e 2’59” su Flavio Vanzella, il corridore trevigiano che due mesi più tardi avrà l’onore di vestire per due giorni la maglia gialla al Tour. Per quanto riguarda i big anche oggi se la prendono comoda, concludendo la tappa oltre 13 minuti dopo l’arrivo di Bartoli e preceduti di circa un minuto da Pantani, scattato nel finale sulla salita del Bannberg.
Ma è ancora poco quotato il “Pirata”, per il quale i primi titoloni arrivano il giorno dopo, al termine del primo dei tre tapponi previsti dal Giro 1994, una cavalcata di 235 Km da Lienz a Merano attraverso i passi Stalle, Furcia, Erbe, Eores e Monte Giovo. È l’elvetico Pascal Richard a transitare in testa sulle ultime quattro salite, facendo incetta di punti per la classifica dei GPM, poi entra in scena Pantani che riprende il rossocrociato e si tuffa nella discesa del Monte Giovo adottando una posizione che fa rizzare i capelli in piedi, con il sedere a pochi centimetri dalla ruota posteriore e il sellino a stretto contatto con l’addome. È una posizione rischiosa ma vantaggiosa, che gli consente di guadagnare quei 40” con il quale piomba sul traguardo, il distacco con il quale il gruppo di Berzin porta a termine il tappone dolomitico regolato allo sprint da Bugno.
Neanche stavolta, però, Pantani – che ora in classifica è 6° a 5’36” dalla maglia rosa – dà l’impressione ai più di essere un uomo temibile. Anche perché nessuno pensa che un giovane di 24 anni senza grandi esperienze di Giro possa ripetersi ventiquattore più tardi, quando si dovrà affrontare un tappone ancora più duro. I 195 Km che si devono percorrere per andare all’Aprica sono infarciti di difficoltà: prima c’è lo Stelvio, poi il temutissimo Mortirolo, quindi il primo passaggio dall’Aprica e infine il breve ma ripido Valico di Santa Cristina. E invece ci sarà ancora uno show del Pirata, che fa sembrare l’exploit del giorno prima un piccolo fuoco d’artificio e rischia di far collassare l’impalcatura della classifica generale. Marco parte sulle prime rampe severe del Mortirolo, dopo che sullo Stelvio era transitato in testa Franco Vona, riprende uno alla volta i corridori che si trovavano in fuga dal mattino e ben presto rimane solo al comando. Terminata la discesa su Edolo si fa raggiungere dal gruppo di Berzin lungo la pedalabile salita verso Aprica e questa è una scelta che sulle prime appare scriteriata ma che in realtà si rivela intelligente, perché gli consente di rifiatare lasciando il grosso del lavoro in testa alla corsa agli altri avversari. Gli effetti di questa strategia si vedono nel momento nel quale attacca nuovamente sul Santa Cristina e gli altri si staccano come le foglie d’autunno. Indurain rivelerà successivamente d’aver tentato di seguire Marco ma di aver avuto una sensazione d’annebbiamento alla vista, mentre a quel punto lo spagnolo viene attaccato a fondo anche da Chiappucci, al quale non par vero di riuscire a staccare un corridore che negli ultimi anni faticava a far soffrire sulle salite. Va a finire che sul traguardo di Aprica Pantani giunge con 2’52” di vantaggio sul compagno di squadra, che a sua volta stacca di 38” il navarro e di 1’14” Berzin, che riesce comunque a salvare la leadership per 1’18”, il vantaggio che ora ha sullo scalatore di Cesenatico, mentre Indurain è 3° a 3’03”.
Tre giorni più tardi si preannuncia un’altra appassionante sfida al vertice con la cronoscalata al Passo del Bocco, prima della quale si devono affrontare due tappe di trasferimento che non dovrebbero comunque vedere protagonisti i velocisti. Nel finale della Sondrio – Stradella l’itinerario prevede di passare due volte sulla collina di Canneto Pavese, salita che inizia a Broni, il paese dove è di casa da qualche tempo Berzin. Ma oggi i protagonisti sono due corridori di secondo piano, Fontanelli e Maximilian Sciandri, con l’italo-inglese che fa il furbetto e fa credere al romagnolo di non averne più e che gli lascerà la vittoria. Promessa da marinaio.
In attesa di ritornare sulle Alpi è prevista ora un’altra escursione attraverso l’Appennino con la tappa che da Santa Maria della Versa, terra di produzione degli spumanti che all’epoca si utilizzavano nelle premiazioni delle corse Gazzetta, punta su Lavagna passando per i quasi 1500 metri del Passo del Tomarlo. È il giorno della tripletta di Svorada davanti a Lombardi e Abdoujaparov, tre velocisti, ma questo non è un arrivo in volata classico perché i tre sono bravi a infilarsi nella fuga di giornata, che anticipa di quasi un minuto il gruppo.
Ora il mondo del ciclismo guarda con curiosità all’atipica cronoscalata da Chiavari al Passo del Bocco, insolita perché l’arrivo non è in salita e perché dei 35 Km in programma solo 13 Km sono in salita. C’è un lungo tratto pianeggiante iniziale che Pantani teme e che lo spinge a “spingere” e a forzare le proprie doti, finendo poi per trovarsi con le gambe di legno dove più gli servirà: dei tre corridori più attesi alla fine risulta il peggiore, preceduto di 1’17” da Indurain e da 1’37” da un Berzin che si rivela sempre più inaffondabile.
C’è spazio per un’ultima tappa di trasferimento che dalla riviera ligure conduce a Bra affrontando una miriade di piccole collinette, altra opportunità per mettersi in mostra con una fuga da lontano. In quest’ultima, però, s’infila un corridore inatteso, proprio quel Berzin che da due settimane troneggia in cima alla classifica e che nessuno aveva riconosciuto nell’immediatezza perché, a causa del diluvio che stava venendo giù in quel mentre, si era infilata una mantellina che aveva totalmente nascosto alla vista la sua livrea rosa. Individuato l’intruso, il russo viene invitato dagli altri componenti della fuga a tornarsene in gruppo, perché la sua presenza avrebbe pregiudicato il buon esito del tentativo: la maglia rosa si scusa e se ne va e così il gruppetto riesce a giungere fino a Bra, dove a imporsi è Massimo Ghirotto, proprio colui che aveva chiesto al russo di levarsi di torno.
È giunta l’ora di riprendere l’ascensore con l’ultimo tappone, che da Cuneo porta all’inedito traguardo di Les Deux Alpes, località di sport invernali dirimpettaia dell’Alpe d’Huez che il Giro scopre prima del Tour, che vi porrà per la prima volta un traguardo di tappa nel 1998 (e anche quella sarà una frazione nell’insegna di Pantani, la più bella e indimenticabile di tutte). Si deve salire fino ai 2748 metri del Colle dell’Agnello, il secondo valico per altitudine d’Italia dopo lo Stelvio, inserito per la prima volta in una corsa professionistica dopo che nel 1976, quando era ancora sterrato, era stato affrontato durante la tappa di Les Orres del Tour de l’Avenir, riservato ai dilettanti. Poi ci sono il mitico Izoard, il mite Lautaret e il futuro mito Les Deux Alpes a proporre un banchetto di pendenze al quale Pantani non si sottrae: già sull’Agnello va all’attacco e guadagna 1’15” su Berzin e Indurain, poi sull’Izoard il vantaggio sale a 1’50”. Contro l’azione del Pirata remano però i tanti chilometri in fuga, la stanchezza e la mancata collaborazione del suo compagno d’avventura, il colombiano Hernán Buenahora: a Briançon l’avanscoperta del Pirata è già terminata, dopo non c’è più terreno per far male e il finale riserva applausi solo per il gruppetto di cinque corridori che riescono a isolarsi in testa alla corsa, tra i quali trova gloria l’ucraino Volodymyr Pulnikov.
C’è ancora un’ultima opportunità per Pantani, rappresentata dalla breve ma concentrata tappa che riporta il Giro in Italia ritornando sul Lautaret e proponendo quindi il Monginevro e la doppia scalata finale al Sestriere. Ma il maltempo “congela” letteralmente il gruppo, fa freddo sul Lautaret e sul Monginevro, diluvia a Cesana Torinese, nevica sulla cima del Sestriere e i big preferiscono evitare di prendere rischi inutili giungendo tutti assieme al traguardo. Ne approfitta il leader della classifica dei GPM Richard che, indisturbato, si piglia tutti i colli di giornata e giunge in solitaria ai 2035 metri dell’ultimo passo del Giro 1994 con un minuto netto su Gérard Rué, francese che corre nella Banesto di Indurain.
Il giorno dopo l’ultima tappa da Torino a Milano, vinta dal varesino Stefano Zanini, mette i sigilli al primo Giro vinto da un russo. Un giro che, però, Pantani avrebbe potuto vincere se non gli si fossero messi di mezzi due “dispettucci” intercorsi sei mesi prima tra il direttore del Giro Castellano e il giornalista di Tuttosport Beppe Conti.
Succede tutto a novembre del 1993, quando è prevista la presentazione della Corsa Rosa. Il giornalista torinese, oggi opinionista RAI, viene a sapere in anteprima il tracciato del Giro e lo pubblica su Tuttosport qualche giorno prima del 13 novembre, la data della presentazione ufficiale in diretta televisiva. Castellano s’infuria e decide di rifilare un bello scherzetto a Conti “stracciando” tutta la parte finale del percorso e ricomponendola come un puzzle, forse andando a inserire sedi di tappa che inizialmente erano state opzionate come riserve e disegnando sul planimetria, come una sorta di lunga cicatrice nera, l’inspiegabile trasferimento senza riposo verso Pontedera. Da Bologna a Pontedera poco cambia poi ecco lo stravolgimento di un percorso che non doveva andare verso il Veneto ma nella direzione opposta, toccando la Liguria (ma senza proporre la cronoscalata al Bocco) e il Piemonte. Les Deux Alpes e Sestriere facevano già parte del progetto originario ma si dovevano affrontare come prime frazioni alpine di un Giro che si sarebbe deciso sulle Dolomiti, con la cronoscalata al Bondone (mai più recuperata) e il tappone dell’Aprica sul tracciato che conosciamo ma affrontato come penultima tappa. E allora sì che Pantani, forse, quel Giro avrebbe potuto vincerlo…. E forse anche la sua carriera e la sua vita avrebbero preso una piega differente.

