1986, L’ANNO DELLA SVOLTA

maggio 20, 2020
Categoria: News

Dopo una serie di edizioni caratterizzati da percorsi “all’acqua di rose” il Giro inizia lentamente a riscoprire le grandi montagne e lo fa a partire dall’edizione del 1986. È l’anno della vittoria di Roberto Visentini, che dodici mesi più tardi avrebbe potuto collezionare uno strepitoso bis se non avesse trovato sulla sua strada un compagno di squadra che lo tradirà…

Se chiedessimo agli appassionati di ciclismo che hanno vissuto in “diretta” gli anni ’80 quale edizione della Corsa Rosa di quel decennio fosse rimasta nel loro cuore potremmo avere tre risposte differenti. Una parte degli intervistati senza dubbio ci indicherebbero il Giro del 1984, quello dell’incredibile rimonta di Francesco Moser nella cronometro conclusiva dell’Arena di Verona quando, utilizzando per la prima volta su strada le ruote lenticolari che aveva sperimentato all’inizio della stagione nel vittorioso record dell’ora in Messico, riuscì a infliggere 2′24″ a Laurent Fignon e così scavalcare definitivamente in classifica il francese, che alla partenza di quella tappa era in vantaggio di 1’21” sul corridore trentino.
Altri, invece, ricorderanno l’edizione del 1988, quella della prima vittoria di un corridore che veniva d’oltreoceano, lo statunitense Andrew Hampsten, ma soprattutto quella del ritorno del Giro sul Gavia, che non veniva più affrontato dall’anno della scoperta della salita lombarda (1960) e che venne inserito in una tappa drammatica, una frazione disputata sotto una pesante nevicata che rispolverò l’episodio – che sembrava oramai lontano nel tempo e irripetibile – della tremenda tappa del Bondone del 1956.
Ci sarà, infine, chi rammenterà l’edizione disputata l’anno precedente, quando nel 1987 accadde lo storico “tradimento di Sappada” nella tappa che terminava nell’allora località di sport invernali friulana, recentemente passata al Veneto. E non è un modo di dire perché davvero ci fu quel giorno un tradimento da parte dell’irlandese Stephen Roche, che vincerà quell’anno la Corsa Rosa, ai danni del proprio capitano Roberto Visentini, che vestiva la maglia rosa con un vantaggio importante e che, attaccato da un uomo che riteneva suo fido scudiero, patì una profonda crisi – fisica prima e psicologica poi – che lo porterà a tagliare il traguardo con un ritardo vicino ai sette minuti. Se non ci fosse stata quella pugnalata alle spalle quell’anno il Giro con tutta probabilità l’avrebbe vinto proprio il corridore bresciano, considerate anche l’autorità e i pesanti distacchi con i quali si era imposto nella cronoscalata di San Marino, un paio di giorni prima di Sappada.

E per Visentini quello sarebbe stato uno strepitoso bis perché un Giro lui l’aveva già vinto, quello disputato l’anno prima. Ed è proprio dell’edizione del 1986 che vi parleremo, una delle meno note e “chiaccherate” di quel decennio ma che vale la pena d’esser ricordata, anche perché rappresentò un importante punto di svolta nella storia della Corsa Rosa, una sorta di pietra miliare. Come abbiamo ricordato nell’articolo sul Giro del 1982, la prima metà degli anni ’80 era stata caratterizzata da giri disegnati con mano molto leggera per favorire la presenza dei corridori all’epoca più acclamati dagli italiani, il citato Moser e Giuseppe Saronni, che avrebbero garantito una maggior tiratura della Gazzetta dello Sport e che pativano le grandi salite, il trentino più del lombardo. Quella filosofia di concepire i percorsi aveva, però, avuto l’effetto di penalizzare gli scalatori, anche perché fu adottata anche in altre corse italiane, con il risultato di privare dei “grimpeur” nostrani di competizioni nelle quali farsi la gamba in vista di gare come il Tour de France, nel quale in quel periodo i nostri non furono mai competitivi per la vittoria finale. Tutto cambiò a metà di quel decennio, quando Vincenzo Torriani si rese conto sia dell’errore compiuto nel troppo sottostare ai desideri dei dirigenti della Rizzoli (proprietari della Gazzetta), sia del fatto che i due tanto osannati campioni avevano cominciato a imboccare la strada del declino agonistico (Moser gareggerà fino al 1988, Saronni smetterà due anni più tardi) ed era oramai inutile e controproducente continuare a perseguire quella modalità. Dal 1986 comincerà così a “rimpolpare” il percorso del Giro, inizialmente in maniera graduale al punto che quell’edizione della Corsa Rosa può essere definita quasi una figlia maggiorata delle precedenti ma priva ancora di quei tapponi che diventeranno sempre più abituali negli anni successivi, quando la corsa andrà alla scoperta di ascese dimenticate (come il Gavia o la Marmolada) o di asperità inedite come il tremendo Mortirolo, che farà la sua prima comparsa nel 1990 e che era una difficoltà inconcepibile per i primi anni ’80. Non c’erano solo Visentini, Saronni e Moser al via di quel Giro che, dopo il Bernard Hinault visto in gara nel 1985, proponeva un altro grosso nome nella starting list, l’americano Greg Lemond, che correva proprio nella formazione del corridore francese e che fino a quel momento era principalmente conosciuto per aver vinto i campionati del mondo del 1983 e per essersi piazzato secondo in quelli del 1982, alle spalle di Saronni (il mondiale della “fucilata” di Goodwood).

