1974, CALA IL SIPARIO SULL’ERA MERCKX
È l’ultimo dei cinque Giri vinti da Eddy Merck, la vittoria più sofferta. Dopo aver dominato incontrastato nei quattro Giri precedenti stavolta trova lungo il cammino due ossi duri che gli daranno parecchio filo da torcere, lo spagnolo Fuente e l’italiano Baronchelli. E quest’ultimo gli finisce molto vicino perché l’asso belga riuscirà a vincere il suo ultimo Giro con appena 12 secondi di vantaggio sullo scalatore mantovano.Ma se non avesse fatto l’ingordo quel Giro probabilmente non lo avrebbe vinto né il belga, né il lombardo, ma lo scatenato scalatore iberico.
Cinque sono i Giri vinti da Eddy Merckx e di questi abbiamo scelto l’ultimo, quello che il “cannibale” vinse nel 1974 e che fu definito dai giornalisti che lo seguirono come uno dei più belli e appassionanti dell’intera storia della Corsa Rosa. Fino al 1973 i Giri che aveva vinto il belga li aveva dominati da autentico despota e lo testimoniano i distacchi affibbiati ai corridori giunti al secondo posto, primi dei “terrestri”: 5’01” per Vittorio Adorni nel 1968, 3’14” per Felice Gimondi nel 1970, 5’30” per José Manuel Fuente nel 1972 e 7’42” per Gimondi nel 1973, edizione della corsa che vide Merckx vestire la maglia rosa dal primo all’ultimo giorno. Nel 1974, invece, riuscirà a prevalere per soli 12”, dopo aver lottato come un leone contro due avversari che lo fecero davvero penare, il citato Fuente e il ventenne Gianbattista Baronchelli, passato professionista in quella stessa dopo che nel precedente anno trascorso tra i dilettanti aveva vinto sia il Giro, sia il Tour de l’Avenir. È da questo momento che il sipario comincia progressivamente a calare su Merckx, che riuscirà ancora a dare un saggio della sua forza al successivo Tour (vinto con oltre 8 minuti su Raymond Poulidor), ma poi negli anni successivi le sue energie cominceranno lentamente ad eclissarsi fino al ritiro, annunciato il 18 maggio del 1978 dopo che l’anno prima si era piazzato ultimo ai mondiali di San Cristóbal e dopo aver preso parte per l’ultima volta al Giro nel 1976, quando si piazzerà 8° a 7’40” da Gimondi.
Per quel Giro del 1974 Torriani propone una partenza fuori dai confini nazionali, anche se per poche centinaia di metri. Dopo la benedizione di Papa Paolo VI la bandiera del via viene, infatti, abbassata in Piazza San Pietro, poi si lascia la Città del Vaticano in direzione di Formia per una tappa destinata agli sprinter che termina con una sorpresa perché il poco quotato Wilfried Reybrouck, neoprofessionista belga fratello di quel Guido che vinse tra tappe al Giro del 1968, riesce a battere tutti i grandi nomi dello sprint, a partire dal connazionale Eric De Vlaeminck.
Un altro sprint è atteso al termine della successiva frazione di Pompei e stavolta sorprese non ce ne sono perché è il “re delle Sei Giorni” Patrick Sercu a imporsi sul gruppo ancora compatto, con i big attenti a studiarsi in vista della prima tappa di montagna, prevista già il giorno dopo.
È il Monte Faito la prima delle grandi asperità del 57° Giro d’Italia, inserito nel finale di una breve frazione di 137 Km che prevede anche la salita di Agerola. Sull’impegnativa ascesa campana non è l’atteso Merckx a dare il primo squillo di battaglia ma Fuente, che soli quattro giorni prima del via della Corsa Rosa si era imposto nella Vuelta di Spagna con appena 11” di vantaggio sul portoghese Joaquim Agostinho. Sul Faito il corridore asturiano riesce addirittura a staccare di due minuti gli altri favoriti, che poi recuperano in discesa parte dello svantaggio riducendolo a 33” sul traguardo di Sorrento, dove il primo gruppo inseguitore viene regolato allo sprint da Francesco Moser su Giovanni Battaglin, mentre poco più staccato termina il “cannibale”.
C’è anche Capri nel percorso del Giro. Torriani ha voluto portare la corsa anche in quel posto incantevole ma, essendo impossibile organizzarci una tappa a causa delle ridotte dimensioni dell’isola e della mancanza di spazi, i “girini” la visitano durante il primo dei due giorni di riposo previsti. E c’è anche qualcuno che si lamenta di questo giorno sprecato, arrivato troppo presto, dopo il quale si torna in sella alla volta di Sapri dove, nonostante i saliscendi, si arriva tutti assieme allo sprint e dove ottiene la sua ottava vittoria al Giro De Vlaeminck, l’unica che conquisterà in questa edizione.
Attraversati in partenza in primi contrafforti del Pollino, la quinta tappa collega le sponde del Tirreno a quelle dello Jonio, dove a Taranto è ancora una volata l’atto conclusivo della giornata, che vede il bresciano Pierino Gavazzi ottenere il primo successo per un corridore italiano in questa edizione davanti al parmense Ercole Gualazzini. Nulla cambia in classifica anche perché la giuria decide di punire Fuente e Merckx, colpevoli di aver ricevuto spinte durante lo sprint, solo con una retrocessione nell’ordine d’arrivo e un’ammenda di 50 mila lire a testa.
Anche la Taranto – Foggia dovrebbe essere una frazione destinata a un volatone e sarà così, nonostante il forte vento del Tavoliere che, a un certo punto, arriva a spezzare il gruppo in tanti piccoli segmenti, ben presto tutti ricuciti. Ci sono comunque dei tentativi di fare secco il gruppo, ma sono tutti rintuzzati e allo sprint è ancora un italiano a emergere: è il 33enne Franco Bitossi, popolare “cuore matto”, che sul secondo traguardo pugliese ha la meglio sul belga Karel Rottiers e sul bergamasco Walter Avogadri.
In attesa delle future tappe di montagna a movimentare un po’ la corsa arrivano due tappe dai finali collinari e la prima di questa è una delle più lunghe, quasi 260 Km dalla Puglia all’Abruzzo con il traguardo in ascesa a Chieti dopo un po’ di saliscendi nell’entroterra molisano. E, infatti, stavolta il vincitore si presenta da solo sotto lo striscione dell’arrivo dove il lombardo Ugo Colombo, in fuga solitaria per quasi 70 Km, precede di 44” De Vlaeminck, il veneto Marcello Bergamo e Merckx, che a sua volta guadagna una manciata di secondi sugli altri rivali di classifica (e in particolare 7 secondi su Fuente).
Più semplice è la successiva tappa di Macerata, con la sola ascesa finale che non impensierisce troppo i velocisti più potenti. A rompere loro le uova nel paniere ci pensa una curva a gomito posizionata a 400 metri dal traguardo, che sorprende tutti e rischia di spedire contro le transenne Merckx, che è anche sprinter e l’ha presa a tutta velocità in testa al gruppo nel tentativo di guadagnare anche oggi sullo spagnolo. Dalla confusione scaturita ne approfitta Bitossi che va a prendersi un’altra vittoria di tappa, stavolta precedendo il colombiano Martín Emilio Rodríguez, noto con il soprannome di “Cochise” (era il nome di un condottiero indiano apache) e conosciuto in Italia per aver conquistato diversi successi nella nostra nazione, dove ha corso per la Salvarani e per la Bianchi-Campagnolo.
Intanto gli appassionati s’interrogano sullo stato di forma dell’asso belga alla vigilia della seconda grande montagna del Giro, il durissimo Monte Carpegna. Ma il risponso dell’ascesa marchigiana sarà il medesimo del Faito, anzi sarà molto più salato perché al traguardo posto nel centro del sottostante paese, una decina di chilometri dopo aver superato la cima del “Cippo”, Fuente si presenta con 1’05” sul belga, che l’anno precedente sulla medesima salita l’aveva pesantemente “maltrattato” facendogli pagare ben 9 minuti di ritardo. Ora lo spagnolo si gonfia il petto fasciato di rosa e lo fa con 1’40” su di un cannibale che sembra non più in grado di “mordere” come un tempo; e a breve è in programma un altro arrivo in salita sul quale lo spagnolo potrà ancora incrementare il suo vantaggio.
Si torna nel frattempo in pianura dove a Modena i tifosi belgi ripagano la delusione delle mancate affermazioni di Merckx con il bis di Sercu, che poi otterrà un terzo successo il giorno successivo nella semitappa pomeridiana di Forte dei Marmi. Il mattino si era, invece, ripresa la strada delle montagne diretti all’inedita meta del Ciocco, il primo resort d’Italia, aperto nel 1967, che con Torriani ha firmato un contratto triennale che s’inaugura proprio in questa stagione. È una salita per ora senza storia ciclistica, dunque, ma destinata a rimanere nella storia per le pendenze impegnative che impongono i suoi 4 Km, che come da previsioni bastano a Fuente per guadagnare ancora: un’altra stoccata e via, riprende il fuggitivo Giuseppe Perletto e strappa altri 41” al sogno rosa del campione belga.
Arriva ora la tappa che Merckx attende con la stessa bramosia con la quale un assetato anela all’acqua, la cronometro individuale di 40 Km disegnata sul tradizionale palcoscenico di Forte dei Mami, un classico di quegli anni che Torriani proporrà in quattro edizioni consecutive, dal 1972 al 1975. L’anno prima, su di un percorso leggermente più corto, era stato Gimondi a far segnare il miglior tempo distanziando di 23” il danese Ole Ritter e di 31” Merckx, che in quest’occasione riesce a far meglio di tutti: vola a 48.468 Km/h infliggendo 27” a Moser e 48” al vincitore del Giro del 1971, lo svedese Gösta Pettersson. In quanto al capoclassifica Fuente, lo spagnolo fatica come il solito in prove come queste e perde 2’03”, un vantaggio che non basta al belga per spodestarlo perché la maglia rosa rimane sulle spalle dell’iberico per 18”.
Quel giorno, però, le gesta di Merckx passano in secondo piano, adombrate dalle tragiche notizie che arrivano da Brescia dove in un attentato terroristico in Piazza della Loggia sono morte sei persone, vittime che saliranno a otto nelle giornate successive. Su invito delle autorità della Spezia, dalla quale la corsa sarebbe dovuta transitare il giorno successivo, Torriani decide di fermare per un giorno la corsa in segno di lutto, anticipando di quarantottore il riposo che era stato previsto dopo la frazione di Sanremo, preceduta dalla rinviata Forte dei Marmi – Pietra Ligure, che termina in volata con il successo di Enrico Paolini su Gavazzi e De Vlaeminck.
Si arriva sulle Alpi con un Fuente che non sta più nella pelle. Intende recuperare subito il tempo perduto a cronometro e mira a rendere durissima la tappa che propone le impegnative salite del Monte Ceppo e del Passo Ghimbegna prima del traguardo fissato nella città della Classicissima. Dopo che Merckx aveva tentato una fuga nei primi 20 pianeggianti chilometri sull’Aurelia, Fuente mette in atto una tattica dispendiosa e chiede ai suoi compagni di tirare a tutta in testa alla corsa, una strategia che alla fine gli si ritorce contro: quando Baronchelli attacca ai piedi del Ghimbegna, lo spagnolo – rimasto a secco d’energie – rimbalza clamorosamente all’indietro arrivando ad accusare al traguardo, dove s’impone il ligure Perletto, un passivo di otto minuti e mezzo dal campione belga, che può finalmente vestire la maglia rosa. Anche questa tappa, comunque, fa capire che il belga non è più il campione visto nelle stagioni precedenti perché il suo è ancora un regno “traballante”: oggi Baronchelli lo ha anticipato di quasi due minuti sul traguardo e ora sono 35 i secondi che separano il mantovano dalla vetta della classifica.
Dopo l’interlocutoria frazione di Valenza, vinta in fuga da Gualazzini, si torna a salire con la tappa che sconfina in Svizzera, dove l’arrivo è previsto ai 1200 metri del Monte Generoso, sopra Mendrisio. Qui risorge Fuente che stavolta non commette errori e riesce a distanziare di 31” uno scatenato Gimondi e di 2’21” un demotivato Merckx, che ha disputato la tappa con il magone dopo che, pochi chilometri dopo la partenza, l’ammiraglia della sua squadra l’ha affiancato per comunicargli la notizia del ricovero in ospedale per un infarto di Jan Van Buggenhout, manager e grande amico di Eddy. Dai volti tesi di chi gli sta comunicando la notizia, dalle parole che stentano a uscire dalla bocca Merckx ha, però, intuito che la realtà è molto più tragica, che l’amico è deceduto, come gli confermerà Torriani subito dopo l’arrivo. La reazione del campione è drastica e annuncia al suo entourage di voler abbandonare il Giro per tornare in patria e partecipare ai funerali dell’amico, ma riescono a convincerlo a rimare in gara e a continuare a difendere una maglia rosa sempre più in bilico perché dopo la tappa elvetica Gimondi lo tallona in classifica a 33”, mentre Baronchelli ha perso qualcosa e ora il suo distacco è di 41”.