Mauro Facoltosi

LE ALTIMETRIE

Nota: l’altimetria della 13a tappa (Lienz) è quella originaria (a causa di una frana non si transitò sul Passo di Pramollo); l’altimetria della 17a tappa (Lavagna) è quella modificata pochi giorni prima della partenza del Giro da Bologna (in fondo trovate il percorso originario)

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Altimetria originaria 17a tappa

1953, ALLA SCOPERTA DELL’EVEREST

maggio 14, 2020 by Redazione  
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Debutta lo Stelvio alla Corsa Rosa. Ed è un debutto con il botto perché proprio lassù Coppi conquista il suo quinto e ultimo Giro d’Italia, una vittoria che sembrava impossibile per come si erano messe le cose in classifica per il Campionissimo. Ma i 48 tornanti del versante altoatesino stritolano come le spire di un boa l’elvetico Koblet, che veste le insegne rosa alla partenza di quella storica frazione e al quale stavolta non riesce il colpaccio di tre anni prima, quando era stato il primo straniero ad aggiudicarsi il Giro.

44 anni e 35 edizioni della Corsa Rosa, tanto c’è voluto per vedere i 2758 metri dello Stelvio svettare come un enorme e succulento porcino sull’altimetria generale del Giro d’Italia. È il 9 aprile del 1953 quando viene annunciato che, per la prima volta nella storia, il Giro che prenderà al via poco più di un mese più tardi proporrà l’ascesa al più elevato valico stradale d’Italia. In precedenza ci si era spinti fino ai 2473 metri del Gran San Bernardo l’anno precedente e ai 2360 metri dell’Izoard in occasione della Cuneo-Pinerolo del 1949, ma non si era mai raggiunta una quota così elevata, comunque già “assaggiata” al Tour che in tre occasioni si era arrampicato sull’Iseran, valico che l’altitudine dello Stelvio la supera, anche se di soli 6 metri.

Svelato il percorso, che hai nei suoi punti di forza anche il tappone dolomitico di Bolzano e le due frazioni a cronometro di Follonica e Modena, nelle settimane successive si completa anche il campo dei partenti, che ha il suo nome più illustre in Fausto Coppi, al via del suo nono Giro d’Italia da vincitore uscente della Corsa Rosa e da detentore della doppietta con il Tour, conseguita per la seconda volta in carriera. C’è anche il 32enne Fiorenzo Magni ed è al via Gino Bartali, ma non si può considere un avversario temibile un corridore che di anni ne ha 38, anche se dodici mesi prima ha terminato al quarto posto la Grande Boucle e al quinto il Giro. Il vero antagonista del Campionissimo sarà lo svizzero Hugo Koblet che, dopo esser stato il primo straniero a vincere il Giro nel 1950, ora ha intenzione di fare il bis alla Corsa Rosa, alla quale si presenta pochi giorni dopo aver messo in cascina il Tour de Romandie.

È il 12 maggio quando viene abbassata la prima bandierina del via, con i “girini” pronti a percorrere i 263 Km che distanziano Milano da Abano Terme, dove sotto lo striscione d’arrivo si presenta a braccia levate l’olandese Wim van Est, giunto al traguardo dopo quasi 40 Km di fuga solitaria. Bisogna attendere poco più di un minuto e mezzo per assistere all’arrivo del secondo classificato, Guido De Santi, e quasi tre minuti per assistere alla volata del gruppo dei big.

La prima salita di una certa consistenza, pur non essendo difficile, è quella di San Marino che l’indomani viene affrontata nel finale della tappa di Rimini, movimentata dalla foratura in discesa di Coppi, avvenuta pochi chilometri prima della dogana che riporta la corsa in Italia. Dopo un breve inseguimento il Campionissimo riesce a rientrare in gruppo e al traguardo è battuto allo sprint da Koblet, che non è comunque il vincitore della frazione perché esattamente 10 secondi prima aveva tagliato vittorioso la linea d’arrivo Pasquale Fornara, evaso dal gruppo in salita. Vincitore il giorno prima, il capoclassifica Van Est giunge in ritardo di 4 minuti ed è costretto a lasciare le insegne del primato a De Santi, che le veste con circa un minuto su Fornara e poco più sui big.

Costantemente lungo l’Adriatico si snoda la successiva frazione diretta a San Benedetto del Tronto, la località balneare marchigiana che dal decennio successivo diventerà il tradizionale approdo conclusivo della Tirreno-Adriatico, la corsa a tappe di preparazione alla Sanremo che sarà ideata da Franco Mealli nel 1966. È una tappa nella quale, in attesa della prima giornata di montagna, i “grandi” decidono di lasciare campo libero alle seconde schiere e così va in porto il tentativo di sei corridori che lasciano la compagnia del gruppo a una cinquantina di chilometri dal traguardo, dove il varesino Albino Crespi ha la meglio sul pistard olandese Wout Wagtmans e sul torinese Angelo Conterno.

La prima tappa disegnata sulle montagne termina all’insegna del Campionissimo, con Fausto che sul traguardo di Roccaraso, al quale si giunge dopo aver affrontato la storica salita del Piano delle Cinquemiglia, s’impone allo sprint su di un gruppo di una trentina di corridori nei quali c’è tutta la “crème” del Giro 1953. In questo plotoncino c’è anche Koblet, che corre un bel rischio a circa 60 Km dal traguardo quando una ragazza, attraversando imprudentemente la strada, provoca una caduta in mezzo al gruppo e l’elvetico è tra i corridori finiti a terra: ferito, penalizzato da un pedale incurvatosi nel capitombolo e dal fatto che la sua ammiraglia è rimasta intruppata in fondo alla carovana dopo il rifornimento, il vincitore del Giro 1950 arriva ad accusare fino a 4 minuti di ritardo ma poi, con l’aiuto dei gregari, riesce a rientrare in gruppo a Sulmona, subito prima dell’inizio dell’ascesa finale. Va peggio a De Santi, pure lui coinvolto nella caduta, che non ce la fa a recuperare e deve salutare la maglia rosa, finita sulle spalle di Fornara.

I gregari sono protagonisti anche nella successiva tappa di Napoli, che termina come quella di due giorni prima a San Benedetto (allo sprint s’impone Ettore Milano, luogotenente di Coppi alla Bianchi) e che vede ancora Koblet rivestire il ruolo di protagonista sfortunato, stavolta ruzzolato a terra nel corso della discesa iniziale da Roccaraso a causa della rottura di un freno e trovatosi a inseguire per una buona mezz’ora dopo aver accumulato un passivo di un minuto circa.