Si parte dalla Sicilia con un il più breve cronoprologo della storia del Giro, un chilometro e nulla di più che viene per l’appunto ribattezzato “Millemetri”, la distanza sulla quale il velocista e pistard elvetico Urs Freuler fa registrare quella che fino al 1994 sarà la media più elevata della storia della corsa (52.728 Km/h), mentre i distacchi sono ovviamente ridottissimi: un secondo per Saronni, due per il bergamasco Silvestro Milani, per “Guidone” Bontempi e per Moser.

Dalla festa per la conquista della prima maglia rosa l’Atala diretta da Franco Cribiori sprofonda purtroppo nel dramma poche ore più tardi, dopo la conclusione della pomeridiana tappa diretta a Sciacca, dove il pavese Sergio Santimaria taglia il traguardo con meno di 200 metri di vantaggio sulla volata del gruppo e si prende le insegne del primato. Il dramma ha il volto di Emilio Ravasio, che cade a pochi chilometri dall’arrivo ma riesce a risalire in sella e a terminare la tappa, seppure con forte distacco dai primi e senza apparentemente manifestare conseguenze per l’incidente. A sera in albergo si sente male, fatica a parlare, ha capogiri perché aveva battuto forte il capo sull’asfalto e il suo compagno di stanza – il futuro vincitore del Giro Gianni Bugno – avverte Cribiori che si precipita ad avvisare il dottor Giovanni Tredici, medico del Giro. Nel frattempo Ravasio sviene e il medico della Corsa Rosa lo fa ricoverare d’urgenza in ospedale, dove entra in coma.

È in un clima non certo festoso che il Giro si risveglia l’indomani. Tra l’altro ancora vivo è il ricordo dell’incidente mortale avvenuto nel 1976 proprio sulle strade di Sicilia, anche quello verificatosi nella tappa d’apertura del Giro quando, per una caduta in discesa, aveva perso la vita il corridore spagnolo Juan Manuel Santisteban. Quel giorno si arrivava a Catania, dove anche oggi sono attesi i “girini” al termine di una frazione lunga 259 Km e quasi del tutto priva di difficoltà, una frazione movimentata da un paio di cadute eccellenti nel finale ma senza gravi conseguenze (finiscono a terra Saronni e Lemond, con quest’ultimo che perde 1’38”, passivo senza il quale l’americano avrebbe terminato il Giro in seconda posizione, e non in quarta, con 48” di ritardo da Visentini) e che termina allo sprint con la vittoria dell’olandese Jean-Paul van Poppel, che si veste di rosa sullo stesso traguardo dove farà bottino doppio, tappa e a maglia, anche al Giro del 1989. Tutti, però, più che allo svolgimento della corsa sono interessati alle condizioni di salute di Ravasio, operato d’urgenza nella notte per la rimozione di un ematoma extradurale dalla scatola cranica.