Ci sono un paio d’ascese da affrontare anche nella successiva tappa Como – Iseo e in particolare c’è il breve ma durissimo Colle di San Fermo da scavalcare quando mancano poco meno di 30 Km al traguardo. Chi attende anche su questa inedita salita l’attacco di Fuente non rimane deluso, a differenza di chi avrebbe auspicato un altro tentativo da parte dei rivali più vicino a Merckx, che invece non si muovono. Lo spagnolo, dal canto suo, se ne va con il compagno di squadra Santiago Lazcano e guadagna fino a quasi un minuto e mezzo, vantaggio che successivamente si riduce a soli 13” al traguardo di Iseo, dove Fuente si fa da parte e lascia la vittoria di tappa al suo luogotenente.
Si rimane ancora in montagna per la 18a frazione che, dopo la scalata al Passo del Sommo a 50 Km dal traguardo, prevede il facile arrivo in salita a Sella Valsugana, piccola località trentina dove venti anni prima era scomparso uno dei padri fondatori della Repubblica Italiana, Alcide De Gasperi. Ma la salita finale si rivela ancor più facile della dolcezza che comunque già traspare dall’altimetria e sul traguardo si presenta un gruppetto forte di 14 corridori, contenente tutti i migliori della classifica, regolati allo sprint da Bitossi, alla sua terza affermazione in questa edizione della Corsa Rosa.
Con una classifica incertissima si arriva così ai due tapponi più “saporiti”, preceduti da una corta tappa di trasferimento da Borgo Valsugana a Pordenone vinta allo sprint da Paolini. Il primo propone l’arrivo alle Tre Cime di Lavaredo, in vetta a un’aspra salita cara a Merckx, che nel 1968 vi aveva conquistato la maglia rosa in occasione del primo Giro vinto dal “cannibale”. Anche oggi ha fame di vittoria (al pari di Fuente, che oggi ottiene la quarta vittoria personale), ma a un certo punto le cose si mettono male per il belga, che patisce gli scatti di Baronchelli e a 300 metri dal traguardo perde virtualmente le insegne del primato perché esattamente in quel punto il mantovano riesce a colmare totalmente il disavanzo da Merckx. Ma in quei 300 metri Eddy mette sul piatto tutto l’orgoglio che ha nel cuore e ribalta la situazione, riguadagnando quei 12 secondi che gli permettono di tenersi la maglia rosa sulle spalle.
Per scaraventare il re giù dal suo trono “Gibì” ha ancora un tappone a disposizione, quello che si snoda tra Misurina e Bassano del Grappa passando per i passi Falzarego, Valles e Rolle e soprattutto per il temuto Monte Grappa, che presenta lunghi tratti di strada sterrata. Ma stavolta non gli riesce di ripetere l’exploit del giorno prima, forse anche per la stanchezza che comincia a imperare: e, infatti, non ci sono distacchi quest’oggi tra i primi della classifica, che vanno a giocarsi in volata la tappa in quel di Bassano, dove taglia per primo il traguardo proprio Merckx davanti a Moser, corridore che solitamente faticava parecchio sulle grandi salite.
L’ultima tappa di Milano è firmata da Marino Basso, poi c’è anche l’affermazione di Gianni Motta nell’inutile epilogo, l’antitesi del prologo (in linea e non a cronometro) che Torriani ha voluto proporre dopo l’ultimo giorno ufficiale di gara, mentre con uno sospiro di sollievo Merckx può festeggiare con i propri compagni di squadra la vittoria in rosa più sofferta per lui. Il tremendo giovincello Baronchelli gli è finito alle spalle per 12” e il non più giovane Gimondi – che viaggia verso i 32 anni – gli è giunto poco più dietro, a 33” dal belga.
E Fuente? Lo spagnolo conclude quel Giro in quinta posizione con un passivo di 3’22”. Ma se non avesse peccato d’ingordigia quel giorno a Sanremo forse, anzi molto probabilmente, ora staremo qui a raccontare dell’unica vittoria in classifica al Giro dello scalatore asturiano, finalmente riuscito a mettere nel sacco il gatto Merckx. E della sua doppietta con la Vuelta, un’impresa riuscita solo a due corridori prima del 1995 (l’anno nel quale la corsa spagnolo traslocò da aprile a settembre), al solito Merckx nel 1973 e al nostro Battaglin nel 1981. E a Fuente nel 1974….
Mauro Facoltosi
LE ALTIMETRIE
Nota: manca la seconda semitappa dell’11a tappa (Il Ciocco – Forte dei Marmi); della 6a tappa (Foggia) è presente la sola planimetria
1994, L’AVREBBE VINTO PANTANI SE…
Fu il Giro della consacrazione di Marco Pantani quello del 1994. Il “Pirata”, che solo in pochi consideravano alla partenza di quell’edizione della corsa rosa, riuscì a farsi notare grazie alla crisi che colpì capitan Chiappucci nella prima tappa di montagna e che gli diede via libera. Si fermerà a 2’51” dal primato del russo Berzin ma forse, senza i dispettucci intercorsi alcuni mesi prima tra Castellano e Conti, quel Giro avrebbe potuto vincerlo lui…
C’è una stella al via del Giro del 1994, il terzo consecutivo a presentare ai nastri di partenza il grande campione spagnolo Miguel Indurain. Quella stella è lo stesso navarro, che si era imposto con autorità nelle due precedenti edizioni, nonostante l’imprevista difficoltà patita l’anno prima nel finale della tappa con arrivo a Oropa, e per questo in molti pensano che conseguirà la tripletta in rosa senza troppi problemi. Gli italiani rivolgono le loro speranze su Gianni Bugno e Claudio Chiappucci, con il primo che sembra risorto dopo un 1993 sottotono e che in questa stagione ha vinto il Giro delle Fiandre, mentre il “Diablo” dopo esser salito tre volte sul podio finale spera ancora in una crisi in salita di Indurain. C’è molta attenzione anche sulla Gewiss, la squadra di Moreno Argentin – nel 1993 maglia rosa per dieci giorni – e di Evgenij Berzin, il russo che poche settimane prima si era imposto alla Liegi e all’Appennino e che, intervistato dalla rivista Bicisport, aveva stupito tutti dichiarando che intendeva gareggiare per la maglia rosa, almeno nei primi giorni, e che Indurain avrebbe potuto anche batterlo, come già era riuscito a fare in quella stagione con Tony Rominger nella crono del Critérium International. E Marco Pantani? Per ora non ne parla nessuno perché lo conoscono solo gli appassionati che seguono anche le gare delle categorie inferiori, nelle quali l’illustre sconosciuto di Cesenatico aveva vinto il Giro d’Italia dei dilettanti nel 1992, corsa che l’aveva visto piazzato terzo nel 1990 e secondo nel 1991. Un Giro da professionista l’ha già all’attivo ma nel 1993 la sua era stata una presenza di “apprendistato”, terminata senza note particolari di cronaca con il ritiro a tre tappe dalla conclusione. E nelle strategie in casa Carrera anche il Giro del 1994 dovrebbe svolgersi secondo questo copione per il “Pirata”, ma capitan Chiappucci al quarto giorno di corsa si scioglierà letteralmente come neve al sole nella calura di Campitello Matese, lasciandolo così libero di fare la propria corsa….
… e sappiamo come andrà a finire quel Giro che si apre il 22 maggio a Bologna con un doppio appuntamento, il mattino una semitappa in linea di 86 Km e il pomeriggio una breve crono di 7 Km spaccati. La prima maglia rosa finisce sulle spalle di Endrio Leoni, velocista veneto che sul traguardo felsineo precede Giovanni Lombardi e Adriano Baffi, poi nella prova contro il tempo c’è da registrare la vittoria a sorpresa di Armand De Las Cuevas, atipico corridore francese dallo sguardo perennemente triste (morirà suicida nel 2018) che fino all’anno prima gareggiava nella squadra di Indurain e quel pomeriggio fa registrare quella che fino al 2001 sarà la media più alta di una tappa del Giro (53.391 Km/h).
Intanto Argentin, ottavo in classifica a 17” dal francesino, mette nel mirino la maglia rosa e ha subito l’opportunità per andare a prendersela perché la seconda tappa si addice alla perfezione alle sue doti grazie alla rampa finale verso Osimo: è la stessa che si affronterà anche nella tappa del Giro 2018 vinta da Simon Yates e che in quest’occasione vede Moreno fare il vuoto e giungere all’arrivo con 6” su Andrea Ferrigato, 8” su Davide Rebellin – l’unico di quel Giro a essere in gara ancora oggi, alle soglie dei cinquant’anni – e 12” sul gruppo dei migliori. E c’è una soddisfazione nella soddisfazione per Argentin, che va a riprendersi la maglia rosa proprio nelle stesse terre dove l’anno prima l’aveva perduta, quando Indurain gliel’aveva levata dalle spalle dopo la cronometro di Senigallia, dalla quale si transita quel giorno pedalando in direzione di Osimo.
Pure la tappa del giorno successivo è una di quelle che piacciono tanto al corridore trevigiano, anche se la salita finale verso Loreto Aprutino (da non confondere con la quasi omonima cittadina marchigiana) è più agevole rispetto a quella di Osimo, che presentava anche tratti in pavè. E, infatti, qui si assiste a un finale totalmente diverso, con un attacco che si può quasi definire “telepatico” perché succede che in piena diretta Davide De Zan, che commenta il Giro per Italia 1, si rivolge alla seconda voce Beppe Saronni chiedendogli a bruciapelo “E se provasse Bugno?”. Il suo interlocutore non ha nemmeno il tempo di replicare perché in quel momento preciso con una sparata inattesa esce dal gruppo proprio il corridore monzese, che a 3 Km dall’arrivo tenta la soluzione solitaria e ce la fa resistendo per un paio di secondi alla forsennata rincorsa del gruppo e portandosi al secondo posto in classifica, a 7” da Argentin.
Con queste premesse cresce l’attesa per la prima tappa di montagna, prevista per il giorno successivo quando si parte dal livello del mare, da Montesilvano Marina, per arrivare in 204 Km ai 1440 metri di Campitello Matese. Non si preannunciano definitive sentenze e invece ne suona una clamorosa per Chiappucci al quale, dopo esser andato all’attacco lontano dal traguardo in una giornata particolarmente torrida, si svuota improvvisamente il serbatoio delle energie mandandolo incontro a un crollo verticale che lo porta ad accusare un passivo di quasi 5 minuti. E ce n’è un’altra di sentenza inattesa, quella che dimostra come le dichiarazioni della vigilia di Berzin non fossero campate per aria: il russo va all’attacco sulla salita finale, si lascia tutti i migliori alle spalle e va a riprendere il fuggitivo Oscar Pellicioli, che poi fulmina allo sprint al traguardo, dove i due giungono con 47” sul gruppo nel quale ci sono Indurain, Bugno e Pantani, che con l’uscita di scena del “Diablo” ora può cercare di far sfoggio delle proprie doti senza dover sottostare a obblighi di scuderia.
Un’altra sorpresa attende gli spettatori del ciclismo il giorno dopo quando la corsa arriva a Melfi da Campobasso, dove è atteso un arrivo allo sprint all’esterno dello stabilimento che la FIAT aveva inagurato all’inizio di quell’anno con la produzione della “Punto”. Vince Leoni, che così bissa il successo ottenuto a Bologna, Djamolidine Abdoujaparov rischia di falciare mezzo gruppo nel tentativo di disincastrare un cappellino che il forte vento gli aveva sparato nel mezzo delle leve dei freni, e – ecco la sorpresa – in mezzo alla volata ci si butta anche Indurain, che velocista non è ma riesce comunque ad agguantare un inaspettato quinto posto.
Toccato il suo estremo meridionale, il Giro del 1994 prende a risalire verso nord con la lunga e vallonata tappa da Potenza a Caserta, che sembra disegnata apposta per i cacciatori di tappe, per corridori che amano lanciarsi in lunghe fughe da lontano. È il caso di Marco Saligari, che in questa maniera si era già portato a casa due tappe della Corsa Rosa negli anni precedenti, in Valle Varaita nel 1993 e a Sondrio nel 1992. E all’ombra della reggia è proprio lui a presentarsi con le braccia levate, stavolta in maniera differente rispetto alle vittorie in solitaria alle quali ci aveva abituato perché qui sfodera doti di velocista e precede Massimo Ghirotto e l’elvetico Heinz Imboden.
Con un lungo trasferimento la carovana del Giro si sposta a Fiuggi per una breve e frizzante frazione in circuito che prevede di salire e scendere per tre volte dagli altipiani di Arcinazzo, difficoltà risibili nelle pendenze che Argentin, uscito di scena al pari di Chiappucci nella tappa di Campitello, tenta di sfruttare per rientrare nei piani alti della classifica, riuscendo a guadagnare quasi un minuto prima che la reazione del gruppo annulli il suo tentativo. Della tornata calma ne approfittano poi sei corridori, che schizzano verso il traguardo dove si impone lo scalatore spagnolo Laudelino Cubino, che al Tour del 1988 aveva conquistato il tappone pirenaico di Luz-Ardiden e che nel suo palmarès ha anche tre affermazioni alla Vuelta (e ne aggiungerà un’altra al Giro nel 1995, quando conquisterà l’arrivo in salita al Monte Sirino).