Il “menù” del Giro propone ora la portata di più calorica sotto l’aspetto della distanza con i 285 Km che si devono digerire tra il capoluogo campano e Roma, dove De Santi “vendica” la sfortuna che due giorni prima gli era costata le insegne del primato. In un’altra giornata che vede i big del Giro in condotta di gara tranquilla il corridore triestino s’infila nella fuga che caratterizzata la tappa e recupera quei 2’17” che gli consentono di tornare in rosa con 1’51” su Fornara, mentre il romagnolo “Pipaza” Minardi s’impone sulla linea del traguardo, disegnata all’interno dello Stadio dei Centomila, il futuro Stadio Olimpico la cui cerimionia d’inaugurazione si svolge proprio quel pomeriggio.

Continuano a fioccare nel frattempo le occasioni d’oro per i gregari e dopo Ettore Milano tocca allo scudiero di Bartali Giovanni Corrieri, al quale le cose vanno decisamente meglio perché non solo imbrocca la vittoria in quel di Grosseto ma si prende anche la maglia rosa grazie al vantaggio di sette minuti con il quale giunge al traguardo insieme agli altri compagni di fuga. Lo stesso giorno, il pomeriggio, è in programma una cronometro di quasi 50 Km disegnata sulle pianeggianti strade della Maremma, verso Follonica. È la prima vera sfida tra Koblet e Coppi, che scende dalla rampa di lancio di Grosseto vestendo i panni del favorito per il successo, anche se l’anno precedente nella lunga Erba-Como (65 Km) era riuscito a sopravanzare l’elvetico di appena 15”. All’altro capo di questa tappa, però, Coppi si ritrova addosso le scomode vesti del grande sconfitto, preceduto da ben due corridori che hanno fatto meglio di lui, dal sorprendente Fornara per 35 secondi e da Koblet per 1’21”, con il rossocrociato che s’impone a 40.407 Km/h e si porta in testa alla classifica con 26” sull’ex leader De Santi, 36” su Fornara e 1’21” sul Campionissimo.

La risalita dello stivale continua con la facile tappa di Pisa che non riserva particolari emozioni fino a una ventina di chilometri dal traguardo, quando una caduta in mezzo al gruppo ne rallenta la marcia e favorisce il tentativo di un piccolo drappello che si era involato poco prima del capitombolo e che riesce ad arrivare sino alla città della celebre torre pendente, dove s’impone il belga Rik Van Steenbergen. Per i favoriti, caduta a parte, è un’altra tappa d’ordinaria amministrazione, secondo un andazzo visto in parecchie frazioni – finora quasi in tutte, escluse quelle di San Marino e la crono del giorno prima – e che fa arrabbiare i giornalisti e quegli appassionati che ancora ricordano i giri di qualche decennio prima, quando i big si davano battaglia in tutte le frazioni: sono i primi sintomi della modernizzazione del ciclismo, che porterà anche a una netta separazione tra le tappe da classifica e quelle interlocutorie destinate ai velocisti, nelle quali chi punta alla vittoria finale preferisce starsene comodo nella pancia del gruppo.

Dopo un giorno di riposo si riparte con una frazione che fa venire l’acquolina ai “coppiani” perché la Pisa-Modena si snoda sulle stesse strade che 13 anni prima furono teatro del primo exploit del Campionissimo. C’è una grossa differenza rispetto al Giro del 1940, però, perché all’epoca il corridore di Castellania non lo conosceva quasi nessuno e, di conseguenza, non lo si temeva, mentre adesso sarebbe stato uno dei corridori più controllati e a sorvegliarlo aveva un avversario tenace come Koblet. Superate le due salite in programma i due rivali sono ancora assieme quando mancano una ventina di chilometri al traguardo (dove s’imporrà Magni), nonostante un precedente momento di crisi della maglia rosa, che si era staccata sull’Abetone. Fausto, però, non approfitta della défaillance dell’avversario, che si riporta su di lui con una discesa a rotta di collo e con lui termina la tappa.

Probabilmente il Campionissimo ha preferito far stancare Hugo senza colpirlo direttamente alla vigilia dell’altra cronometro che Torriani ha inserito nel percorso. Il giorno successivo, infatti, si rimane a Modena per una cronosquadre di 30 Km nella quale il Campionissimo trascina la sua Bianchi alla vittoria fermando i cronometri sul tempo di 37’45” e facendo registrare una velocità media di poco meno di 48 Km/h. Compiuti i previsti 13 giri della pista dell’aerautodromo di Modena, che costituisce l’unico terreno di gara (demolito negli anni ‘80, si trovava nel luogo dove oggi c’è il Parco Enzo Ferrari), per un solo secondo la vittoria sfugge alla Ganna, la formazione nella quale gareggia Magni, mentre Koblet e suoi uomini pagano 26 secondi, permettendo così a Coppi di ridurre le distanze dalla maglia rosa, il cui vantaggio scende a 55”.

Riprendono le tappe in linea e riprende l’oramai tradizionale “clichè” visto nei giorni precedenti con i migliori tutto in gruppo. Viaggiando verso Genova hanno così ancora via libera i tentativi di fuga e tra gli ardimentosi che si lanciano in avanscoperta c’è Minardi, che dopo la tappa di Roma punta al bis sullo stesso traguardo che l’aveva visto vincitore al Giro del 1952. Ma nella discesa della Ruta, mentre è in testa alla corsa assieme allo spagnolo Andrés Trobat dopo aver staccato gli altri compagni di fuga, è vittima di una rovinosa caduta che lo costringe al ritiro e priva dell’iberico di una “spalla” nel proseguimento del tentativo. Ripresa la testa della corsa da parte del drappello inseguitore, la situazione davanti muta più volte fino allo sprint di un gruppo di nove elementi che vede imporsi il monzese Giorgio Albani sul francese d’origini italiane Raphaël Géminiani, mentre i favoriti giungono nel capoluogo ligure quasi 2 minuti dopo l’arrivo dei primi.

La tappa successiva non vede nemmeno la fuga andare in porto perché sul traguardo di Bordighera, dove si giunge dopo esser saliti sul Turchino dal versante opposto rispetto alla Sanremo e aver quindi ritrovato l’Aurelia a Savona, si assiste a un volatone a gruppo compatto. Vince Oreste Conte e il quotidiano torinese “La Stampa” manifesta tutto il suo sdegno per lo svolgimento della corsa proponendo il giorno dopo un titolo a effetto oggi impensabile (“Scandalo nel Giro: tutti i corridori insieme”) mentre l’articolo firmato da Gigi Boccacini inizia parlando di sciopero in seno al gruppo, di volontà dei corridori di abolire la fatica.
L’amarezza dei giornalisti piemontesi è forse spinta anche dal fatto che il giorno dopo la Corsa Rosa ha in programma un arrivo proprio a Torino, ma nemmeno in quest’occasione la musica cambia. C’è un altro giornalista a firmare il pezzo, ma anche Vittorio Varale non si dissocia dal sentimento che alberga nel cuore di molti colleghi e all’inizio del pezzo scrive “che per quanto rimproverati e ridicolizzati, gli alti papaveri del Giro insistano nella loro condotta negativa, è fatto che ormai esula dal giudizio di noi cronisti — troppe volte essendo stato denunciato su queste colonne per essere nuovamente ricordato. Pigliamo dunque il Giro come lo vogliono gli attori che vi sono di scena e i registi che ne predispongono l’ambiente — e passiamo a raccontare le vivaci e alterile vicende della corsa, che nella sua fase finale è passata fra due ali fittissime di spettatori, da Moncalieri fino al Motovelodromo di corso Casale…” per poi passare alla narrazione della cronaca di una giornata terminata con il successo del comasco Pietro Giudici, che precede allo sprint l’elvetico Schär e di una manciata di secondi gli altri elementi del gruppo andato oggi in fuga e giunto a Torino con 5’36” di vantaggio sugli “alti papaveri”.

Le parole dei cronisti non stimolano i corridori che, anzi, anche il giorno successivo sono ancora protagonisti di una corsa anonima, terminata sul traguardo di San Pellegrino Terme con lo sprint vincente di Magni sul gruppo maglia rosa per il terzo posto, dopo che un paio di minuti prima aveva tagliato il traguardo Nino Assirelli, partito subito dopo il via e arrivato a sfiorare il quarto d’ora di vantaggio lungo la strada. È un nome, quello del corridore romagnolo, che gli appassionati probabilmente scorderanno fino al maggio dell’anno successivo, quando sarà protagonista con lo svizzero Carlo Clerici della famosa fuga bidone verso l’Aquila nella sesta tappa, frazione che condizionerà l’intero svolgimento della corsa, vinta a Milano da Clerici con 24 minuti di vantaggio su Koblet e poco più di 26 minuti sullo stesso Assirelli.