Prima di lasciare l’isola si deve affrontare una delle tappe più delicate del sessantanovesimo Giro d’Italia, una difficile cronometro a squadre di 50 Km il cui tratto conclusivo è in salita verso il traguardo di Taormina. È uno degli ultimi atti dell’annosa sfida tra Saronni e Moser, che vede la formazione del primo corridore, la Del Tongo – Colnago, fare meglio della Supermercati Brianzoli del trentino per 9”, con quest’ultimo che sbeffeggia il rivale sostenendo che se la tappa si fosse disputata individualmente l’avrebbe vinta lui. Intanto l’atteso Lemond paga ancora – la sua squadra, La Vie Claire, è 3a a 1’41” – e la maglia rosa cambia padrone per la quarta volta in tre giorni finendo proprio sulle spalle di Saronni.

Un fatto storico attende il gruppo una volta varcato lo Stretto perché nella prima tappa continentale, la Villa San Giovanni – Nicotera, Gianbattista Baronchelli riesce finalmente a fare sua la maglia rosa, dopo un inseguimento durato 12 anni e iniziato il tardo pomeriggio del 6 giugno del 1974 verso le Tre Cime di Lavaredo. L’ambito simbolo del primato è suo dopo un tentativo che gli frutta al traguardo un vantaggio di 18” sul gruppo dei migliori e che gli consente, anche grazie all’abbuono, di portarsi al comando della classifica con 17” sul suo capitano Moser e 22 sull’ex leader Saronni.

Intanto i “moseriani” cominciano a fare gli scongiuri per la tappa del giorno dopo, che prevede a 28 Km dal traguardo di Cosenza la salita del Passo della Crocetta, sulla quale l’anno prima il loro beniamino aveva accusato una piccola crisi nel finale della frazione di Paola, una momentanea défaillance che lo aveva portato ad accusare quasi un minuto di ritardo in vetta al colle, passivo annullato quasi completamente nel corso della picchiata che conduceva al traguardo, dove aveva trovato la vittoria il portoghese Acacio Da Silva. E in quella occasione si era affrontato il lato più facile dell’ascesa calabrese, che stavolta viene presa dal più probante versante tirrenico. I timori non sono infondati e non lo si riveleranno perché il trenino soffre anche stavolta e in maniera maggiore, arrivando ad accusare 2’20” in cima alla Crocetta e 1’27” al traguardo, dove Lemond anticipa di un paio di secondi la volata del gruppo, regolato da Saronni.

Si lascia la Calabria con un’altra frazione dal chilometraggio abbondante, 251 Km per viaggiare verso Potenza dove il traguardo è posto al termine di una pedalabile ascesa lunga circa 3 Km. È un finale che si adatta alle caratteristiche di un corridore come Saronni e, infatti, è proprio lui a tagliare la linea d’arrivo a braccia levate, precedendo allo sprint l’australiano Michael Wilson e Van Poppel. Peccato che quello non fosse lo sprint per la vittoria: il corridore di Parabiago aveva spesso l’abitudine di stazionare in fondo al gruppo e di uscirne solo all’ultimo e così non si era accorto che a 5 Km dal traguardo se n’era andato tutto solo Visentini, giunto a Potenza 11 secondi prima di tutti gli altri. Ora Saronni, tornato in maglia rosa dopo i due giorni d’interregno di Baronchelli, comincia a guardare con occhi diversi lo scalatore bresciano e inizia a temerlo, nonostante sia ancora lontano in classifica da lui, sesto a più di due minuti.

Nell’attesa della prima frazione di montagna si devono affrontare due tranquille tappe di trasferimento, la prima delle quali vede Bontempi vincere il secondo “round” tra i velocisti precedendo l’attuale dirigente di RCS Sport Stefano Allocchio e Paolo Rosola sul traguardo di Baia Domizia, nel casertano. Un pelo più movimentato è il finale della successiva Cellole – Avezzano, che vede una leggera frattura nel gruppo maglia rosa, grazie alla quale Visentini guadagna sette secondi su tutti gli altri. A vincere questa frazione è Franco Chioccioli, il toscano che si imporrà nel Giro del 1991 e che nelle interviste nel dopo tappa dichiarerà di ambire a finire quell’edizione della corsa tra i primi cinque della classifica (in quel momento è nono a 2’13” e alla fine si dovrà accontentare del sesto posto assoluto).