Il Giro intanto arriva a uno degli appuntamenti più attesi da Indurain, la cronometro individuale che Carmine Castellano, da due anni alla direzione del Giro, ha disegnato tra Grosseto e Follonica ricalcando fedelmente una tappa che il suo predecessore Vincenzo Torriani aveva proposto nel 1953. Entrambe le tappe forniranno il medesimo verdetto, quello di una sonora sconfitta per il corridore che si accingeva ad affrontarle da favorito: se 41 anni prima Fausto Coppi si era visto sopravanzare da due avversari, ancora peggio va a “Miguelon” in questa crono “maledetta” perché il navarro termina solo quarto, preceduto di 53” dal corridore che si piazza terzo (Bugno), di 1’18” dal secondo (il compagno di squadra De Las Cuevas, che già aveva fatto meglio di lui a Bologna) e di 2’34” dal vincitore, il sempre più sorprendente Berzin, che ora porta il suo vantaggio in classifica a 2’16” sul francese, a 2’38” su Bugno e 3’39” sul deludente Indurain.
Dopo quest’autentica tempesta ora cresce l’attesa per i tapponi alpini, sui quali si vedrà se il russo, che mai si era finora misurato in un grande giro, sarà in grado di reggere, se Bugno confermerà di aver ritrovato lo smalto di un tempo e se Indurain s’inventerà qualcosa per riprendere il controllo della corsa. E di Pantani ancora nessuno parla perché, dopo il quinto posto di Campitello e una crono affrontata senza particolari ambizioni, ora si ritrova in quattordicesima posizione in classifica con un passivo di sette minuti e mezzo. Prima di conoscere questi verdetti si deve superare una lunga serie di tappe di trasferimento che, a meno di sorprese, dovrebbero tutte concludersi con un arrivo in volata. Si comincia con la Castiglione della Pescaia – Pontedera, che viene vinta dal ceco Ján Svorada dopo che un tentativo di Chiappucci nel finale viene stoppato dalla squadra della maglia rosa e dopo una caduta innescata da Fabiano Fontanelli all’imbocco del rettilineo d’arrivo e che coinvolge altri quattro corridori, tra i quali uno dei favoriti per il successo – l’uzbeko Abdoujaparov – in un Giro che non presenta al via Mario Cipollini, gravemente infortunatosi alla prima tappa della Vuelta dopo esser stato stretto contro le transenne da Adriano Baffi, incidente che gli farà saltare anche il Tour.
Dopo un altro chilometrico trasferimento (del quale torneremo a riparlare alla fine dell’articolo) si corre sul tradizionale circuito della Rosina, con la breve ma ripida ascesa vicentina da ripetere cinque volte prima di giungere sul traguardo di Marostica. Ma anche qui sono i velocisti a spadroneggiare e stavolta il successo premia “Abdou”, che viene pilotato verso la vittoria da un gregario d’eccezione, quel Bugno che oggi ci si mette d’impegno al punto da riuscire anche a rosicchiare 6 secondi a Berzin.
Un perfetto biliardo è la successiva frazione alla volta di Bibione, la stazione balnare tanto amata dai turisti nordeuropei perché una delle più vicine al valico di frontiera del Brennero. E qui a vincere è proprio un corridore che arriva da nord delle Alpi, quel Svorada che era stato più veloce di tutti anche due giorni prima a Pontedera e che anche in quest’occasione s’impone mentre alle sue spalle si cade di brutto, con Leoni e Roberto Pagnin che finiscono per andare a saggiare la dura consistenza dell’asfalto, ci piroettano sopra più volte mentre il casco di Leoni si spezza nell’impatto e i due rischiano d’esser travolti da chi sopraggiunge.
C’è un’altra tappa che pare predestinata all’arrivo in volata, nonostante la non breve salita dall’impronunciabile nome di Črni Vrh che svetta a un centinaio di chilometro dal traguardo sloveno di Kranj, nel primo dei tre sconfinamenti previsti dal 77° Giro d’Italia. C’è anche uno strappo proprio sulla linea del traguardo che finisce per frenare “Abdou” che si piazza terzo e perde anche un paio di secondi dai primi due corridori a tagliare la linea d’arrivo, i vicentini Andrea Ferrigato e Fabio Baldato.
Nel gruppo, intanto, si vivono queste giornate d’attesa delle Alpi senza troppi patemi, anche se Bugno comincia a preoccuparsi per un piccolo ma doloroso problema di salute che lo tormenta, un callo a un alluce che è pure tormentato da un’unghia incarnita, che si fa sentire anche a causa dagli scarpini stretti. È così con piccolo sospiro di sollievo che il monzese apprende la notizia della cancellazione a causa di una frana della prima salita alpina, il Passo di Pramollo, che si doveva affrontare nelle fasi iniziali dell’austro-slovena tappa da Kranj a Lienz, frazione che si trasforma così in un’altra occasione d’oro per i cacciatori di tappe. Ne approfitta un promettente giovane, il futuro “Leoncino delle Fiandre” Michele Bartoli, che si presenta tutto solo sul traguardo della cittadina tirolese con 2’31” su Fontanelli e 2’59” su Flavio Vanzella, il corridore trevigiano che due mesi più tardi avrà l’onore di vestire per due giorni la maglia gialla al Tour. Per quanto riguarda i big anche oggi se la prendono comoda, concludendo la tappa oltre 13 minuti dopo l’arrivo di Bartoli e preceduti di circa un minuto da Pantani, scattato nel finale sulla salita del Bannberg.
Ma è ancora poco quotato il “Pirata”, per il quale i primi titoloni arrivano il giorno dopo, al termine del primo dei tre tapponi previsti dal Giro 1994, una cavalcata di 235 Km da Lienz a Merano attraverso i passi Stalle, Furcia, Erbe, Eores e Monte Giovo. È l’elvetico Pascal Richard a transitare in testa sulle ultime quattro salite, facendo incetta di punti per la classifica dei GPM, poi entra in scena Pantani che riprende il rossocrociato e si tuffa nella discesa del Monte Giovo adottando una posizione che fa rizzare i capelli in piedi, con il sedere a pochi centimetri dalla ruota posteriore e il sellino a stretto contatto con l’addome. È una posizione rischiosa ma vantaggiosa, che gli consente di guadagnare quei 40” con il quale piomba sul traguardo, il distacco con il quale il gruppo di Berzin porta a termine il tappone dolomitico regolato allo sprint da Bugno.
Neanche stavolta, però, Pantani – che ora in classifica è 6° a 5’36” dalla maglia rosa – dà l’impressione ai più di essere un uomo temibile. Anche perché nessuno pensa che un giovane di 24 anni senza grandi esperienze di Giro possa ripetersi ventiquattore più tardi, quando si dovrà affrontare un tappone ancora più duro. I 195 Km che si devono percorrere per andare all’Aprica sono infarciti di difficoltà: prima c’è lo Stelvio, poi il temutissimo Mortirolo, quindi il primo passaggio dall’Aprica e infine il breve ma ripido Valico di Santa Cristina. E invece ci sarà ancora uno show del Pirata, che fa sembrare l’exploit del giorno prima un piccolo fuoco d’artificio e rischia di far collassare l’impalcatura della classifica generale. Marco parte sulle prime rampe severe del Mortirolo, dopo che sullo Stelvio era transitato in testa Franco Vona, riprende uno alla volta i corridori che si trovavano in fuga dal mattino e ben presto rimane solo al comando. Terminata la discesa su Edolo si fa raggiungere dal gruppo di Berzin lungo la pedalabile salita verso Aprica e questa è una scelta che sulle prime appare scriteriata ma che in realtà si rivela intelligente, perché gli consente di rifiatare lasciando il grosso del lavoro in testa alla corsa agli altri avversari. Gli effetti di questa strategia si vedono nel momento nel quale attacca nuovamente sul Santa Cristina e gli altri si staccano come le foglie d’autunno. Indurain rivelerà successivamente d’aver tentato di seguire Marco ma di aver avuto una sensazione d’annebbiamento alla vista, mentre a quel punto lo spagnolo viene attaccato a fondo anche da Chiappucci, al quale non par vero di riuscire a staccare un corridore che negli ultimi anni faticava a far soffrire sulle salite. Va a finire che sul traguardo di Aprica Pantani giunge con 2’52” di vantaggio sul compagno di squadra, che a sua volta stacca di 38” il navarro e di 1’14” Berzin, che riesce comunque a salvare la leadership per 1’18”, il vantaggio che ora ha sullo scalatore di Cesenatico, mentre Indurain è 3° a 3’03”.
Tre giorni più tardi si preannuncia un’altra appassionante sfida al vertice con la cronoscalata al Passo del Bocco, prima della quale si devono affrontare due tappe di trasferimento che non dovrebbero comunque vedere protagonisti i velocisti. Nel finale della Sondrio – Stradella l’itinerario prevede di passare due volte sulla collina di Canneto Pavese, salita che inizia a Broni, il paese dove è di casa da qualche tempo Berzin. Ma oggi i protagonisti sono due corridori di secondo piano, Fontanelli e Maximilian Sciandri, con l’italo-inglese che fa il furbetto e fa credere al romagnolo di non averne più e che gli lascerà la vittoria. Promessa da marinaio.
In attesa di ritornare sulle Alpi è prevista ora un’altra escursione attraverso l’Appennino con la tappa che da Santa Maria della Versa, terra di produzione degli spumanti che all’epoca si utilizzavano nelle premiazioni delle corse Gazzetta, punta su Lavagna passando per i quasi 1500 metri del Passo del Tomarlo. È il giorno della tripletta di Svorada davanti a Lombardi e Abdoujaparov, tre velocisti, ma questo non è un arrivo in volata classico perché i tre sono bravi a infilarsi nella fuga di giornata, che anticipa di quasi un minuto il gruppo.
Ora il mondo del ciclismo guarda con curiosità all’atipica cronoscalata da Chiavari al Passo del Bocco, insolita perché l’arrivo non è in salita e perché dei 35 Km in programma solo 13 Km sono in salita. C’è un lungo tratto pianeggiante iniziale che Pantani teme e che lo spinge a “spingere” e a forzare le proprie doti, finendo poi per trovarsi con le gambe di legno dove più gli servirà: dei tre corridori più attesi alla fine risulta il peggiore, preceduto di 1’17” da Indurain e da 1’37” da un Berzin che si rivela sempre più inaffondabile.
C’è spazio per un’ultima tappa di trasferimento che dalla riviera ligure conduce a Bra affrontando una miriade di piccole collinette, altra opportunità per mettersi in mostra con una fuga da lontano. In quest’ultima, però, s’infila un corridore inatteso, proprio quel Berzin che da due settimane troneggia in cima alla classifica e che nessuno aveva riconosciuto nell’immediatezza perché, a causa del diluvio che stava venendo giù in quel mentre, si era infilata una mantellina che aveva totalmente nascosto alla vista la sua livrea rosa. Individuato l’intruso, il russo viene invitato dagli altri componenti della fuga a tornarsene in gruppo, perché la sua presenza avrebbe pregiudicato il buon esito del tentativo: la maglia rosa si scusa e se ne va e così il gruppetto riesce a giungere fino a Bra, dove a imporsi è Massimo Ghirotto, proprio colui che aveva chiesto al russo di levarsi di torno.
È giunta l’ora di riprendere l’ascensore con l’ultimo tappone, che da Cuneo porta all’inedito traguardo di Les Deux Alpes, località di sport invernali dirimpettaia dell’Alpe d’Huez che il Giro scopre prima del Tour, che vi porrà per la prima volta un traguardo di tappa nel 1998 (e anche quella sarà una frazione nell’insegna di Pantani, la più bella e indimenticabile di tutte). Si deve salire fino ai 2748 metri del Colle dell’Agnello, il secondo valico per altitudine d’Italia dopo lo Stelvio, inserito per la prima volta in una corsa professionistica dopo che nel 1976, quando era ancora sterrato, era stato affrontato durante la tappa di Les Orres del Tour de l’Avenir, riservato ai dilettanti. Poi ci sono il mitico Izoard, il mite Lautaret e il futuro mito Les Deux Alpes a proporre un banchetto di pendenze al quale Pantani non si sottrae: già sull’Agnello va all’attacco e guadagna 1’15” su Berzin e Indurain, poi sull’Izoard il vantaggio sale a 1’50”. Contro l’azione del Pirata remano però i tanti chilometri in fuga, la stanchezza e la mancata collaborazione del suo compagno d’avventura, il colombiano Hernán Buenahora: a Briançon l’avanscoperta del Pirata è già terminata, dopo non c’è più terreno per far male e il finale riserva applausi solo per il gruppetto di cinque corridori che riescono a isolarsi in testa alla corsa, tra i quali trova gloria l’ucraino Volodymyr Pulnikov.
C’è ancora un’ultima opportunità per Pantani, rappresentata dalla breve ma concentrata tappa che riporta il Giro in Italia ritornando sul Lautaret e proponendo quindi il Monginevro e la doppia scalata finale al Sestriere. Ma il maltempo “congela” letteralmente il gruppo, fa freddo sul Lautaret e sul Monginevro, diluvia a Cesana Torinese, nevica sulla cima del Sestriere e i big preferiscono evitare di prendere rischi inutili giungendo tutti assieme al traguardo. Ne approfitta il leader della classifica dei GPM Richard che, indisturbato, si piglia tutti i colli di giornata e giunge in solitaria ai 2035 metri dell’ultimo passo del Giro 1994 con un minuto netto su Gérard Rué, francese che corre nella Banesto di Indurain.