Dopo l’ultimo giorno di riposo sono in programma le salite del Tonale e di Campo Carlo Magno, ma la notevole distanza che le separa dal traguardo di Riva del Garda fa temere per un’altra giornata priva di particolari sussulti. Invece le emozioni non mancano perché Coppi fora due volte scendendo da Madonna di Campiglio verso Pinzolo e in una terza occasione è costretto a una sosta fuori programma per risistemare la ruota. Per sfortuna di chi segue il Giro e che vorrebbe attacchi tutti i giorni nessuno prova a far dilatare il distacco del Campionissimo, che arriva ad accusare al massimo una cinquantina di secondi di ritardo e agevolmente si riaccoda al gruppo quando mancano 57 Km da Riva del Garda, dove si assiste allo sprint di una trentina di corridori, regolato da Magni su Albani e Bartali.

Poi quel che si aspettava da tempo succede e succede in una delle tappe nelle quali si pensava che nulla potessse accadere. La Riva del Garda – Vicenza è una tappa senza frazione pretese, 166 km prevalentemente pianeggianti, a parte tre brevi ascese, il Col San Giovanni nelle fasi di partenza, Pergine Valsugana a cavallo del 50° Km di gara e il ripido strappo finale verso il Santuario di Monte Berico. E l’attacco non arriva in nessuno di questi tre punti, bensì poco prima del Km 110 quando, nel bel mezzo della pianura, in zona rifornimento ci provano alcuni corridori tra i quali spiccano i volti di Coppi e Koblet. Ci vogliono circa 7 Km per andare a riprenderli ma poi la tensione rimane alta per parecchio tempo ancora e nuovamente i due assi si fanno vedere in testa al gruppo in diverse occasioni per andare a riacciuffare altri corridori che tentano la sortita; solo a 12 Km i big decidono improvvisamente di rallentare, lasciando evadere il gruppetto che andrà a giocarsi la vittoria sul Monte Berico, in cima al quale transita per primo il romano Bruno Monti.

Alla vigilia dei tapponi si disputa un’ultima tappa di transizione, 186 Km poco impegnativi perché per andare da Vicenza ad Auronzo di Cadore si prende quota gradatamente. C’è solo un tratto di vera salita, neanche troppo difficile, per raggiungere Pieve di Cadore ed è proprio al termine di questo strappo che ci prova Koblet. Sotto la pioggia il corridore elvetico riesce ad agguantare il piccolo gruppetto di fuggitivi che si trova in testa alla corsa e li trascina fin sul traguardo, dove Monti bissa il successo ottenuto il giorno prima. Coppi, invece, mastica amaro perché, dopo non esser riuscito a seguire la maglia rosa, si ritrova ad aver perduto un minuto, mentre due solo quelli che ora lo separano dalla testa della classifica.

Recuperare lo svantaggio con un Koblet in queste condizioni non sembra un gioco facile, anche se ora è in programma un tappone dolomitico non molto dissimile da quelli che il Campionissimo ha dominato nelle precedenti edizioni. Il tracciato della Auronzo – Bolzano è, a partire dal passaggio da Cortina, un clone del percorso della Venezia – Bolzano nella quale l’anno precedente Fausto aveva trionfato con più di 5 minuti su Bartali e Magni, mentre Koblet era giunto al traguardo con quasi 9 minuti di ritardo. Ma, al confronto, il Koblet del 1952 sembra differente da quello che ora si sta apprestando a vincere il suo secondo Giro e, infatti, stavolta l’infilata Falzarego-Pordoi-Sella non basta al Campionissimo per ribaltare una situazione che, anzi, non viene nemmeno scalfita. Se per tutti gli altri i distacchi sono pesanti – 3° al traguardo Fornara a 3’56”, quarti Donato Zampini e Bartali a 7’23” – non è così per i due sfidanti che giungono insieme a Bolzano, dove Coppi vince allo sprint dopo che Koblet era riuscito a distanziarlo di 1’15” in vetta al Pordoi e dopo che l’elvetico si era trovato a sua volta a inseguire il Camponissimo, scollinato sul Sella con 1’25” di vantaggio. Nelle dichiarazioni alla stampa della sera un demoralizzato Coppi lascia intendere che, oramai, non ha più la possibilità di staccare il rivale, ma di diverso avviso sono i suoi compagni di squadra, che si radunano nella camera del Campionissimo e cercano di convincerlo del contrario. Gli raccontano che lo Stelvio è più duro di tutte le salite del Giro e del Tour messe assieme e che se c’è una persona in grado di contrastare lo strapotere di Koblet, quella persona è proprio lui. Quel che non possono sapere è che, mentre il piccolo conciliabolo riesce a convincere Fausto e si cominciano a tessere le strategie per la tappa del giorno successivo, nello stesso tempo Koblet inizia ad avvertire i sintomi di una bronchite che deve essersi buscato sui passi dolomitici e che il giorno dopo lo farà soffrire terribilmente…

… e il giorno dopo è il giorno della prima scalata allo Stelvio, che Torriani ha inserito nel finale di una delle tappe più brevi di questo Giro, lunga soli 125 Km. Si parte da Bolzano e per i primi 75 km le uniche difficoltà di gara sono rappresentate dai lievi tratti in falsopiano che si susseguono lungo la Val Venosta. È l’interminabile introduzione ai 24 Km al 7.6% che conducono fino a quota 2758 percorrendo la strada progettata dall’ingegnere bresciano Carlo Donegani, i cui lavori erano terminati quasi 130 prima. È lassù che si potrebbero concretizzare la quinta vittoria di Coppi al Giro oppure un dignitoso passaggio di consegne tra i due campioni, distanti anagraficamente sei anni l’uno dall’altro. Fino ai piedi del passo la tappa scorre via senza troppi clamori, come molte altre frazioni di questa edizione della corsa rosa, poi prendono il comando a turno i compagni di Coppi, che lasciano strada libera al Campionissimo quando mancano 9 Km al culmine. Superata quota 2000 Fausto attacca e quasi immediatamente la maglia rosa cede. Il piemontese aggredisce con grinta gli spettacolari tornanti plasmati dal Donegani, gli stessi che invece fanno soffrire un Koblet delibitato dalla bronchite, da una persistente febbricola e dal catarro che gli impedisce di respirare. Dopo 3 Km dall’attacco Coppi ha già distanziato il rivale di 1’40”, distacco che lievita a 4’25” sotto lo striscione del GPM, conquistato dal Campionissimo alle 17.34 del primo giugno 1953, lo stesso giorno nel quale gli inglesi annunciano che il precedente 19 maggio erano stati due loro alpinisti i primi uomini ad aver messo piede sulla vetta dell’Everest. Koblet non si dà per vinto e nella spaventosa discesa verso Bormio viene giù come un pazzo, rischiando anche la propria incolumità: cade due volte, recupera quasi un minuto ma quei 3’38” che intercorrono tra gli arrivi dei due corridori suonano come una pietra tombale sulle possibilità di Koblet di vincere quel Giro.

L’ultima tappa verso Milano non presenta insidie – e, infatti, la vincerà Magni in volata sul gruppo compatto – e all’intervistatore che gli chiede se avesse qualche strategia per la frazione conclusiva l’elvetico risponde che, se gli passerà la bronchite nella notte, correrà solo per difendere il secondo posto. Posizione che alla sera del 2 giugno sarà ufficialmente sua, primo degli “umani” dopo l’extraterrestre Coppi, che quell’anno conquistò il suo Everest e vinse il suo ultimo Giro con 1’29” sul rivale.

Mauro Facoltosi

LE ALTIMETRIE

Nota: mancano la 6a tappa (Roma) e l’11a (cronometro a squadre di Modena), mentre della 13a (Bordighera) è presente la sola altimetria. Di altre tappe è unicamente presente la tabella di marcia

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1937, LA PAZZIA DEL SIGNOR COUGNET

maggio 13, 2020 by Redazione  
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Le Dolomiti furono scoperte due volte. La prima volta nel 1837 quando il naturalista francese Déodat de Dolomieu studiò e scopri la particolare struttura delle rocce dei Monti Pallidi, che da lui presero il nome. La seconda volta accadde esattamente cent’anni più tardi, quando Armando Cougnet ebbe la geniale idea di far disputare per la prima volta una tappa della corsa rosa tra quegli imponenti picchi.