L’operazione di rilancio delle grandi salite parte dal Terminillo, che Torriani inserisce nel finale della tappa di Rieti, proponendolo dal versante più impegnativo. Nel 1978 la medesima salita, affrontata dallo stesso lato, era stata fatale a Saronni e Moser, che accusarono quasi 2 minuti di ritardo dalla maglia rosa Johan De Muynck sul traguardo del Lago di Piediluco. Tre anni più tardi stesso scenario, era la tappa di Cascia, e anche in quell’occasione i due soffrirono e in particolar modo il trenino che, dopo essersi staccato in salita, cadde in discesa per lo scoppio di un copertoncino e lasciò per strada quasi 6 minuti. È con un pizzico di timore che i due, dunque, si apprestano a disputare questa frazione che stavolta è magnanima nei loro confronti perché Beppe e Francesco terminano nel gruppo di Lemond e Visentini, dopo che Saronni aveva perduto poco meno di mezzo minuto in salita ed era successivamente riuscito a ricucire il buco. A imporsi sul traguardo reatino è il portoghese Da Silva, del quale avevamo già parlato in occasione della tappa calabrese, che allo sprint precede il romagnolo Alfio Vandi e il giovane lombardo Marco Giovannetti, che due anni prima da dilettante aveva conquistato la medaglia d’oro nella cronosquadre alle Olimpiadi di Los Angeles.

Consegnata agli archivi la prima tappa di montagna si attende ora la cronometro in programma tre giorni più tardi sulle strade del senese, prima della quale si devono affrontare una lunga tappa per velocisti diretta a Pesaro e poi una frazione disegnata sulle colline umbre con approdo a Castiglione del Lago che prevede nel finale l’ascesa al Monte Castiglione. Lassù ci prova Visentini, che si porta sul gruppetto dei fuggitivi ma poi preferisce farsi riprendere e la tappa termina allo sprint, vinta come quella del giorno prima da Bontempi.

La prima delle due prove contro il tempo lunghe è in programma tra Sinalunga e Siena, 46 filanti chilometri in gran parte tracciati sulla pianeggiante superstrada che collega la città del Palio con lo svincolo di Bettolle, mentre il finale è in salita verso Piazza del Campo. È la tappa che dimostra come Moser non sia più l’asso di un tempo nelle cronometro, che negli anni precedenti lo avevano visto o vincitore o sconfitto di poco; stavolta il trentino non riesce a scatenare la sua potenza e termina 10° a 1’20” dal sorprendente neoprofessionista polacco Lech Piasecki, corridore che nella massima categoria conseguirà altre 13 vittorie, quasi tutte ottenute in Italia e prevalentemente in gare a cronometro. Tra gli uomini che puntano alla maglia rosa finale quello che fa meglio di tutti è Visentini, che si piazza secondo a 7 secondi da Piasecki e intasca anche l’abbuono, la cui assegnazione in quegli anni era prevista anche in queste frazioni; gli altri distacchi che contano sono di 30” per Saronni, di 40” per Lemond e di 1’30” per Baronchelli, con Beppe che riesce a conservare il primato in classifica con 1’18” su Baronchelli e 1’31” su Visentini.

Dopo la pianeggiante tappa di Sarzana, nella quale Van Poppel bissa il successo ottenuto a Catania, si arriva al primo dei quattro appuntamenti alpini, che prevede di percorrere 236 Km dal mare alla montagna, da Savona alla stazione di sport invernali di Sauze d’Oulx, in alta Valsusa. In partenza c’è d’affrontare il facile Colle di Cadibona sul quale è già corsa vera e, nonostante la mole di chilometri ancora da percorrere, dove tentano la sortita diversi corridori, tra i quali Visentini e Lemond mentre non c’è nessun uomo della maglia rosa, la cui squadra è costretta a un lungo inseguimento. Calmatesi le acque e passata senza sussulti l’interminabile ascesa al Sestriere, Visentini torna all’attacco sulla breve ma ripida salita che conduce al traguardo, si muove e fa selezione. Mentre davanti viaggia verso la vittoria l’irlandese Martin Earley, l’unico a riuscire a reggere al ritmo del bresciano è Lemond, che taglia il traguardo in sua compagnia mentre Saronni perde 16 secondi, non molti ma che lo fanno seriamente preoccupare perché un paio di giorni più tardi è in programma un tappone molto più duro di quello oggi affrontato. E intanto si gode un altro giorno in maglia rosa, ora indossata con 1’10” su Visentini e 1’51” su Baronchelli.