Il giorno dopo l’ultima tappa da Torino a Milano, vinta dal varesino Stefano Zanini, mette i sigilli al primo Giro vinto da un russo. Un giro che, però, Pantani avrebbe potuto vincere se non gli si fossero messi di mezzi due “dispettucci” intercorsi sei mesi prima tra il direttore del Giro Castellano e il giornalista di Tuttosport Beppe Conti.
Succede tutto a novembre del 1993, quando è prevista la presentazione della Corsa Rosa. Il giornalista torinese, oggi opinionista RAI, viene a sapere in anteprima il tracciato del Giro e lo pubblica su Tuttosport qualche giorno prima del 13 novembre, la data della presentazione ufficiale in diretta televisiva. Castellano s’infuria e decide di rifilare un bello scherzetto a Conti “stracciando” tutta la parte finale del percorso e ricomponendola come un puzzle, forse andando a inserire sedi di tappa che inizialmente erano state opzionate come riserve e disegnando sul planimetria, come una sorta di lunga cicatrice nera, l’inspiegabile trasferimento senza riposo verso Pontedera. Da Bologna a Pontedera poco cambia poi ecco lo stravolgimento di un percorso che non doveva andare verso il Veneto ma nella direzione opposta, toccando la Liguria (ma senza proporre la cronoscalata al Bocco) e il Piemonte. Les Deux Alpes e Sestriere facevano già parte del progetto originario ma si dovevano affrontare come prime frazioni alpine di un Giro che si sarebbe deciso sulle Dolomiti, con la cronoscalata al Bondone (mai più recuperata) e il tappone dell’Aprica sul tracciato che conosciamo ma affrontato come penultima tappa. E allora sì che Pantani, forse, quel Giro avrebbe potuto vincerlo…. E forse anche la sua carriera e la sua vita avrebbero preso una piega differente.
Mauro Facoltosi
LE ALTIMETRIE
Nota: l’altimetria della 13a tappa (Lienz) è quella originaria (a causa di una frana non si transitò sul Passo di Pramollo); l’altimetria della 17a tappa (Lavagna) è quella modificata pochi giorni prima della partenza del Giro da Bologna (in fondo trovate il percorso originario)

Altimetria originaria 17a tappa


1953, ALLA SCOPERTA DELL’EVEREST
Debutta lo Stelvio alla Corsa Rosa. Ed è un debutto con il botto perché proprio lassù Coppi conquista il suo quinto e ultimo Giro d’Italia, una vittoria che sembrava impossibile per come si erano messe le cose in classifica per il Campionissimo. Ma i 48 tornanti del versante altoatesino stritolano come le spire di un boa l’elvetico Koblet, che veste le insegne rosa alla partenza di quella storica frazione e al quale stavolta non riesce il colpaccio di tre anni prima, quando era stato il primo straniero ad aggiudicarsi il Giro.
44 anni e 35 edizioni della Corsa Rosa, tanto c’è voluto per vedere i 2758 metri dello Stelvio svettare come un enorme e succulento porcino sull’altimetria generale del Giro d’Italia. È il 9 aprile del 1953 quando viene annunciato che, per la prima volta nella storia, il Giro che prenderà al via poco più di un mese più tardi proporrà l’ascesa al più elevato valico stradale d’Italia. In precedenza ci si era spinti fino ai 2473 metri del Gran San Bernardo l’anno precedente e ai 2360 metri dell’Izoard in occasione della Cuneo-Pinerolo del 1949, ma non si era mai raggiunta una quota così elevata, comunque già “assaggiata” al Tour che in tre occasioni si era arrampicato sull’Iseran, valico che l’altitudine dello Stelvio la supera, anche se di soli 6 metri.
Svelato il percorso, che hai nei suoi punti di forza anche il tappone dolomitico di Bolzano e le due frazioni a cronometro di Follonica e Modena, nelle settimane successive si completa anche il campo dei partenti, che ha il suo nome più illustre in Fausto Coppi, al via del suo nono Giro d’Italia da vincitore uscente della Corsa Rosa e da detentore della doppietta con il Tour, conseguita per la seconda volta in carriera. C’è anche il 32enne Fiorenzo Magni ed è al via Gino Bartali, ma non si può considere un avversario temibile un corridore che di anni ne ha 38, anche se dodici mesi prima ha terminato al quarto posto la Grande Boucle e al quinto il Giro. Il vero antagonista del Campionissimo sarà lo svizzero Hugo Koblet che, dopo esser stato il primo straniero a vincere il Giro nel 1950, ora ha intenzione di fare il bis alla Corsa Rosa, alla quale si presenta pochi giorni dopo aver messo in cascina il Tour de Romandie.
È il 12 maggio quando viene abbassata la prima bandierina del via, con i “girini” pronti a percorrere i 263 Km che distanziano Milano da Abano Terme, dove sotto lo striscione d’arrivo si presenta a braccia levate l’olandese Wim van Est, giunto al traguardo dopo quasi 40 Km di fuga solitaria. Bisogna attendere poco più di un minuto e mezzo per assistere all’arrivo del secondo classificato, Guido De Santi, e quasi tre minuti per assistere alla volata del gruppo dei big.
La prima salita di una certa consistenza, pur non essendo difficile, è quella di San Marino che l’indomani viene affrontata nel finale della tappa di Rimini, movimentata dalla foratura in discesa di Coppi, avvenuta pochi chilometri prima della dogana che riporta la corsa in Italia. Dopo un breve inseguimento il Campionissimo riesce a rientrare in gruppo e al traguardo è battuto allo sprint da Koblet, che non è comunque il vincitore della frazione perché esattamente 10 secondi prima aveva tagliato vittorioso la linea d’arrivo Pasquale Fornara, evaso dal gruppo in salita. Vincitore il giorno prima, il capoclassifica Van Est giunge in ritardo di 4 minuti ed è costretto a lasciare le insegne del primato a De Santi, che le veste con circa un minuto su Fornara e poco più sui big.
Costantemente lungo l’Adriatico si snoda la successiva frazione diretta a San Benedetto del Tronto, la località balneare marchigiana che dal decennio successivo diventerà il tradizionale approdo conclusivo della Tirreno-Adriatico, la corsa a tappe di preparazione alla Sanremo che sarà ideata da Franco Mealli nel 1966. È una tappa nella quale, in attesa della prima giornata di montagna, i “grandi” decidono di lasciare campo libero alle seconde schiere e così va in porto il tentativo di sei corridori che lasciano la compagnia del gruppo a una cinquantina di chilometri dal traguardo, dove il varesino Albino Crespi ha la meglio sul pistard olandese Wout Wagtmans e sul torinese Angelo Conterno.
La prima tappa disegnata sulle montagne termina all’insegna del Campionissimo, con Fausto che sul traguardo di Roccaraso, al quale si giunge dopo aver affrontato la storica salita del Piano delle Cinquemiglia, s’impone allo sprint su di un gruppo di una trentina di corridori nei quali c’è tutta la “crème” del Giro 1953. In questo plotoncino c’è anche Koblet, che corre un bel rischio a circa 60 Km dal traguardo quando una ragazza, attraversando imprudentemente la strada, provoca una caduta in mezzo al gruppo e l’elvetico è tra i corridori finiti a terra: ferito, penalizzato da un pedale incurvatosi nel capitombolo e dal fatto che la sua ammiraglia è rimasta intruppata in fondo alla carovana dopo il rifornimento, il vincitore del Giro 1950 arriva ad accusare fino a 4 minuti di ritardo ma poi, con l’aiuto dei gregari, riesce a rientrare in gruppo a Sulmona, subito prima dell’inizio dell’ascesa finale. Va peggio a De Santi, pure lui coinvolto nella caduta, che non ce la fa a recuperare e deve salutare la maglia rosa, finita sulle spalle di Fornara.
I gregari sono protagonisti anche nella successiva tappa di Napoli, che termina come quella di due giorni prima a San Benedetto (allo sprint s’impone Ettore Milano, luogotenente di Coppi alla Bianchi) e che vede ancora Koblet rivestire il ruolo di protagonista sfortunato, stavolta ruzzolato a terra nel corso della discesa iniziale da Roccaraso a causa della rottura di un freno e trovatosi a inseguire per una buona mezz’ora dopo aver accumulato un passivo di un minuto circa.
Il “menù” del Giro propone ora la portata di più calorica sotto l’aspetto della distanza con i 285 Km che si devono digerire tra il capoluogo campano e Roma, dove De Santi “vendica” la sfortuna che due giorni prima gli era costata le insegne del primato. In un’altra giornata che vede i big del Giro in condotta di gara tranquilla il corridore triestino s’infila nella fuga che caratterizzata la tappa e recupera quei 2’17” che gli consentono di tornare in rosa con 1’51” su Fornara, mentre il romagnolo “Pipaza” Minardi s’impone sulla linea del traguardo, disegnata all’interno dello Stadio dei Centomila, il futuro Stadio Olimpico la cui cerimionia d’inaugurazione si svolge proprio quel pomeriggio.
Continuano a fioccare nel frattempo le occasioni d’oro per i gregari e dopo Ettore Milano tocca allo scudiero di Bartali Giovanni Corrieri, al quale le cose vanno decisamente meglio perché non solo imbrocca la vittoria in quel di Grosseto ma si prende anche la maglia rosa grazie al vantaggio di sette minuti con il quale giunge al traguardo insieme agli altri compagni di fuga. Lo stesso giorno, il pomeriggio, è in programma una cronometro di quasi 50 Km disegnata sulle pianeggianti strade della Maremma, verso Follonica. È la prima vera sfida tra Koblet e Coppi, che scende dalla rampa di lancio di Grosseto vestendo i panni del favorito per il successo, anche se l’anno precedente nella lunga Erba-Como (65 Km) era riuscito a sopravanzare l’elvetico di appena 15”. All’altro capo di questa tappa, però, Coppi si ritrova addosso le scomode vesti del grande sconfitto, preceduto da ben due corridori che hanno fatto meglio di lui, dal sorprendente Fornara per 35 secondi e da Koblet per 1’21”, con il rossocrociato che s’impone a 40.407 Km/h e si porta in testa alla classifica con 26” sull’ex leader De Santi, 36” su Fornara e 1’21” sul Campionissimo.
La risalita dello stivale continua con la facile tappa di Pisa che non riserva particolari emozioni fino a una ventina di chilometri dal traguardo, quando una caduta in mezzo al gruppo ne rallenta la marcia e favorisce il tentativo di un piccolo drappello che si era involato poco prima del capitombolo e che riesce ad arrivare sino alla città della celebre torre pendente, dove s’impone il belga Rik Van Steenbergen. Per i favoriti, caduta a parte, è un’altra tappa d’ordinaria amministrazione, secondo un andazzo visto in parecchie frazioni – finora quasi in tutte, escluse quelle di San Marino e la crono del giorno prima – e che fa arrabbiare i giornalisti e quegli appassionati che ancora ricordano i giri di qualche decennio prima, quando i big si davano battaglia in tutte le frazioni: sono i primi sintomi della modernizzazione del ciclismo, che porterà anche a una netta separazione tra le tappe da classifica e quelle interlocutorie destinate ai velocisti, nelle quali chi punta alla vittoria finale preferisce starsene comodo nella pancia del gruppo.
Dopo un giorno di riposo si riparte con una frazione che fa venire l’acquolina ai “coppiani” perché la Pisa-Modena si snoda sulle stesse strade che 13 anni prima furono teatro del primo exploit del Campionissimo. C’è una grossa differenza rispetto al Giro del 1940, però, perché all’epoca il corridore di Castellania non lo conosceva quasi nessuno e, di conseguenza, non lo si temeva, mentre adesso sarebbe stato uno dei corridori più controllati e a sorvegliarlo aveva un avversario tenace come Koblet. Superate le due salite in programma i due rivali sono ancora assieme quando mancano una ventina di chilometri al traguardo (dove s’imporrà Magni), nonostante un precedente momento di crisi della maglia rosa, che si era staccata sull’Abetone. Fausto, però, non approfitta della défaillance dell’avversario, che si riporta su di lui con una discesa a rotta di collo e con lui termina la tappa.
Probabilmente il Campionissimo ha preferito far stancare Hugo senza colpirlo direttamente alla vigilia dell’altra cronometro che Torriani ha inserito nel percorso. Il giorno successivo, infatti, si rimane a Modena per una cronosquadre di 30 Km nella quale il Campionissimo trascina la sua Bianchi alla vittoria fermando i cronometri sul tempo di 37’45” e facendo registrare una velocità media di poco meno di 48 Km/h. Compiuti i previsti 13 giri della pista dell’aerautodromo di Modena, che costituisce l’unico terreno di gara (demolito negli anni ‘80, si trovava nel luogo dove oggi c’è il Parco Enzo Ferrari), per un solo secondo la vittoria sfugge alla Ganna, la formazione nella quale gareggia Magni, mentre Koblet e suoi uomini pagano 26 secondi, permettendo così a Coppi di ridurre le distanze dalla maglia rosa, il cui vantaggio scende a 55”.