Quel giorno Armando Cougnet si sentì un po’ come Henri Desgrange, il direttore del Tour de France che nel 1910 si prese dell’assassino da Octave Lapize per aver avuto l’ardire d’inserire nel percorso della corsa francese le tremende e all’epoca totalmente sterrate salite pirenaiche. Accadde dopo che Cougnet lasciò cadere il velo che copriva il tracciato del Giro del 1937 e nel quale il papà del Giro, da lui rocambolescamente creato dal nulla nella calda estate del 1908, aveva inserito una tappa tracciata tra Vittorio Veneto e Merano, attraverso le Dolomiti, finora mai visitate dal Giro. Era il regalo che lui voleva fare alla sua “creatura” in occasione della 25a edizione ma si senti dare del pazzo dai presenti. E non avevano tutti i torti perché le strade che all’epoca raggiungevano quei colli non erano nemmeno lontanamente paragonabili alle moderne rotabili del giorno d’oggi. Ancora lontani i tempi del turismo di massa, frequentate al massimo dagli alpinisti diretti alle ardite vette della zona, erano strade figlie di vecchie mulattiere d’origine prevalentemente militare, strette e caratterizzate da fondi disagevoli, inghiate e piene di buche, esposte su precipizi e spesso prive di protezioni a valle. C’era il concreto rischio che a portare il Giro lassù si sarebbero fatti correre ai corridori e agli uomini della carovana parecchi pericoli.

Ma Cougnet non piega il capo davanti a quelle obiezioni e non cambia di una virgola il tracciato di quell’edizione, che si apre l’8 maggio a Milano con Gino Bartali grande favorito dopo la vittoria conseguita l’anno precedente, anche se su di lui pesa una grossa incognita per la stramba decisione di presentarsi al via senza nessun giorno di gara nelle gambe. Il primo atto della corsa è una frazione di 165 Km che da Milano conduce a Torino, dove sono previste alcune dolci ondulazioni nel finale; ed è proprio sulle strade del Monferrato che scaturisce l’azione che decide il destinario della prima maglia rosa, quando il modenese Nello Trogi, che vive a Tolone e corre nella squadra degli italiani residenti all’estero, prende il volo a una quarantina di chilometri dal traguardo e porta a termine la tappa con 1’40” sul gruppo, regolato allo sprint da Giuseppe Olmo.

Il Giro si ferma in Piemonte per una tappa disegnata sulle Langhe che dal capoluogo conduce in poco meno di 150 Km ad Acqui, la località termale dell’alessandrino che vede lo sprint vincente del toscano Quirico Bernacchi, che conquista anche la maglia rosa mentre il gruppo giunge leggermente sgranato al traguardo di una tappa caratterizzata anche da polverosi tratti sterrati. Intanto Bartali pian piano affina la sua condizione in attesa delle tappe a lui più congeniali.

Altimetricamente simile è la successiva tappa diretta a Genova, alla quale si giunge dopo esseri saliti sulla Scoffera e sul Colle Caprile. Anche questa è una frazione che lo scalatore toscano affronta in vigile ombra, mentre davanti cambia ancora il padrone del vapore, con il passaggio di consegne tra Bernacchi e il piemonte Giovanni Valetti, vincitore nel capoluogo ligure, mentre è costretto al ritiro per le conseguenze di una caduta avvenuta il giorno prima Francesco Camusso, il corridore che aveva vinto il Giro del 1931, il primo nel quale era prevista l’assegnazione della maglia rosa.

La corsa giunge ora in Toscana dove nella terra di Bartali sono in programma ben quattro frazioni, la prima delle quali termina a Viareggio con la vittoria di Olimpio Bizzi, ottenuta in volata su un gruppetto di otto corridori selazionati dalle asperità di giornata, tra i quali ci sono la maglia rosa Valetti e il corridore toscano.

“Ginettaccio” nel frattempo ha terminato la marcia d’avvicinamento alla forma migliore ed è ora pronto a sfidare apertamente i rivali in una frazione inedita, proposta per la prima volta in una corsa a tappe: si tratta di una cronometro a squadre di 60 Km disegnata sul litorale versiliano verso Marina di Massa, una tipologia di gare che sarà introdotta per la prima volta nel programma del Tour de France solamente 17 anni più tardi. La prova collettiva vede il trionfo della Legnano, la formazione sponsorizzata dall’azienda di biciclette che ha sede nell’omonima città lombarda e che nelle sue file ha proprio Bartali, che oltre alla vittoria di gruppo a una media di poco inferiore ai 44 Km/h consegue anche la maglia rosa. La permanenza del corridore di Ponte a Ema al vertice della classifica è, però, di brevissima durata perché il pomeriggio dello stesso giorno si disputa una semitappa verso Livorno caratterizzata dalla breve ma ripida salita di Montenero nel finale: mentre Bizzi concede il bis c’è, infatti, da segnalare il ritorno in rosa di Valetti per 43” sullo scalatore toscano.

Dopo il primo dei quattro giorni di riposo previsti la Corsa Rosa si rimette in marcia con un’ultima frazione disegnata in terra toscana che vede i “girini” pedalare in direzione di Arezzo e che non propone stravolgimenti nei piani alti della classifica, mentre il successo se lo gioca un gruppetto di tre fuggitivi dal quale emerge Olmo su Enrico Mara, corridore varesino che gareggia da indivuale ed è fratello minore di quel Michele Mara che nel 1930 aveva vinto la Milano-Sanremo e il Giro di Lombardia.

Alla vigilia di una delle frazioni più temute della corsa si disputa una tappa di trasferimento verso Rieti, giornata che termina con uno sprint i cui esiti vengono ribaltati dal collegio di giuria dopo un’accurata indagine. Il bolognese Marco Cimatti, che dopo aver smesso di correre aprirà prima una fabbrica di biciclette e successivamente un’azienda di motociclette, protesta dopo aver notato che Aldo Bini, il corridore che lo aveva preceduto di un’inezia sul traguardo vincendo la tappa, si era appoggiato a una spalla del compagno di squadra che lo stava pilotando verso la vittoria, un’irregolarità che viene confermata dalla giuria, che giustamente assegna la vittoria al bolognese.

Si arriva alla difficile cronoscalata del Terminillo, tappa che Bartali attende con doppia voglia di riscatto perché non solo mira a riprendersi la maglia rosa ma intende anche migliorare la prestazione dell’anno precedente sul medesimo percorso, quando si era piazzato terzo preceduto di 16 secondi da Aladino Mealli e di 35 secondi da Olmo, facendo registrare lo stesso tempo del corridore che in questo momento detiene le insegne del primato, Valetti. Stavolta il “colpaccio” gli esce percorrendo i 20 Km verso Campoforogna in 52 minuti e 35 secondi, a una velocità media di 21.668 Km/h, mentre Mealli si piazza anche nel 1937 in seconda posizione con 41” di ritardo e Valetti termina la tappa terzo con un passivo di 1’03”, scendendo al secondo posto della classifica con un distacco di 20” dal toscano. La fatica giornaliera non termina qui perché nel pomeriggio ci si rimette in sella per raggiungere Roma in 152 Km, semitappa che – nonostante l’impegnativa salita verso Rocca di Papa, che cinque anni prima aveva ospitato i primi mondiali di ciclismo organizzati dall’Italia, conquistati da Alfredo Binda – termina con un volatone di 32 corridori regolati da Raffaele Di Paco, il Cipollini degli anni ’30 che vincerà ben 16 frazioni alla Corsa Rosa e collezionerà anche 11 affermazioni al Tour.

Dopo questo doppio impegno si corre una delle frazioni più lunghe, che termina con il successo di uno dei corridori più vecchi del gruppo, nonché uno dei più celebrati. È, infatti, il 34enne Learco Guerra a imporsi al termine dei 250 Km della Roma-Napoli, conseguendo quella che sarà l’ultima sua vittoria sulle strade del Giro, corsa che in carriera aveva vinto nel 1934.

Un’altra meritata sosta e poi il gruppo inizia la risalita della penisola con la Napoli-Foggia, tappa nella quale – pur non presentando un percorso d’alta montagna – Bartali dà un’altra zampata alla concorrenza con una fuga solitaria nata sulla salita della Serra, quando al traguardo mancano ancora quasi cento chilometri. Lo spunto glielo offre il fatto d’aver notato che sulla Serra era riuscito agevolmente a guadagnare terreno e poi lo motivano anche i 62 Km che separano la cima del successivo GPM di Ariano Irpino dal traguardo, la stessa distanza che intercorreva tra l’ultima salita e l’approdo finale di Milano al Giro di Lombardia del 1936, che lui aveva vinto precedendo allo sprint Diego Marabelli e Luigi Barral. Stavolta non ha avversari con lui e nessun può portagli via la vittoria in una tappa che lo vede guadagnare 1’15” su Valetti, consolidando ancora di più la sua supremazia.