Dopo un’altra tappa “fiume” (Oulx – Erba, 260 Km, vittoria in solitaria del norvegese Erik Pedersen) si disputa la frazione più difficile di questa edizione della Corsa Rosa, nella quale ci si gioca una considerevole fetta della vittoria finale. I chilometri da percorrere non sono molti, 143 Km, ma si devono affrontare due ascese molto lunghe e impegnative, quella che conduce al traguardo di Foppolo e l’inedito Passo San Marco, quasi 2000 metri di quota e 26 Km di salita che Torriani aveva già inserito nell’edizione del 1977, quando la strada per raggiungere il passo orobico era ancora sterrata, ma poi fu costretto a cambiare il tracciato della tappa di San Pellegrino Terme a causa della neve. Ed è proprio sul San Marco, affrontato sotto la grandine e dopo due settimane di una corsa che aveva sempre proposto giornate meteorologicamente calde, che “tramonta” l’astro rosa di Saronni, attaccato da Visentini sulla salita valtellinese: transita in vetta con 2’20” di ritardo e senza più le insegne del primato sulle spalle, verdetto che viene confermato al traguardo di Foppolo, dove si presenta con uno svantaggio quasi identico. Il nuovo capoclassifica è il bresciano, al quale la vittoria sfugge a causa di un salto di catena dentro l’ultimo chilometro (a imporsi è lo spagnolo Pedro Muñoz) e che si veste di rosa con 1’06” su Beppe e 1’54” su Baronchelli ma che non ha né il tempo, né la voglia di gioire. Subito dopo la conclusione di quella tappa, infatti, cala come una mannaia sulla festa del Giro la brutta notizia della morte di Ravasio, che non era più uscito dal coma nel quale era stato farmacologicamente indotto dai medici dopo il disperato tentativo di salvargli la vita rimuovendo l’ematoma.

È con il lutto al braccio che si riparte l’indomani da Foppolo alla volta di Piacenza, con l’intenzione di onorare la memoria del corridore brianzolo correndo e dedicandogli la vittoria. Lo farà Bontempi al termine di una frazione che vede il passo in avanti in classifica di Lemond, dal quarto al terzo posto a 2’05” da Visentini, in seguito al misterioso ritiro di Baronchelli, per un motivo che il corridore mantovano sempre si rifiuterà di raccontare, anche a decenni di distanza. Al momento ad acuire il mistero ci pensano le dichiarazioni nettamente contrastanti dei due direttori sportivi della Supermercati Brianzoli, con Luigi Stanga che tira in ballo un attacco di diarrea che aveva colpito il corridore in albergo a Foppolo e con Enzo Moser che si limita a dare del “pistola” a Baronchelli. La versione ufficiosa parla invece di un Gianbattista impermalositosi per le troppe attenzioni ricevute da Moser, come quella volta che il trentino era stato atteso da Claudio Corti dopo la crisi sulla Crocetta, mentre tutto questo non era successa a Foppolo, dove Corti non solo non aveva aspettato Baronchelli ma aveva continuato a fare la sua corsa piazzandosi quarto, a 21 secondi da Visentini e a quasi un minuto prima dell’arrivo di Gianbattista.

Dopo il tramonto di Saronni arriva la resurrezione tardiva di Moser, sul terreno a lui più congeniale. Dimenticata l’inattesa débâcle di Siena, il recordman dell’ora torna a far sfoggio del suo potenziale nella cronometro di Cremona, tappa che costituirà anche l’ultimo dei suoi 23 successi conseguiti sulle strade del Giro d’Italia. Alle spalle del trentino – che s’impone a 49.128 Km/h distanziando di 49” il tedesco Dietrich Thurau e di 1’05” il danese Jesper Worre – la sfida a distanza tra i primi due della classifica si risolve quasi in pareggio, con Saronni che riesce a recupere a Visentini solo 4 dei 126 secondi che lo separano dal bresciano.