Riprendono le tappe in linea e riprende l’oramai tradizionale “clichè” visto nei giorni precedenti con i migliori tutto in gruppo. Viaggiando verso Genova hanno così ancora via libera i tentativi di fuga e tra gli ardimentosi che si lanciano in avanscoperta c’è Minardi, che dopo la tappa di Roma punta al bis sullo stesso traguardo che l’aveva visto vincitore al Giro del 1952. Ma nella discesa della Ruta, mentre è in testa alla corsa assieme allo spagnolo Andrés Trobat dopo aver staccato gli altri compagni di fuga, è vittima di una rovinosa caduta che lo costringe al ritiro e priva dell’iberico di una “spalla” nel proseguimento del tentativo. Ripresa la testa della corsa da parte del drappello inseguitore, la situazione davanti muta più volte fino allo sprint di un gruppo di nove elementi che vede imporsi il monzese Giorgio Albani sul francese d’origini italiane Raphaël Géminiani, mentre i favoriti giungono nel capoluogo ligure quasi 2 minuti dopo l’arrivo dei primi.
La tappa successiva non vede nemmeno la fuga andare in porto perché sul traguardo di Bordighera, dove si giunge dopo esser saliti sul Turchino dal versante opposto rispetto alla Sanremo e aver quindi ritrovato l’Aurelia a Savona, si assiste a un volatone a gruppo compatto. Vince Oreste Conte e il quotidiano torinese “La Stampa” manifesta tutto il suo sdegno per lo svolgimento della corsa proponendo il giorno dopo un titolo a effetto oggi impensabile (“Scandalo nel Giro: tutti i corridori insieme”) mentre l’articolo firmato da Gigi Boccacini inizia parlando di sciopero in seno al gruppo, di volontà dei corridori di abolire la fatica.
L’amarezza dei giornalisti piemontesi è forse spinta anche dal fatto che il giorno dopo la Corsa Rosa ha in programma un arrivo proprio a Torino, ma nemmeno in quest’occasione la musica cambia. C’è un altro giornalista a firmare il pezzo, ma anche Vittorio Varale non si dissocia dal sentimento che alberga nel cuore di molti colleghi e all’inizio del pezzo scrive “che per quanto rimproverati e ridicolizzati, gli alti papaveri del Giro insistano nella loro condotta negativa, è fatto che ormai esula dal giudizio di noi cronisti — troppe volte essendo stato denunciato su queste colonne per essere nuovamente ricordato. Pigliamo dunque il Giro come lo vogliono gli attori che vi sono di scena e i registi che ne predispongono l’ambiente — e passiamo a raccontare le vivaci e alterile vicende della corsa, che nella sua fase finale è passata fra due ali fittissime di spettatori, da Moncalieri fino al Motovelodromo di corso Casale…” per poi passare alla narrazione della cronaca di una giornata terminata con il successo del comasco Pietro Giudici, che precede allo sprint l’elvetico Schär e di una manciata di secondi gli altri elementi del gruppo andato oggi in fuga e giunto a Torino con 5’36” di vantaggio sugli “alti papaveri”.
Le parole dei cronisti non stimolano i corridori che, anzi, anche il giorno successivo sono ancora protagonisti di una corsa anonima, terminata sul traguardo di San Pellegrino Terme con lo sprint vincente di Magni sul gruppo maglia rosa per il terzo posto, dopo che un paio di minuti prima aveva tagliato il traguardo Nino Assirelli, partito subito dopo il via e arrivato a sfiorare il quarto d’ora di vantaggio lungo la strada. È un nome, quello del corridore romagnolo, che gli appassionati probabilmente scorderanno fino al maggio dell’anno successivo, quando sarà protagonista con lo svizzero Carlo Clerici della famosa fuga bidone verso l’Aquila nella sesta tappa, frazione che condizionerà l’intero svolgimento della corsa, vinta a Milano da Clerici con 24 minuti di vantaggio su Koblet e poco più di 26 minuti sullo stesso Assirelli.
Dopo l’ultimo giorno di riposo sono in programma le salite del Tonale e di Campo Carlo Magno, ma la notevole distanza che le separa dal traguardo di Riva del Garda fa temere per un’altra giornata priva di particolari sussulti. Invece le emozioni non mancano perché Coppi fora due volte scendendo da Madonna di Campiglio verso Pinzolo e in una terza occasione è costretto a una sosta fuori programma per risistemare la ruota. Per sfortuna di chi segue il Giro e che vorrebbe attacchi tutti i giorni nessuno prova a far dilatare il distacco del Campionissimo, che arriva ad accusare al massimo una cinquantina di secondi di ritardo e agevolmente si riaccoda al gruppo quando mancano 57 Km da Riva del Garda, dove si assiste allo sprint di una trentina di corridori, regolato da Magni su Albani e Bartali.
Poi quel che si aspettava da tempo succede e succede in una delle tappe nelle quali si pensava che nulla potessse accadere. La Riva del Garda – Vicenza è una tappa senza frazione pretese, 166 km prevalentemente pianeggianti, a parte tre brevi ascese, il Col San Giovanni nelle fasi di partenza, Pergine Valsugana a cavallo del 50° Km di gara e il ripido strappo finale verso il Santuario di Monte Berico. E l’attacco non arriva in nessuno di questi tre punti, bensì poco prima del Km 110 quando, nel bel mezzo della pianura, in zona rifornimento ci provano alcuni corridori tra i quali spiccano i volti di Coppi e Koblet. Ci vogliono circa 7 Km per andare a riprenderli ma poi la tensione rimane alta per parecchio tempo ancora e nuovamente i due assi si fanno vedere in testa al gruppo in diverse occasioni per andare a riacciuffare altri corridori che tentano la sortita; solo a 12 Km i big decidono improvvisamente di rallentare, lasciando evadere il gruppetto che andrà a giocarsi la vittoria sul Monte Berico, in cima al quale transita per primo il romano Bruno Monti.
Alla vigilia dei tapponi si disputa un’ultima tappa di transizione, 186 Km poco impegnativi perché per andare da Vicenza ad Auronzo di Cadore si prende quota gradatamente. C’è solo un tratto di vera salita, neanche troppo difficile, per raggiungere Pieve di Cadore ed è proprio al termine di questo strappo che ci prova Koblet. Sotto la pioggia il corridore elvetico riesce ad agguantare il piccolo gruppetto di fuggitivi che si trova in testa alla corsa e li trascina fin sul traguardo, dove Monti bissa il successo ottenuto il giorno prima. Coppi, invece, mastica amaro perché, dopo non esser riuscito a seguire la maglia rosa, si ritrova ad aver perduto un minuto, mentre due solo quelli che ora lo separano dalla testa della classifica.
Recuperare lo svantaggio con un Koblet in queste condizioni non sembra un gioco facile, anche se ora è in programma un tappone dolomitico non molto dissimile da quelli che il Campionissimo ha dominato nelle precedenti edizioni. Il tracciato della Auronzo – Bolzano è, a partire dal passaggio da Cortina, un clone del percorso della Venezia – Bolzano nella quale l’anno precedente Fausto aveva trionfato con più di 5 minuti su Bartali e Magni, mentre Koblet era giunto al traguardo con quasi 9 minuti di ritardo. Ma, al confronto, il Koblet del 1952 sembra differente da quello che ora si sta apprestando a vincere il suo secondo Giro e, infatti, stavolta l’infilata Falzarego-Pordoi-Sella non basta al Campionissimo per ribaltare una situazione che, anzi, non viene nemmeno scalfita. Se per tutti gli altri i distacchi sono pesanti – 3° al traguardo Fornara a 3’56”, quarti Donato Zampini e Bartali a 7’23” – non è così per i due sfidanti che giungono insieme a Bolzano, dove Coppi vince allo sprint dopo che Koblet era riuscito a distanziarlo di 1’15” in vetta al Pordoi e dopo che l’elvetico si era trovato a sua volta a inseguire il Camponissimo, scollinato sul Sella con 1’25” di vantaggio. Nelle dichiarazioni alla stampa della sera un demoralizzato Coppi lascia intendere che, oramai, non ha più la possibilità di staccare il rivale, ma di diverso avviso sono i suoi compagni di squadra, che si radunano nella camera del Campionissimo e cercano di convincerlo del contrario. Gli raccontano che lo Stelvio è più duro di tutte le salite del Giro e del Tour messe assieme e che se c’è una persona in grado di contrastare lo strapotere di Koblet, quella persona è proprio lui. Quel che non possono sapere è che, mentre il piccolo conciliabolo riesce a convincere Fausto e si cominciano a tessere le strategie per la tappa del giorno successivo, nello stesso tempo Koblet inizia ad avvertire i sintomi di una bronchite che deve essersi buscato sui passi dolomitici e che il giorno dopo lo farà soffrire terribilmente…
… e il giorno dopo è il giorno della prima scalata allo Stelvio, che Torriani ha inserito nel finale di una delle tappe più brevi di questo Giro, lunga soli 125 Km. Si parte da Bolzano e per i primi 75 km le uniche difficoltà di gara sono rappresentate dai lievi tratti in falsopiano che si susseguono lungo la Val Venosta. È l’interminabile introduzione ai 24 Km al 7.6% che conducono fino a quota 2758 percorrendo la strada progettata dall’ingegnere bresciano Carlo Donegani, i cui lavori erano terminati quasi 130 prima. È lassù che si potrebbero concretizzare la quinta vittoria di Coppi al Giro oppure un dignitoso passaggio di consegne tra i due campioni, distanti anagraficamente sei anni l’uno dall’altro. Fino ai piedi del passo la tappa scorre via senza troppi clamori, come molte altre frazioni di questa edizione della corsa rosa, poi prendono il comando a turno i compagni di Coppi, che lasciano strada libera al Campionissimo quando mancano 9 Km al culmine. Superata quota 2000 Fausto attacca e quasi immediatamente la maglia rosa cede. Il piemontese aggredisce con grinta gli spettacolari tornanti plasmati dal Donegani, gli stessi che invece fanno soffrire un Koblet delibitato dalla bronchite, da una persistente febbricola e dal catarro che gli impedisce di respirare. Dopo 3 Km dall’attacco Coppi ha già distanziato il rivale di 1’40”, distacco che lievita a 4’25” sotto lo striscione del GPM, conquistato dal Campionissimo alle 17.34 del primo giugno 1953, lo stesso giorno nel quale gli inglesi annunciano che il precedente 19 maggio erano stati due loro alpinisti i primi uomini ad aver messo piede sulla vetta dell’Everest. Koblet non si dà per vinto e nella spaventosa discesa verso Bormio viene giù come un pazzo, rischiando anche la propria incolumità: cade due volte, recupera quasi un minuto ma quei 3’38” che intercorrono tra gli arrivi dei due corridori suonano come una pietra tombale sulle possibilità di Koblet di vincere quel Giro.
L’ultima tappa verso Milano non presenta insidie – e, infatti, la vincerà Magni in volata sul gruppo compatto – e all’intervistatore che gli chiede se avesse qualche strategia per la frazione conclusiva l’elvetico risponde che, se gli passerà la bronchite nella notte, correrà solo per difendere il secondo posto. Posizione che alla sera del 2 giugno sarà ufficialmente sua, primo degli “umani” dopo l’extraterrestre Coppi, che quell’anno conquistò il suo Everest e vinse il suo ultimo Giro con 1’29” sul rivale.
Mauro Facoltosi
LE ALTIMETRIE
Nota: mancano la 6a tappa (Roma) e l’11a (cronometro a squadre di Modena), mentre della 13a (Bordighera) è presente la sola altimetria. Di altre tappe è unicamente presente la tabella di marcia

1937, LA PAZZIA DEL SIGNOR COUGNET
Le Dolomiti furono scoperte due volte. La prima volta nel 1837 quando il naturalista francese Déodat de Dolomieu studiò e scopri la particolare struttura delle rocce dei Monti Pallidi, che da lui presero il nome. La seconda volta accadde esattamente cent’anni più tardi, quando Armando Cougnet ebbe la geniale idea di far disputare per la prima volta una tappa della corsa rosa tra quegli imponenti picchi.
Quel giorno Armando Cougnet si sentì un po’ come Henri Desgrange, il direttore del Tour de France che nel 1910 si prese dell’assassino da Octave Lapize per aver avuto l’ardire d’inserire nel percorso della corsa francese le tremende e all’epoca totalmente sterrate salite pirenaiche. Accadde dopo che Cougnet lasciò cadere il velo che copriva il tracciato del Giro del 1937 e nel quale il papà del Giro, da lui rocambolescamente creato dal nulla nella calda estate del 1908, aveva inserito una tappa tracciata tra Vittorio Veneto e Merano, attraverso le Dolomiti, finora mai visitate dal Giro. Era il regalo che lui voleva fare alla sua “creatura” in occasione della 25a edizione ma si senti dare del pazzo dai presenti. E non avevano tutti i torti perché le strade che all’epoca raggiungevano quei colli non erano nemmeno lontanamente paragonabili alle moderne rotabili del giorno d’oggi. Ancora lontani i tempi del turismo di massa, frequentate al massimo dagli alpinisti diretti alle ardite vette della zona, erano strade figlie di vecchie mulattiere d’origine prevalentemente militare, strette e caratterizzate da fondi disagevoli, inghiate e piene di buche, esposte su precipizi e spesso prive di protezioni a valle. C’era il concreto rischio che a portare il Giro lassù si sarebbero fatti correre ai corridori e agli uomini della carovana parecchi pericoli.