Nonostante le fatiche profuse Bartali allunga ancora il giorno dopo nella seconda semitappa dell’11a frazione, dopo che il mattino il modenese Walter Generati si era imposto a San Severo. I saliscendi molisani ispirano nuovamente il capitano della Legnano, che va riacciuffare Cesare Del Cancia dopo un tentativo del corregionale e in sua compagnia percorre gli ultimi 25 Km, arrivando a distanziare di un altro paio di minuti Valetti sul traguardo di Campobasso, mentre si segnalano in carovana i ritiri eccellenti di Bizzi e Guerra.

Non sarà così il giorno dopo, quando gli avversari decidono di approfittare delle avversità di corsa che colpiscono Bartali nel finale della tappa di Pescara, dopo che Gino aveva tentato ancora di fare il vuoto assieme a Del Cancia sulla salita di Colle Spaccato, a una quarantina di chilometri dalla conclusione. Non solo questo tentativo abortisce quasi subito, ma più avanti il toscano fora due volte e chi nei giorni precedenti era stato costretto a inseguirlo si vendica. La Fréjus, formazione di Valetti, si mette così a tirare in testa al gruppo e arriva a staccare la maglia rosa di 1’30” sulla salita di Chieti, distacco che Bartali riesce a limare di una trentina di secondi nel tratto conclusivo, giungendo a Pescara – dove Cimatti bissa il successo ottenuto a Rieti – con la maglia rosa ancora sulle spalle e con un vantaggio comunque rassicurante perché Valetti ha ancora 2’40” da recuperare.

Cimatti è protagonista anche il giorno successivo ad Ancona, stavolta al termine di una tappa priva di particolari sussulti agonistici e di un’altra volata che lo vede ancora contrapposto a Bini, con la differenza che stavolta il corridore toscano vince senza scorrettezze, riabilitandosi agli occhi dei detrattori. E, preso gusto con la vittoria, Bini va a segno anche nella 14a tappa, quando sul traguardo di Forlì precede Glauco Servadei, negandogli il successo sulle strade di casa. I ruoli s’invertono – Servadei primo, Bini secondo – il giorno dopo al termine dell’interminabile frazione di Vittorio Veneto, che precede di poche ore il “folle” tappone delle Dolomiti.

Osservato il penultimo riposo, il 26 maggio i corridori si apprestano alla prima traversata dolomitica della storia con una frazione tracciata per 227 Km tra Vittorio Veneto e Merano, lungo un temutissimo percorso che al giorno d’oggi farebbe il solletico ai corridori e suonerebbe totalmente inutile ai fini della classifica. La partenza è in dolce salita, verso la Sella di Fadalto, poi si pedala senza incontrare difficoltà altimetriche nei quasi 90 Km che fanno da preambolo all’interminabile Passo Rolle e al successivo e più morbido Costalunga, seguito da una discesa molto impegnativa e nel finale “spaventosa” poichè è previsto l’attraversamento dell’orrido della Val d’Ega, che al giorno d’oggi è evitato da una variante della vecchia strada. Arrivati a Bolzano poi si ritrova il velluto della pianura nei 26 Km conclusivi verso Merano, dove si saprà se la scelta di Cougnet è stata geniale o sciagurata. Le difficoltà da superare sono tali che nemmemo un campione come Bartali può considerarsi al sicuro su un tracciato del genere, con tutti i pericoli insiti in quelle stradacce mai finora solcate dal gruppo ed è forse anche per questo motivo che nulla accade fino ai piedi del Rolle. Superata San Martino di Castrozza il capoclassifica tenta due volte di evadere, ma sulle prime non riesce a prendere il largo e quando ce la fa non ce n’è più per nessuno: i 20” che Gino riesce a guadagnare in vetta al Rolle sui primi inseguitori, diventano – nonostante il fango – 1’40” a Predazzo, 2’45” al bivio per il Costalunga, 4 minuti netti sulla cima del passo e infine 5’38” sul traguardo di Merano, dopo 100 Km di cavalcata. A questo punto Valetti si ritrova secondo in classifica con 8′18″ di ritardo e, a meno di clamorose soprese, sarà praticamente impossibile disarcionare il toscanaccio dalla cima della classifica.

Le montagne non sono comunque terminate, anche se il Passo della Mendola da superare il giorno dopo arriva molto distante dal traguardo di Gardone Riviera, un traguardo che comunque non farà altro che confermare la supremazia di Gino: la tappa termina con uno sprint di 35 corridori e anche in volata Bartali dimostra d’essere il più forte, portandosi a casa il successo davanti a Bini e anche un portasigarette d’argento, speciale dono che ha voluto riservare al vincitore il più illustre cittadino di Gardone, il 74enne Gabriele d’Annunzio.

C’è spazio per un ultimo turno di sosta prima d’intraprendere le ultime tre frazioni, che qualche emozione comunque potrebbero ancora riservarla. Ma a San Pellegrino Terme l’unico brivido lo procura forse solo il solito “vizietto” di Bini, che ancora una volta si fa trovare con le mani nella marmellata in volata e viene nuovamente retrocesso per aver levato le mani dal manubrio, con la giuria che stavolta assegna a tavolino la vittoria a Servadei.

Si arriva così al gran finale che ha in serbo due semitappe con quella mattutina verso Como che dovrebbe proporre le salite al Balisio e al Ghisallo, ma la seconda viene estromessa all’ultimo momento per accorciare la fatica dagli originari 180 Km ai 151 Km sui quali effettivamente si corre e che vede nella prima parte Bartali in azione sul Balisio semplicemente per consolidare il suo primato anche nella classifica dei gran premi della montagna. Lo sprint sulla pista del velodromo Sinigaglia consacra la terza affermazione di Cimatti, poi nel pomeriggio si riparte per la conclusiva razione di chilometri verso il Vigorelli, il tempio milanese del ciclismo dove la vittoria stavolta è di Bini e Bartali viene consacrato vincitore del primo Giro con le Dolomiti.

Poteva essere una pazzia e i detrattori di quel tappone possiamo dire che avevano pienamente ragione. Cougnet era davvero diventato pazzo e con lui tutti gli altri, siano essi corridori o “suivers”: quel 26 maggio impazzirono tutti per lo spettacolo offerto da Gino e dai Monti Pallidi, scoccò la scintilla di un amore che ancora oggi riscalda gli appassionati.

Mauro Facoltosi

LE ALTIMETRIE

Nota: di alcune tappe è presente la sola tabella di marcia, di altre sia la tabella di marcia, sia dall’altimetria

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1950, STAVOLTA PASSA LO STRANIERO

maggio 12, 2020 by Redazione  
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Fu il primo giro vinto da uno straniero quello del 1950. Sarà l’elvetico Hugo Koblet a imporsi in un’edizione della Corsa Rosa che vedeva al via anche i più celebrati corridori italiani, a partire da Fausto Coppi che puntava a bissare l’impresa della Cuneo-Pinerolo dell’anno prima nel tappone dolomitico di Bolzano. Invece in quella tappa terminerà la sua corsa con una dolorosa caduta che gli fratturerà il bacino e gli sconvolgerà pure la vita privata.