Si torna sulle montagne per una frazione non particolarmente difficile e, infatti, non si muove una foglia tra i big lungo i 211 Km che conducono alle terme di Pejo dopo esser saliti sul passo di Campo Carlo Magno. Fin dalle dichiarazioni rilasciate alla stampa Saronni pare demotivato e sentenzia che oramai il Giro è nelle mani del rivale, a meno di una clamorosa crisi nel tappone dolomitico. Dal canto suo Visentini non intende sprecare energie che potrebbero essergli utili sulle Dolomiti e decide di rimanere in cabina di regia, lasciando infilare nella fuga di giornata – al termine della quale consegue la vittoria l’olandese Johan van der Velde – il suo fidato (ancora per poco) gregario Roche.

Dopo l’ultima frazione destinata ai velocisti – si corre verso Bassano del Grappa, dove Bontempi va cogliere la sua quinta affermazione – il tappone dolomitico si disputa su di un tracciato storico. I 234 Km che si devono percorrere tra la cittadina del celebre “Ponte degli Alpini” e Bolzano ricalcano fedelmente le rotte di una delle mitiche cavalcate di Fausto Coppi, quella che porta la data del 2 giugno del 1949, nella stessa edizione della Cuneo – Pinerolo. Si devono affrontare Rolle e Pordoi, Campolongo e Gardena, nella medesima sequenza che 37 anni prima vide il Campionissimo trionfare in solitaria a Bolzano con quasi 7 minuti di vantaggio sui primi avversari giunti al traguardo. Ma da allora sono cambiate tante cose, tra strade perfettamente levigate e biciclette molto più leggere, e non solo sarà impossibile ripetere le gesta di Fausto, ma forse non si riuscirà nemmeno a prendere e mantenere fino all’arrivo un piccolo vantaggio sugli altri rivali. Va a finire che neanche stavolta qualcuno azzarda qualcosa: l’unico a provarci è Lemond sul Pordoi, dove piazza due flebili attacchi senza convinzione che entrambi hanno come conseguenza altrettanti lievi cedimenti di Saronni, che ben presto riesce a rientrare in gruppo. Come due giorni prima a Pejo, in un quadro simile buon gioco ha la fuga andata via tra Rolle e Pordoi e che strada facendo si assottiglia ai tre corridori che vanno a giocarsi il successo allo sprint a Bolzano, dove si impone Da Silva sull’elvetico “Niki” Rüttimann e Alessandro Paganessi, il corridore bergamasco che nel 1983 aveva vinto il tappone dolomitico di Arabba.

Si arriva così all’ultimo giorno di gara, per il quale Torriani ha messo in programma i “girisprint”, una delle sue ultime e meno fortunate invenzioni, proposti per la prima volta al Giro dell’anno precedente a Foggia e che nelle sue intenzioni dovevano dare una sferzata di brio alla corsa ma che, invece, saranno accolti con diverse critiche da parte dei corridori. La tappa del 1985, disputata su un circuito pianeggiante di 5 Km da ripetere nove volte, prevedeva un traguardo volante con abbuoni a ogni passaggio dal traguardo, ma alla fine si era risolta con lo sprint finale di Allocchio e senza che nessuno dei favoriti per la maglia rosa si impegnasse nelle altre volatine, in una tappa che non aveva suscitato particolari entusiasmi e che qualcuno riteneva anche pericolosa. Il circuito del gran finale del Giro 1986 a Merano, invece, è più intrigante perché in ciascuna delle tredici tornate da 8.4 km cadauna è prevista la breve ma ripida salitella verso il quartiere di Maia Alta. Ma la tappa non solo risulta inutile ma anche noiosa a causa del “catenaccio” imposto dalla squadra di Visentini, che lascia uscire dal gruppo solo corridori di seconda schiera, selezionato gruppetto che a sua volta si sgrana lungo l’anello meranese fino alla vittoria in solitaria, con un minuto di vantaggio sul secondo, di Eric Van Lancker, il corridore belga che oggi è uno dei direttori sportivi della formazione asiatica Israel Start-Up Nation.
È il 2 giugno, giorno nel quale Roberto Visentini spegne 29 candeline sulla torta, una torta con una prelibata farcitura rosa. Ma è anche il giorno nel quale il Giro ha riassaporato l’aroma delle salite, un sapore che non sarà mai più abbandonato…

Mauro Facoltosi

LE ALTIMETRIE

Note: mancano il cronoprologo di Palermo, l’8a tappa (Avezzano), la 15a (Erba) e la 22a (Merano)

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