Ma Cougnet non piega il capo davanti a quelle obiezioni e non cambia di una virgola il tracciato di quell’edizione, che si apre l’8 maggio a Milano con Gino Bartali grande favorito dopo la vittoria conseguita l’anno precedente, anche se su di lui pesa una grossa incognita per la stramba decisione di presentarsi al via senza nessun giorno di gara nelle gambe. Il primo atto della corsa è una frazione di 165 Km che da Milano conduce a Torino, dove sono previste alcune dolci ondulazioni nel finale; ed è proprio sulle strade del Monferrato che scaturisce l’azione che decide il destinario della prima maglia rosa, quando il modenese Nello Trogi, che vive a Tolone e corre nella squadra degli italiani residenti all’estero, prende il volo a una quarantina di chilometri dal traguardo e porta a termine la tappa con 1’40” sul gruppo, regolato allo sprint da Giuseppe Olmo.
Il Giro si ferma in Piemonte per una tappa disegnata sulle Langhe che dal capoluogo conduce in poco meno di 150 Km ad Acqui, la località termale dell’alessandrino che vede lo sprint vincente del toscano Quirico Bernacchi, che conquista anche la maglia rosa mentre il gruppo giunge leggermente sgranato al traguardo di una tappa caratterizzata anche da polverosi tratti sterrati. Intanto Bartali pian piano affina la sua condizione in attesa delle tappe a lui più congeniali.
Altimetricamente simile è la successiva tappa diretta a Genova, alla quale si giunge dopo esseri saliti sulla Scoffera e sul Colle Caprile. Anche questa è una frazione che lo scalatore toscano affronta in vigile ombra, mentre davanti cambia ancora il padrone del vapore, con il passaggio di consegne tra Bernacchi e il piemonte Giovanni Valetti, vincitore nel capoluogo ligure, mentre è costretto al ritiro per le conseguenze di una caduta avvenuta il giorno prima Francesco Camusso, il corridore che aveva vinto il Giro del 1931, il primo nel quale era prevista l’assegnazione della maglia rosa.
La corsa giunge ora in Toscana dove nella terra di Bartali sono in programma ben quattro frazioni, la prima delle quali termina a Viareggio con la vittoria di Olimpio Bizzi, ottenuta in volata su un gruppetto di otto corridori selazionati dalle asperità di giornata, tra i quali ci sono la maglia rosa Valetti e il corridore toscano.
“Ginettaccio” nel frattempo ha terminato la marcia d’avvicinamento alla forma migliore ed è ora pronto a sfidare apertamente i rivali in una frazione inedita, proposta per la prima volta in una corsa a tappe: si tratta di una cronometro a squadre di 60 Km disegnata sul litorale versiliano verso Marina di Massa, una tipologia di gare che sarà introdotta per la prima volta nel programma del Tour de France solamente 17 anni più tardi. La prova collettiva vede il trionfo della Legnano, la formazione sponsorizzata dall’azienda di biciclette che ha sede nell’omonima città lombarda e che nelle sue file ha proprio Bartali, che oltre alla vittoria di gruppo a una media di poco inferiore ai 44 Km/h consegue anche la maglia rosa. La permanenza del corridore di Ponte a Ema al vertice della classifica è, però, di brevissima durata perché il pomeriggio dello stesso giorno si disputa una semitappa verso Livorno caratterizzata dalla breve ma ripida salita di Montenero nel finale: mentre Bizzi concede il bis c’è, infatti, da segnalare il ritorno in rosa di Valetti per 43” sullo scalatore toscano.
Dopo il primo dei quattro giorni di riposo previsti la Corsa Rosa si rimette in marcia con un’ultima frazione disegnata in terra toscana che vede i “girini” pedalare in direzione di Arezzo e che non propone stravolgimenti nei piani alti della classifica, mentre il successo se lo gioca un gruppetto di tre fuggitivi dal quale emerge Olmo su Enrico Mara, corridore varesino che gareggia da indivuale ed è fratello minore di quel Michele Mara che nel 1930 aveva vinto la Milano-Sanremo e il Giro di Lombardia.
Alla vigilia di una delle frazioni più temute della corsa si disputa una tappa di trasferimento verso Rieti, giornata che termina con uno sprint i cui esiti vengono ribaltati dal collegio di giuria dopo un’accurata indagine. Il bolognese Marco Cimatti, che dopo aver smesso di correre aprirà prima una fabbrica di biciclette e successivamente un’azienda di motociclette, protesta dopo aver notato che Aldo Bini, il corridore che lo aveva preceduto di un’inezia sul traguardo vincendo la tappa, si era appoggiato a una spalla del compagno di squadra che lo stava pilotando verso la vittoria, un’irregolarità che viene confermata dalla giuria, che giustamente assegna la vittoria al bolognese.
Si arriva alla difficile cronoscalata del Terminillo, tappa che Bartali attende con doppia voglia di riscatto perché non solo mira a riprendersi la maglia rosa ma intende anche migliorare la prestazione dell’anno precedente sul medesimo percorso, quando si era piazzato terzo preceduto di 16 secondi da Aladino Mealli e di 35 secondi da Olmo, facendo registrare lo stesso tempo del corridore che in questo momento detiene le insegne del primato, Valetti. Stavolta il “colpaccio” gli esce percorrendo i 20 Km verso Campoforogna in 52 minuti e 35 secondi, a una velocità media di 21.668 Km/h, mentre Mealli si piazza anche nel 1937 in seconda posizione con 41” di ritardo e Valetti termina la tappa terzo con un passivo di 1’03”, scendendo al secondo posto della classifica con un distacco di 20” dal toscano. La fatica giornaliera non termina qui perché nel pomeriggio ci si rimette in sella per raggiungere Roma in 152 Km, semitappa che – nonostante l’impegnativa salita verso Rocca di Papa, che cinque anni prima aveva ospitato i primi mondiali di ciclismo organizzati dall’Italia, conquistati da Alfredo Binda – termina con un volatone di 32 corridori regolati da Raffaele Di Paco, il Cipollini degli anni ’30 che vincerà ben 16 frazioni alla Corsa Rosa e collezionerà anche 11 affermazioni al Tour.
Dopo questo doppio impegno si corre una delle frazioni più lunghe, che termina con il successo di uno dei corridori più vecchi del gruppo, nonché uno dei più celebrati. È, infatti, il 34enne Learco Guerra a imporsi al termine dei 250 Km della Roma-Napoli, conseguendo quella che sarà l’ultima sua vittoria sulle strade del Giro, corsa che in carriera aveva vinto nel 1934.
Un’altra meritata sosta e poi il gruppo inizia la risalita della penisola con la Napoli-Foggia, tappa nella quale – pur non presentando un percorso d’alta montagna – Bartali dà un’altra zampata alla concorrenza con una fuga solitaria nata sulla salita della Serra, quando al traguardo mancano ancora quasi cento chilometri. Lo spunto glielo offre il fatto d’aver notato che sulla Serra era riuscito agevolmente a guadagnare terreno e poi lo motivano anche i 62 Km che separano la cima del successivo GPM di Ariano Irpino dal traguardo, la stessa distanza che intercorreva tra l’ultima salita e l’approdo finale di Milano al Giro di Lombardia del 1936, che lui aveva vinto precedendo allo sprint Diego Marabelli e Luigi Barral. Stavolta non ha avversari con lui e nessun può portagli via la vittoria in una tappa che lo vede guadagnare 1’15” su Valetti, consolidando ancora di più la sua supremazia.
Nonostante le fatiche profuse Bartali allunga ancora il giorno dopo nella seconda semitappa dell’11a frazione, dopo che il mattino il modenese Walter Generati si era imposto a San Severo. I saliscendi molisani ispirano nuovamente il capitano della Legnano, che va riacciuffare Cesare Del Cancia dopo un tentativo del corregionale e in sua compagnia percorre gli ultimi 25 Km, arrivando a distanziare di un altro paio di minuti Valetti sul traguardo di Campobasso, mentre si segnalano in carovana i ritiri eccellenti di Bizzi e Guerra.
Non sarà così il giorno dopo, quando gli avversari decidono di approfittare delle avversità di corsa che colpiscono Bartali nel finale della tappa di Pescara, dopo che Gino aveva tentato ancora di fare il vuoto assieme a Del Cancia sulla salita di Colle Spaccato, a una quarantina di chilometri dalla conclusione. Non solo questo tentativo abortisce quasi subito, ma più avanti il toscano fora due volte e chi nei giorni precedenti era stato costretto a inseguirlo si vendica. La Fréjus, formazione di Valetti, si mette così a tirare in testa al gruppo e arriva a staccare la maglia rosa di 1’30” sulla salita di Chieti, distacco che Bartali riesce a limare di una trentina di secondi nel tratto conclusivo, giungendo a Pescara – dove Cimatti bissa il successo ottenuto a Rieti – con la maglia rosa ancora sulle spalle e con un vantaggio comunque rassicurante perché Valetti ha ancora 2’40” da recuperare.
Cimatti è protagonista anche il giorno successivo ad Ancona, stavolta al termine di una tappa priva di particolari sussulti agonistici e di un’altra volata che lo vede ancora contrapposto a Bini, con la differenza che stavolta il corridore toscano vince senza scorrettezze, riabilitandosi agli occhi dei detrattori. E, preso gusto con la vittoria, Bini va a segno anche nella 14a tappa, quando sul traguardo di Forlì precede Glauco Servadei, negandogli il successo sulle strade di casa. I ruoli s’invertono – Servadei primo, Bini secondo – il giorno dopo al termine dell’interminabile frazione di Vittorio Veneto, che precede di poche ore il “folle” tappone delle Dolomiti.
Osservato il penultimo riposo, il 26 maggio i corridori si apprestano alla prima traversata dolomitica della storia con una frazione tracciata per 227 Km tra Vittorio Veneto e Merano, lungo un temutissimo percorso che al giorno d’oggi farebbe il solletico ai corridori e suonerebbe totalmente inutile ai fini della classifica. La partenza è in dolce salita, verso la Sella di Fadalto, poi si pedala senza incontrare difficoltà altimetriche nei quasi 90 Km che fanno da preambolo all’interminabile Passo Rolle e al successivo e più morbido Costalunga, seguito da una discesa molto impegnativa e nel finale “spaventosa” poichè è previsto l’attraversamento dell’orrido della Val d’Ega, che al giorno d’oggi è evitato da una variante della vecchia strada. Arrivati a Bolzano poi si ritrova il velluto della pianura nei 26 Km conclusivi verso Merano, dove si saprà se la scelta di Cougnet è stata geniale o sciagurata. Le difficoltà da superare sono tali che nemmemo un campione come Bartali può considerarsi al sicuro su un tracciato del genere, con tutti i pericoli insiti in quelle stradacce mai finora solcate dal gruppo ed è forse anche per questo motivo che nulla accade fino ai piedi del Rolle. Superata San Martino di Castrozza il capoclassifica tenta due volte di evadere, ma sulle prime non riesce a prendere il largo e quando ce la fa non ce n’è più per nessuno: i 20” che Gino riesce a guadagnare in vetta al Rolle sui primi inseguitori, diventano – nonostante il fango – 1’40” a Predazzo, 2’45” al bivio per il Costalunga, 4 minuti netti sulla cima del passo e infine 5’38” sul traguardo di Merano, dopo 100 Km di cavalcata. A questo punto Valetti si ritrova secondo in classifica con 8′18″ di ritardo e, a meno di clamorose soprese, sarà praticamente impossibile disarcionare il toscanaccio dalla cima della classifica.
Le montagne non sono comunque terminate, anche se il Passo della Mendola da superare il giorno dopo arriva molto distante dal traguardo di Gardone Riviera, un traguardo che comunque non farà altro che confermare la supremazia di Gino: la tappa termina con uno sprint di 35 corridori e anche in volata Bartali dimostra d’essere il più forte, portandosi a casa il successo davanti a Bini e anche un portasigarette d’argento, speciale dono che ha voluto riservare al vincitore il più illustre cittadino di Gardone, il 74enne Gabriele d’Annunzio.
C’è spazio per un ultimo turno di sosta prima d’intraprendere le ultime tre frazioni, che qualche emozione comunque potrebbero ancora riservarla. Ma a San Pellegrino Terme l’unico brivido lo procura forse solo il solito “vizietto” di Bini, che ancora una volta si fa trovare con le mani nella marmellata in volata e viene nuovamente retrocesso per aver levato le mani dal manubrio, con la giuria che stavolta assegna a tavolino la vittoria a Servadei.