Parte il 24 maggio il Giro del 1950, in una data simbolica per la nostra nazione. Ma il Piave non mormora stavolta perché tre settimane più tardi sarà – per la prima volta nella storia – un corridore straniero a issarsi in vetta alla classifica. E pensare che ai nastri di partenza di quell’edizione Corsa Rosa sono schierati i tre Grandi del ciclismo italiano: c’è Fiorenzo Magni, che in quella stagione ha conquistato il Giro delle Fiandre per il secondo anno consecutivo e un Giro l’ha già portato a casa nel 1948; c’è il “pio” Gino Bartali, che ha quasi 36 primavere sulle spalle e probabilmente non ha molte chanches di vittoria ma ci tiene da matti a conquistare quell’edizione, che celebra l’Anno Santo con l’arrivo dell’ultima tappa a Roma, dove il vincitore sarà ricevuto dal papa; soprattutto c’è Fausto Coppi, che dodici mesi dopo la fantastica impresa alla Cuneo-Pinerolo vuole regalarne un’altra ai suoi tifosi e ha già messo nel mirino il tappone che Torriani ha disegnato tra Vicenza e Bolzano. Oltre ai nostri tre beniamini, al raduno di partenza una buona fetta di applausi sono riservate al francese Jean Robic, che nel 1947 si era imposto nel primo Tour de France organizzato nel dopoguerra e che in Italia è conosciuto con il soprannome di “testa di vetro” per essersi fratturato il cranio alla Parigi-Roubaix, incidente dopo il quale prenderà l’abitudine di gareggiare con un casco di cuoio (infatti, in Francia lo chiameranno più correttamente “Tête-de-cuir”, che vuol dire proprio “testa di cuoio”). Dell’elvetico Hugo Koblet, invece, non parla nessuno anche perché non fa paura un corridore che a 25 anni e al quarto da professionista ha nel palmarès solo quattro vittorie, un paio di tappe al Giro di Svizzera e altrettante al Romandia; c’è, però, chi ha visto lungo e questa persona è il suo connazionale Gottfried Weilenmann, che l’ha segnalato a Learco Guerra, il quale l’ha voluto nella formazione che porta il suo nome e che quell’anno è tra le iscritte alla corsa.

Si parte il 24 maggio, dunque, con una prima frazione pianeggiante di 225 Km che da Milano conduce a Salsomaggiore, la celebre località termale che proprio quell’anno è stata scelta per ospitare Miss Italia, il concorso creato nel 1939 da Dino Villani e che fino al quel momento era andato in scena a Stresa, dove un paio d’anni prima in occasione della kermesse erano state girate le scene d’apertura di “Totò al Giro d’Italia”. Sono attesi i velocisti alla prima esibizione ed è, infatti, uno di loro a imporsi e a vestire la maglia rosa, anche se Oreste Conte la vittoria non la ottiene sul gruppo compatto ma su un plotoncino di undici uomini “evasi” nel finale e giunto al traguardo con 40” di vantaggio sui big.

Le prime difficoltà altimetriche fanno capolino sul tracciato viaggiando verso Firenze, dovendosi affrontare le ascese verso i passi della Raticosa e della Futa. Anche qui la fuga riesce ad andare al traguardo, mentre tra i corridori più attesi c’è grossa delusione per Bartali, che cade durante un tentativo d’attacco a Coppi, fermato da una foratura, e a casa sua registra un comunque lieve passivo sul rivale (15 secondi) mentre per un fiorentino che piange ce n’è un altro che ride: è il futuro commissario tecnico della nazionale Alfredo Martini che sulla pista in terra battuta dello stadio cittadino vince la tappa che vede il passaggio delle consegne in vetta alla classifica tra Conte e lo svizzero Fritz Schär, mentre per la prima volta si fa notare Koblet, vincitore del traguardo volante di Bologna e secondo in cima alla Raticosa prima di perdere le ruote dalla testa della corsa sulla Futa.

Ancora una fuga riesce a emergere nella polverosa tappa di Livorno, dove oltre 5 minuti separano l’arrivo del gruppo dei favoriti dalla vittoria di Olimpio Bizzi, particolarmente felice per aver conquistato la frazione che terminava nella sua città natale – dove si era già imposto nel 1937 – regolando i due compagni d’avventura, Vincenzo Rossello e Armando Peverelli.

La musica non cambia neppure nel viaggio dalla Toscana alla Liguria, con gli assi tutti assieme al traguardo di Genova e Coppi terzo, ma è il minore dei due fratelli, quel Serse che l’anno precedente aveva vinto ex-aequo con André Mahé la Parigi-Roubaix e dodici mesi più tardi perderà prematuramente la vita per una maledetta caduta nel finale della Milano-Torino: quel giorno Serse se ne va in fuga con una dozzina di elementi, transita in testa sul Passo sul Bracco e poi al traguardo viene preceduto dal vincitore Antonio Bevilacqua e da Koblet, che zitto zitto guadagna posizioni in una classifica ancora dominata dal connazionale Schär, che veste le insegne del primato con 30” su Martini, mentre Coppi (Fausto) è 10° a 3’25” e Hugo è ora 13° a 3’39”, lo stesso distacco di Bartali.

Si fa ritorno al nord con una tappa che, nel suo piccolo (per modo di dire, sono 245 i chilometri da percorrere per raggiungere Torino) è storica perchè la RAI – all’epoca ancora chiamata “Radio Audizioni Italiane” – per la prima volta trasmette il Giro, anche se si tratta per ora di un semplice esperimento a “circuito chiuso”, realizzato istallando appositamente impianti di ricezione sulla collina di Pino che invieranno le immagini unicamente a una serie di televisori collocati all’interno del motovelodromo di Torino, dove è in programma l’arrivo: qui gli schermi della futura TV di stato, che inizierà le regolari trasmissioni nel 1954, immortalano l’arrivo dell’abruzzese Franco Franchi davanti ai compagni di fuga, presentatisi al traguardo due minuti prima degli uomini di classifica, ancora una volta giunti tutti assieme.

I tifosi svizzeri, nel frattempo, preparano la festa per i loro corridori perché a questo punto è previsto lo sconfinamento nella Confederazione Elvetica e il Giro ci arriva con uno di loro in rosa, avendo Schär conservato il primato in classifica a Torino. Non possono presagire, però, che la loro festa sarà doppia allorchè sarà un rossocrociato anche il primo corridore a tagliare il traguardo di Locarno e quel corridore è l’ancora poco temuto Koblet , mentre i corridori più attesi terminano la tappa tutti assieme. Intanto la classifica cambia alle spalle di Schär, con Koblet che sale al 3° posto con 47” di ritardo e Coppi che guadagna un minuto d’abbuono al traguardo volante di Biella e ora ha 2’25” da recuperare.

Dopo una giornata di riposo fuori dai confini nazionali il Giro si rimette in marcia in direzione Brescia. La tappa è una delle più lunghe, quasi come la Milano-Sanremo, e presenta la principale e ultima difficoltà a un centinaio di chilometri dalla conclusione, quando si affronta una salita inedita che rimarrà nella storia della Corsa Rosa, il passo dell’Aprica. A inaugurare questo valico è Coppi, che va all’attacco per la prima volta in questa edizione del Giro e transita in vetta in compagnia di Robic mentre, tra i big, Bartali paga poco più di un minuto per poi riuscire a rientrare, complice un cambio di bici al quale è costretto il Campionissimo. C’è una corsa nella corsa in questa tappa e l’altra gara ha per protagonista Martini, il secondo della classifica, che fora due volte, riesce a rientrare nel gruppo della maglia rosa e, sullo slancio del secondo rientro, se ne va in fuga solitaria. Dalle parti di Boario Terme è raggiunto da un gruppetto di 10 corridori e con essi arriva fino al traguardo, dove vince il corregionale Luciano Maggini mentre il futuro C.T. riesce a prendere il primato in classifica perché Schär a Brescia ci arriva con 2’44” di ritardo, nel gruppo dei big: ora è il corridore di Sesto Fiorentino a detenere il comando della corsa con Maggini a 1’15” e Bresci a 2’08”.

Il regno di Alfredo è di breve durata, sole ventiquattrore, perché un nuovo capoclassifica il Giro avrà al termine della successiva frazione di Vicenza, aperitivo al tappone dolomitico con la scalata al Pian delle Fugazze e al Passo Xon. È Koblet la nuova maglia rosa e adesso l’elvetico comincia a far paura per come ha condotto la tappa: abbandona la compagnia del gruppo sulle Fugazze, percorre i rimanenti 90 Km in compagnia di Pasquale Fornara e, nonostante la fatica d’essersi sobbarcato quasi da solo la “regia” dell’intero tentativo, batte il piemontese a Vicenza dove Bartali ottiene allo sprint il terzo posto 1’20” dopo l’arrivo dei primi due. E lo zurighese s’imbusta nella maglia rosa precedendo di 19” Martini, di 2’33” Schär e di quasi 4 minuti Coppi.