Si arriva così al gran finale che ha in serbo due semitappe con quella mattutina verso Como che dovrebbe proporre le salite al Balisio e al Ghisallo, ma la seconda viene estromessa all’ultimo momento per accorciare la fatica dagli originari 180 Km ai 151 Km sui quali effettivamente si corre e che vede nella prima parte Bartali in azione sul Balisio semplicemente per consolidare il suo primato anche nella classifica dei gran premi della montagna. Lo sprint sulla pista del velodromo Sinigaglia consacra la terza affermazione di Cimatti, poi nel pomeriggio si riparte per la conclusiva razione di chilometri verso il Vigorelli, il tempio milanese del ciclismo dove la vittoria stavolta è di Bini e Bartali viene consacrato vincitore del primo Giro con le Dolomiti.
Poteva essere una pazzia e i detrattori di quel tappone possiamo dire che avevano pienamente ragione. Cougnet era davvero diventato pazzo e con lui tutti gli altri, siano essi corridori o “suivers”: quel 26 maggio impazzirono tutti per lo spettacolo offerto da Gino e dai Monti Pallidi, scoccò la scintilla di un amore che ancora oggi riscalda gli appassionati.
Mauro Facoltosi
LE ALTIMETRIE
Nota: di alcune tappe è presente la sola tabella di marcia, di altre sia la tabella di marcia, sia dall’altimetria

1950, STAVOLTA PASSA LO STRANIERO
Fu il primo giro vinto da uno straniero quello del 1950. Sarà l’elvetico Hugo Koblet a imporsi in un’edizione della Corsa Rosa che vedeva al via anche i più celebrati corridori italiani, a partire da Fausto Coppi che puntava a bissare l’impresa della Cuneo-Pinerolo dell’anno prima nel tappone dolomitico di Bolzano. Invece in quella tappa terminerà la sua corsa con una dolorosa caduta che gli fratturerà il bacino e gli sconvolgerà pure la vita privata.
Parte il 24 maggio il Giro del 1950, in una data simbolica per la nostra nazione. Ma il Piave non mormora stavolta perché tre settimane più tardi sarà – per la prima volta nella storia – un corridore straniero a issarsi in vetta alla classifica. E pensare che ai nastri di partenza di quell’edizione Corsa Rosa sono schierati i tre Grandi del ciclismo italiano: c’è Fiorenzo Magni, che in quella stagione ha conquistato il Giro delle Fiandre per il secondo anno consecutivo e un Giro l’ha già portato a casa nel 1948; c’è il “pio” Gino Bartali, che ha quasi 36 primavere sulle spalle e probabilmente non ha molte chanches di vittoria ma ci tiene da matti a conquistare quell’edizione, che celebra l’Anno Santo con l’arrivo dell’ultima tappa a Roma, dove il vincitore sarà ricevuto dal papa; soprattutto c’è Fausto Coppi, che dodici mesi dopo la fantastica impresa alla Cuneo-Pinerolo vuole regalarne un’altra ai suoi tifosi e ha già messo nel mirino il tappone che Torriani ha disegnato tra Vicenza e Bolzano. Oltre ai nostri tre beniamini, al raduno di partenza una buona fetta di applausi sono riservate al francese Jean Robic, che nel 1947 si era imposto nel primo Tour de France organizzato nel dopoguerra e che in Italia è conosciuto con il soprannome di “testa di vetro” per essersi fratturato il cranio alla Parigi-Roubaix, incidente dopo il quale prenderà l’abitudine di gareggiare con un casco di cuoio (infatti, in Francia lo chiameranno più correttamente “Tête-de-cuir”, che vuol dire proprio “testa di cuoio”). Dell’elvetico Hugo Koblet, invece, non parla nessuno anche perché non fa paura un corridore che a 25 anni e al quarto da professionista ha nel palmarès solo quattro vittorie, un paio di tappe al Giro di Svizzera e altrettante al Romandia; c’è, però, chi ha visto lungo e questa persona è il suo connazionale Gottfried Weilenmann, che l’ha segnalato a Learco Guerra, il quale l’ha voluto nella formazione che porta il suo nome e che quell’anno è tra le iscritte alla corsa.
Si parte il 24 maggio, dunque, con una prima frazione pianeggiante di 225 Km che da Milano conduce a Salsomaggiore, la celebre località termale che proprio quell’anno è stata scelta per ospitare Miss Italia, il concorso creato nel 1939 da Dino Villani e che fino al quel momento era andato in scena a Stresa, dove un paio d’anni prima in occasione della kermesse erano state girate le scene d’apertura di “Totò al Giro d’Italia”. Sono attesi i velocisti alla prima esibizione ed è, infatti, uno di loro a imporsi e a vestire la maglia rosa, anche se Oreste Conte la vittoria non la ottiene sul gruppo compatto ma su un plotoncino di undici uomini “evasi” nel finale e giunto al traguardo con 40” di vantaggio sui big.
Le prime difficoltà altimetriche fanno capolino sul tracciato viaggiando verso Firenze, dovendosi affrontare le ascese verso i passi della Raticosa e della Futa. Anche qui la fuga riesce ad andare al traguardo, mentre tra i corridori più attesi c’è grossa delusione per Bartali, che cade durante un tentativo d’attacco a Coppi, fermato da una foratura, e a casa sua registra un comunque lieve passivo sul rivale (15 secondi) mentre per un fiorentino che piange ce n’è un altro che ride: è il futuro commissario tecnico della nazionale Alfredo Martini che sulla pista in terra battuta dello stadio cittadino vince la tappa che vede il passaggio delle consegne in vetta alla classifica tra Conte e lo svizzero Fritz Schär, mentre per la prima volta si fa notare Koblet, vincitore del traguardo volante di Bologna e secondo in cima alla Raticosa prima di perdere le ruote dalla testa della corsa sulla Futa.
Ancora una fuga riesce a emergere nella polverosa tappa di Livorno, dove oltre 5 minuti separano l’arrivo del gruppo dei favoriti dalla vittoria di Olimpio Bizzi, particolarmente felice per aver conquistato la frazione che terminava nella sua città natale – dove si era già imposto nel 1937 – regolando i due compagni d’avventura, Vincenzo Rossello e Armando Peverelli.
La musica non cambia neppure nel viaggio dalla Toscana alla Liguria, con gli assi tutti assieme al traguardo di Genova e Coppi terzo, ma è il minore dei due fratelli, quel Serse che l’anno precedente aveva vinto ex-aequo con André Mahé la Parigi-Roubaix e dodici mesi più tardi perderà prematuramente la vita per una maledetta caduta nel finale della Milano-Torino: quel giorno Serse se ne va in fuga con una dozzina di elementi, transita in testa sul Passo sul Bracco e poi al traguardo viene preceduto dal vincitore Antonio Bevilacqua e da Koblet, che zitto zitto guadagna posizioni in una classifica ancora dominata dal connazionale Schär, che veste le insegne del primato con 30” su Martini, mentre Coppi (Fausto) è 10° a 3’25” e Hugo è ora 13° a 3’39”, lo stesso distacco di Bartali.
Si fa ritorno al nord con una tappa che, nel suo piccolo (per modo di dire, sono 245 i chilometri da percorrere per raggiungere Torino) è storica perchè la RAI – all’epoca ancora chiamata “Radio Audizioni Italiane” – per la prima volta trasmette il Giro, anche se si tratta per ora di un semplice esperimento a “circuito chiuso”, realizzato istallando appositamente impianti di ricezione sulla collina di Pino che invieranno le immagini unicamente a una serie di televisori collocati all’interno del motovelodromo di Torino, dove è in programma l’arrivo: qui gli schermi della futura TV di stato, che inizierà le regolari trasmissioni nel 1954, immortalano l’arrivo dell’abruzzese Franco Franchi davanti ai compagni di fuga, presentatisi al traguardo due minuti prima degli uomini di classifica, ancora una volta giunti tutti assieme.
I tifosi svizzeri, nel frattempo, preparano la festa per i loro corridori perché a questo punto è previsto lo sconfinamento nella Confederazione Elvetica e il Giro ci arriva con uno di loro in rosa, avendo Schär conservato il primato in classifica a Torino. Non possono presagire, però, che la loro festa sarà doppia allorchè sarà un rossocrociato anche il primo corridore a tagliare il traguardo di Locarno e quel corridore è l’ancora poco temuto Koblet , mentre i corridori più attesi terminano la tappa tutti assieme. Intanto la classifica cambia alle spalle di Schär, con Koblet che sale al 3° posto con 47” di ritardo e Coppi che guadagna un minuto d’abbuono al traguardo volante di Biella e ora ha 2’25” da recuperare.
Dopo una giornata di riposo fuori dai confini nazionali il Giro si rimette in marcia in direzione Brescia. La tappa è una delle più lunghe, quasi come la Milano-Sanremo, e presenta la principale e ultima difficoltà a un centinaio di chilometri dalla conclusione, quando si affronta una salita inedita che rimarrà nella storia della Corsa Rosa, il passo dell’Aprica. A inaugurare questo valico è Coppi, che va all’attacco per la prima volta in questa edizione del Giro e transita in vetta in compagnia di Robic mentre, tra i big, Bartali paga poco più di un minuto per poi riuscire a rientrare, complice un cambio di bici al quale è costretto il Campionissimo. C’è una corsa nella corsa in questa tappa e l’altra gara ha per protagonista Martini, il secondo della classifica, che fora due volte, riesce a rientrare nel gruppo della maglia rosa e, sullo slancio del secondo rientro, se ne va in fuga solitaria. Dalle parti di Boario Terme è raggiunto da un gruppetto di 10 corridori e con essi arriva fino al traguardo, dove vince il corregionale Luciano Maggini mentre il futuro C.T. riesce a prendere il primato in classifica perché Schär a Brescia ci arriva con 2’44” di ritardo, nel gruppo dei big: ora è il corridore di Sesto Fiorentino a detenere il comando della corsa con Maggini a 1’15” e Bresci a 2’08”.
Il regno di Alfredo è di breve durata, sole ventiquattrore, perché un nuovo capoclassifica il Giro avrà al termine della successiva frazione di Vicenza, aperitivo al tappone dolomitico con la scalata al Pian delle Fugazze e al Passo Xon. È Koblet la nuova maglia rosa e adesso l’elvetico comincia a far paura per come ha condotto la tappa: abbandona la compagnia del gruppo sulle Fugazze, percorre i rimanenti 90 Km in compagnia di Pasquale Fornara e, nonostante la fatica d’essersi sobbarcato quasi da solo la “regia” dell’intero tentativo, batte il piemontese a Vicenza dove Bartali ottiene allo sprint il terzo posto 1’20” dopo l’arrivo dei primi due. E lo zurighese s’imbusta nella maglia rosa precedendo di 19” Martini, di 2’33” Schär e di quasi 4 minuti Coppi.
Il corridore di Castellania sperava forse in una situazione migliore al momento di mettersi in sella per la frazione più temuta, il tappone dolomitico di 272 Km disegnato tra Vicenza e Bolzano. Si tratta di una versione “estesa” di una tappa disputata anche al Giro dell’anno precedente sulla distanza di 237 Km, con partenza fissata a Bassano del Grappa e un percorso per il resto totalmente identico, che prevede il Rolle prima e il Pordoi dopo, quindi il “nanerottolo” Campolongo a precedere il Gardena e il “tuffo” verso Bolzano, percorso che aveva visto proprio Fausto in netto predominio, partito nel tratto in falsopiano verso Canazei e giunto al traguardo con quasi 7 minuti sul secondo. Stavolta, però, non ci arriva nemmeno a vederle quelle salite perché, percorsi una sessantina di chilometri dal via, “pedalavamo in gruppo a lenta andatura. Io ero sul lato sinistro della strada. Improvvisamente un braccio del corridore Peverelli ha urtato contro il manubrio della mia bicicletta. È un caso che capita tante volte durante le corse. Si riesce quasi sempre a riprendere l’equilibrio. Io, invece, sono caduto di schianto a terra, pesantemente, senza avere tempo di proteggermi con le mani dall’urto contro l’asfalto. Intuii subito che per me era finita”. Queste le parole che Coppi rilascia a “La Stampa” all’ospedale di Trento, dove gli è diagnosticata la rottura del bacino, infortunio che compromette il proseguio della stagione (la sua successiva vittoria sarà la cronometro di Terni al Giro dell’anno dopo) e che – anche se non può ancora saperlo – sconvolgerà anche la sua vita privata perché è nel periodo della convalescenza che conoscerà Giulia Occhini, la donna che diventerà la sua compagna di vita (nonostante entrambi fossero già sposati) fino alla scomparsa del Campionissimo il 2 gennaio del 1960. Tornando alla tappa in corso, fin dalla partenza tutti gli occhi erano puntati su Koblet e ora – dopo l’uscita di scena del favorito principe – lo sono ancora di più. E lui dimostra che i timori sulla sua resistenza non sono infondati perché l’elvetico tiene benissimo sulle salite e giunge al traguardo in compagnia del connazionale Ferdi Kübler e di Bartali, che vince la tappa e risale in classifica posizionandosi immediatamente dietro Koblet, con un passivo di 5’42” che recuperare sarà quasi impossibile, considerata l’età di “Ginettaccio” e il fatto che di altre frazioni di vera montagna da qui a Roma non ne sono previste.