Il corridore di Castellania sperava forse in una situazione migliore al momento di mettersi in sella per la frazione più temuta, il tappone dolomitico di 272 Km disegnato tra Vicenza e Bolzano. Si tratta di una versione “estesa” di una tappa disputata anche al Giro dell’anno precedente sulla distanza di 237 Km, con partenza fissata a Bassano del Grappa e un percorso per il resto totalmente identico, che prevede il Rolle prima e il Pordoi dopo, quindi il “nanerottolo” Campolongo a precedere il Gardena e il “tuffo” verso Bolzano, percorso che aveva visto proprio Fausto in netto predominio, partito nel tratto in falsopiano verso Canazei e giunto al traguardo con quasi 7 minuti sul secondo. Stavolta, però, non ci arriva nemmeno a vederle quelle salite perché, percorsi una sessantina di chilometri dal via, “pedalavamo in gruppo a lenta andatura. Io ero sul lato sinistro della strada. Improvvisamente un braccio del corridore Peverelli ha urtato contro il manubrio della mia bicicletta. È un caso che capita tante volte durante le corse. Si riesce quasi sempre a riprendere l’equilibrio. Io, invece, sono caduto di schianto a terra, pesantemente, senza avere tempo di proteggermi con le mani dall’urto contro l’asfalto. Intuii subito che per me era finita”. Queste le parole che Coppi rilascia a “La Stampa” all’ospedale di Trento, dove gli è diagnosticata la rottura del bacino, infortunio che compromette il proseguio della stagione (la sua successiva vittoria sarà la cronometro di Terni al Giro dell’anno dopo) e che – anche se non può ancora saperlo – sconvolgerà anche la sua vita privata perché è nel periodo della convalescenza che conoscerà Giulia Occhini, la donna che diventerà la sua compagna di vita (nonostante entrambi fossero già sposati) fino alla scomparsa del Campionissimo il 2 gennaio del 1960. Tornando alla tappa in corso, fin dalla partenza tutti gli occhi erano puntati su Koblet e ora – dopo l’uscita di scena del favorito principe – lo sono ancora di più. E lui dimostra che i timori sulla sua resistenza non sono infondati perché l’elvetico tiene benissimo sulle salite e giunge al traguardo in compagnia del connazionale Ferdi Kübler e di Bartali, che vince la tappa e risale in classifica posizionandosi immediatamente dietro Koblet, con un passivo di 5’42” che recuperare sarà quasi impossibile, considerata l’età di “Ginettaccio” e il fatto che di altre frazioni di vera montagna da qui a Roma non ne sono previste.

Dopo le Dolomiti è in calendario un altro turno di riposo, durante il quale Gino ne approfitta per andare a far visita all’amico-rivale Fausto nella camera d’ospedale, poi ci si rimette in sella per un’altra tappa lunghissima che punta dritta su Milano, dove la corsa era partita dieci giorni prima e dove sulla pista del Vigorelli s’impone in fuga il catanese Mario Fazio. Nel frattempo si viene a sapere che anche il pontefice, l’apparentemente freddo e distaccato Pio XII, ha dimostrato autentico dispiacere per l’incidente di Coppi, soprattutto alla notizia che ne avrebbe avuto per un paio di mesi e le sue dichiarazioni sorprendono anche perché non era un mistero che Papa Pacelli avesse una particolare predilezione per il “pio” Bartali.

Dal capoluogo lombardo ci si rimette intanto in viaggio per andare a Ferrara con un’altra bella indigestione di chilometri sul velluto della Pianura Padana, tappa nella quale il gruppo se la prende comoda lasciando che i fuggitivi si presentino sul traguardo, dove s’impone il velocista umbro Adolfo Leoni, con un vantaggio di ben 6 minuti. Oramai sembra che nel gruppo ci sia una sorta di rassegnazione e che non ci sia più nulla da fare lo dimostra Bartali in un’intervista rilasciata il mattino successivo, nella quale dichiara che l’unico suo errore era stato quello, fin dalla prima tappa, di pensare troppo al rivale piemontese e di aver trascurato quell’elvetico che ora lo precede di quasi sei minuti.

C’è ora da correre la tappa più breve e facile, 144 Km sulle lisce strade romagnole che conducono a Rimini e anche qui c’è da registrare una volatona tra fuggitivi, che vede Bevilacqua tornare a imporsi dopo il successo ottenuto una settimana prima a Genova. E anche questa è una giornata di tranquillità per tutti i big, tutti escluso Robic che è protagonista di una caduta che terrorizza i soccorritori perché non indossava il casco che ne proteggeva il fragile cranio: riesce comunque a concludere la tappa, nonostante un occhio gonfio e i tre uncini d’acciaio con i quali il medico di gara gli aveva ricucito la ferita riportata all’arcata sopraccigliare, ma poi sarà costretto al ritiro il giorno dopo.

Si torna in Toscana con la tappa che porta ad Arezzo attraverso il Passo del Muraglione, altra generosa razione di chilometri che vede lungo il percorso Koblet allungare in classifica guadagnando un minuto e mezzo ai traguardi volanti e confermando così la sua supremazione su Bartali, terzo allo sprint che decide l’ordine d’arrivo, nel quale è preceduto da Maggini e Magni.

Il giorno successivo si rovesciano le parti e stavolta è Bartali a guadagnare l’abbuono, agguantando quello previsto in cima al Passo dei Mandrioli durante la frazione che porta il gruppo da Arezzo a Perugia, che poi si conclude con i migliori tutti assieme sulla linea d’arrivo, tagliata ben 10 minuti dopo l’arrivo dei corridori andati in fuga nella seconda parte della tappa. Tra questi c’è l’ex leader della corsa Schär, che nel finale attacca e giunge tutto solo al traguardo con più di 2 minuti di vantaggio su Serse Coppi e sul padovano Giacomo Zampieri.

Un ultimo giorno di riposo precede le rimanenti quattro tappe del Giro che ora si addentra nel cuore geografico della penisola per fare scalo all’Aquila, dove Bartali 14 anni prima aveva collezionato la prima vittoria alla Corsa Rosa. Forse ringalluzzito dal ricordo di questo precedente il corridore toscano tenta di giocarsi ancora la carta dell’abbuono e anche stavolta riesce nell’intento, riducendo a 5’12” il suo passivo da Koblet mentre davanti vola verso la vittoria Giancarlo Astrua, il giovane piemontese che al Giro dell’anno dopo riuscirà a precedere a sorpresa di 20 secondi Fausto Coppi nella cronoscalata di San Marino.

C’è ancora una frazione di montagna prima dell’epilogo romano, ma non si possono certo definire un tappone i 203 Km che collegano il capoluogo abruzzese a Campobasso superando ascese storiche come il Piano delle Cinquemiglia e i valichi di Rionero Sannitico e del Macerone, affrontate sin dalla prima edizione del Giro e collocate molto distanti dal traguardo. Stavolta lo “scherzetto” che Bartali aveva tirato a Koblet nelle due precedenti frazioni non va in scena e, invece, è Koblet a provare l’azione sulla salita di Rionero, in cima alla quale ha 45” sul toscano, che rientra in discesa. Ma poi è un altro toscano a prendere il largo, sfruttando una foratura dell’elvetico: è Magni, che vola a prendersi un successo che inseguiva con ostinazione fin dall’inizio del Giro mentre i due “litiganti” concludono la tappa pari tempo una cinquantina di secondi dopo l’arrivo vittorioso di Fiorenzo.

Ma Bartali è indomito e intende ancora sfruttare le occasioni che il fato ha in serbo nelle ultime due facili frazioni. Così succede che nel viaggio verso Napoli Koblet fora ben 4 volte e il secondo in classifica coglie al balzo l’occasione per attaccarlo, rimanendo al comando della corsa per quasi tre quarti d’ora con l’elvetico a inseguire con un passivo attorno al minuto da recuperare. In suo aiuto arriva una quinta foratura, che colpisce però il suo connazionale Kübler, in quel momento nel gruppo Bartali. La sosta per riparare il danno è lunga e così Ferdi si vede raggiunto dal gruppetto nel quale insegue la maglia rosa, al quale si associa contribuendo ad annullare definitivamente il distacco. Terminate queste concitate fasi di gara s’impossessano del palcoscenico il veneto Annibale Brasola e Guido De Santi, che s’involano verso il traguardo, dal quale transitano nell’ordine 16 minuti prima del sopraggiungere del gruppo, stavolta senza più distacchi tra Koblet e Bartali.

Ora il Giro è davvero finito, nessuno prova a impensierire il padrone della corsa nella conclusiva tappa di Roma, che termina così come era iniziata la corsa, con il successo di Oreste Conte che regola allo sprint un gruppo di 69 elementi. Tra i quali c’è Hugo Koblet, primo straniero a vincere il Giro.

Quell’anno il Piave non mormorò…

Mauro Facoltosi

LE ALTIMETRIE

Nota: mancano la 10a tappa (Milano), l’11a (Ferrara) e la 17a (Napoli), mentre della prima (Salsomaggiore) è presente la sola planimetria

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