Dopo le Dolomiti è in calendario un altro turno di riposo, durante il quale Gino ne approfitta per andare a far visita all’amico-rivale Fausto nella camera d’ospedale, poi ci si rimette in sella per un’altra tappa lunghissima che punta dritta su Milano, dove la corsa era partita dieci giorni prima e dove sulla pista del Vigorelli s’impone in fuga il catanese Mario Fazio. Nel frattempo si viene a sapere che anche il pontefice, l’apparentemente freddo e distaccato Pio XII, ha dimostrato autentico dispiacere per l’incidente di Coppi, soprattutto alla notizia che ne avrebbe avuto per un paio di mesi e le sue dichiarazioni sorprendono anche perché non era un mistero che Papa Pacelli avesse una particolare predilezione per il “pio” Bartali.
Dal capoluogo lombardo ci si rimette intanto in viaggio per andare a Ferrara con un’altra bella indigestione di chilometri sul velluto della Pianura Padana, tappa nella quale il gruppo se la prende comoda lasciando che i fuggitivi si presentino sul traguardo, dove s’impone il velocista umbro Adolfo Leoni, con un vantaggio di ben 6 minuti. Oramai sembra che nel gruppo ci sia una sorta di rassegnazione e che non ci sia più nulla da fare lo dimostra Bartali in un’intervista rilasciata il mattino successivo, nella quale dichiara che l’unico suo errore era stato quello, fin dalla prima tappa, di pensare troppo al rivale piemontese e di aver trascurato quell’elvetico che ora lo precede di quasi sei minuti.
C’è ora da correre la tappa più breve e facile, 144 Km sulle lisce strade romagnole che conducono a Rimini e anche qui c’è da registrare una volatona tra fuggitivi, che vede Bevilacqua tornare a imporsi dopo il successo ottenuto una settimana prima a Genova. E anche questa è una giornata di tranquillità per tutti i big, tutti escluso Robic che è protagonista di una caduta che terrorizza i soccorritori perché non indossava il casco che ne proteggeva il fragile cranio: riesce comunque a concludere la tappa, nonostante un occhio gonfio e i tre uncini d’acciaio con i quali il medico di gara gli aveva ricucito la ferita riportata all’arcata sopraccigliare, ma poi sarà costretto al ritiro il giorno dopo.
Si torna in Toscana con la tappa che porta ad Arezzo attraverso il Passo del Muraglione, altra generosa razione di chilometri che vede lungo il percorso Koblet allungare in classifica guadagnando un minuto e mezzo ai traguardi volanti e confermando così la sua supremazione su Bartali, terzo allo sprint che decide l’ordine d’arrivo, nel quale è preceduto da Maggini e Magni.
Il giorno successivo si rovesciano le parti e stavolta è Bartali a guadagnare l’abbuono, agguantando quello previsto in cima al Passo dei Mandrioli durante la frazione che porta il gruppo da Arezzo a Perugia, che poi si conclude con i migliori tutti assieme sulla linea d’arrivo, tagliata ben 10 minuti dopo l’arrivo dei corridori andati in fuga nella seconda parte della tappa. Tra questi c’è l’ex leader della corsa Schär, che nel finale attacca e giunge tutto solo al traguardo con più di 2 minuti di vantaggio su Serse Coppi e sul padovano Giacomo Zampieri.
Un ultimo giorno di riposo precede le rimanenti quattro tappe del Giro che ora si addentra nel cuore geografico della penisola per fare scalo all’Aquila, dove Bartali 14 anni prima aveva collezionato la prima vittoria alla Corsa Rosa. Forse ringalluzzito dal ricordo di questo precedente il corridore toscano tenta di giocarsi ancora la carta dell’abbuono e anche stavolta riesce nell’intento, riducendo a 5’12” il suo passivo da Koblet mentre davanti vola verso la vittoria Giancarlo Astrua, il giovane piemontese che al Giro dell’anno dopo riuscirà a precedere a sorpresa di 20 secondi Fausto Coppi nella cronoscalata di San Marino.
C’è ancora una frazione di montagna prima dell’epilogo romano, ma non si possono certo definire un tappone i 203 Km che collegano il capoluogo abruzzese a Campobasso superando ascese storiche come il Piano delle Cinquemiglia e i valichi di Rionero Sannitico e del Macerone, affrontate sin dalla prima edizione del Giro e collocate molto distanti dal traguardo. Stavolta lo “scherzetto” che Bartali aveva tirato a Koblet nelle due precedenti frazioni non va in scena e, invece, è Koblet a provare l’azione sulla salita di Rionero, in cima alla quale ha 45” sul toscano, che rientra in discesa. Ma poi è un altro toscano a prendere il largo, sfruttando una foratura dell’elvetico: è Magni, che vola a prendersi un successo che inseguiva con ostinazione fin dall’inizio del Giro mentre i due “litiganti” concludono la tappa pari tempo una cinquantina di secondi dopo l’arrivo vittorioso di Fiorenzo.
Ma Bartali è indomito e intende ancora sfruttare le occasioni che il fato ha in serbo nelle ultime due facili frazioni. Così succede che nel viaggio verso Napoli Koblet fora ben 4 volte e il secondo in classifica coglie al balzo l’occasione per attaccarlo, rimanendo al comando della corsa per quasi tre quarti d’ora con l’elvetico a inseguire con un passivo attorno al minuto da recuperare. In suo aiuto arriva una quinta foratura, che colpisce però il suo connazionale Kübler, in quel momento nel gruppo Bartali. La sosta per riparare il danno è lunga e così Ferdi si vede raggiunto dal gruppetto nel quale insegue la maglia rosa, al quale si associa contribuendo ad annullare definitivamente il distacco. Terminate queste concitate fasi di gara s’impossessano del palcoscenico il veneto Annibale Brasola e Guido De Santi, che s’involano verso il traguardo, dal quale transitano nell’ordine 16 minuti prima del sopraggiungere del gruppo, stavolta senza più distacchi tra Koblet e Bartali.
Ora il Giro è davvero finito, nessuno prova a impensierire il padrone della corsa nella conclusiva tappa di Roma, che termina così come era iniziata la corsa, con il successo di Oreste Conte che regola allo sprint un gruppo di 69 elementi. Tra i quali c’è Hugo Koblet, primo straniero a vincere il Giro.
Quell’anno il Piave non mormorò…
Mauro Facoltosi
LE ALTIMETRIE
Nota: mancano la 10a tappa (Milano), l’11a (Ferrara) e la 17a (Napoli), mentre della prima (Salsomaggiore) è presente la sola planimetria

1960: IL GAVIA, UN MITO NATO TRA LE NUVOLE
Nel 1960 Torriani scopre il Gavia, ne rimane folgorato e decide che è giunta l’ora di portare il Giro su quell’impervia mulattiera. L’intero percorso di quell’edizione della corsa rosa ruota attorno a quella tappa, rimasta in bilico fino all’ultimo.Ma alla fine, sistemata la strada, si riesce a correre e saranno Massignan e Gaul i primi eroi del Gavia, anche se poi il Giro andrà ad arricchire il palmarès di Jacques Anquetil, al suo primo acuto in rosa.
Nacque tra le nuvole il mito del Gavia. Il vulcanico Vincenzo Torriani, il ragionere che aveva ereditato da Armando Cougnet la sala dei bottoni del Giro d’Italia e solo sette anni prima aveva portato per la prima volta nella storia la corsa sullo Stelvio, si trovava a bordo di un aereo che stava sorvolando la Val Camonica e rimase colpito dalla “silhouette” di una strada a lui sconosciuta che da Ponte di Legno s’inerpicava verso la Valtellina. Era la stretta mulattiera – larga tra i 3 e i 4 metri – che conduceva al Passo Gavia, una rotabile che era stata concepita per scopi militari e che sei anni si era guadagnata un piccolo spazio sulle cronache dei quotidiani a causa di un tragico incidente nel quale avevano perso la vita 18 alpini, periti a bordo di un furgone militare che dalla strada era precipitato in un burrone. Era una salita che, se fosse proposta oggi nelle medesime condizioni del 1960, con un fondo inghiaiato irregolare ed esposta sui precipizi, farebbe investire l’attuale direttore del Giro Mauro Vegni di una valanga di lamentele; ma non fu così nell’aprile di 60 anni fa quando a Palazzo Sormani Torriani e il direttore della Gazzetta Giuseppe Ambrosini svelarono il percorso del Giro, un tracciato che aveva il baricentro proprio nella tappa del Gavia, anche se non mancavano altri momenti chiave, come le due difficili tappe a cronometro di Sorrento e Lecco.
Ma è sul Gavia che si concentrano le attenzioni perché nessuno lo conosce e per far capire ai corridori a cosa si sarebbe andato incontro l’organizzazione incarica un regista di recarsi sul posto e girare un breve filmato da mostrare ai corridori che il 19 maggio si schierano al via da Roma. Se il Gavia da un lato è il “faro” della Corsa Rosa, dall’altro lato altrettanti “fari” sono i grandi nomi ai nastri di partenza e in particolare i corridori più attesi sono il lussemburghese Charly Gaul e il francese Jacques Anquetil. Gaul il Giro l’aveva già vinto due volte, il primo nel 1956 con la leggendaria impresa sotto la tempesta di neve sul Bondone e il secondo l’anno precedente, quando aveva preceduto di quasi 6 minuti l’altro sfidante, quell’Anquetil che nel 1959 aveva preso parte per la prima volta al Giro e all’attivo aveva in quel momento un Tour vinto nel 1957. Le speranze italiane sono riposte su Ercole Baldini e Gastone Nencini, che il Giro l’avevano vinto nel 1958 il primo e nel 1957 il secondo, mentre nel gruppo serpeggia ancora la nostalgia per la prematura scomparsa di Fausto Coppi che, se la malaria non se lo fosse portato via il 2 gennaio di quell’anno, molto probabilmente sarebbe stato in gara con le insegne della San Pellegrino, la formazione creata nell’autunno precedente, diretta dal suo ex rivale Gino Bartali e che al via schiera il giovane neoprofessionista Romeo Venturelli, notato e voluto in squadra dallo stesso Coppi che l’avrebbe consigliato al meglio, mitigandone quelle intemperanze tipiche dei giovincelli inesperti che purtroppo ne caratterizzeranno la carriera, nella quale il corridore emiliano raccoglierà molto meno di quanto la sua classe gli avrebbe permesso d’ottenere.
Espletate le formalità della punzonatura nella capitale, che quell’estate avrebbe ospitato i giochi della XVII Olimpiade, si parte con una tappa in linea di 212 Km diretta a Napoli, non essendo ancora stati “inventati” i cronoprologhi, le tradizionali brevi cronometro d’avvio che saranno adottate per la prima volta nel 1967. L’arrivo è sulla pista dell’Arenaccia, il velodromo di proprietà del Ministero della Difesa all’interno del quale si presenta un gruppetto di sei corridori che precede di 13” il resto del gruppo e che è regolato allo sprint da Dino Bruni, corridore romagnolo che, a proposito di Olimpiadi, ai giochi di Helsinki del 1952 aveva conseguito la medaglia d’argento nella cronosquadre.
L’incantevole Sorrento ospita il giorno successivo la prima frazione a cinque stelle di questa edizione del Giro, una difficile cronometro individuale di 25 Km, 13 in salita verso il Picco Sant’Angelo, spettacolare belvedere sulla costiera amalfitana, e il restante tratto in complicata discesa per rientrare alla base, dove tutti attendono Anquetil che invece – come successo l’anno precedente nella vicina Isola d’Ischia, dove a crono era stato preceduto a sorpresa di quasi un minuto da Nino Catalano – viene beffato dal pupillo di Coppi per soli sei secondi, con Carlesi 3° a 54”, Nencini 4° a un minuto e il vincitore uscente del Giro Gaul che soffre e perde quasi 2 minuti.
Si riparte con Venturelli in rosa alla volta di Campobasso, ma all’altro capo della tappa – dove a vincere è lo sprinter spagnolo Miguel Poblet – è Anquetil a vestire le insegne del primato perché di traverso ci si mette uno dei colpi di testa di “Meo” che, si dice, la sera prima aveva fatto le ore piccole per festeggiare la vittoria di Sorrento bevendo champagne mischiato con limonata (anche se al momento si parlò di un’avida bevuta d’acqua ghiacciata): partito da re del Giro nel capoluogo molisano il corridore emiliano si ritrova così ricacciato indietro in classifica al quinto posto, con un passivo di 1’20” dal campione francese.
Dopo la facile tappa di Pescara, che vede lo spagnolo Salvador Botella imporsi con 4’30” di vantaggio sul gruppo dopo una fuga protrattasi per oltre 100 Km, suona l’ora delle montagne con l’inedito Passo Terminillo. Che proprio inedito non è perché sul finire degli anni ’30 la “Montagna dei Romani” aveva ospitato tre cronoscalate, ma in quelle occasioni ci si era spinti fin dove la strada consentiva di arrivare mentre ora, completato il collegamento stradale con Leonessa, è possibile giungere sin quasi a 2000 metri d’altezza, quota che svetta nel finale della Pescara – Rieti. La tappa prevede anche la “Strada delle Svolte”, ascesa dalle parti di Popoli che al Giro del 1936 consentì a Bartali di conquistare la sua prima vittoria di tappa alla Corsa Rosa e che stavolta mette in croce Venturelli, costretto al ritiro da quella che il bollettino medico definisce “gastroenterite tossica”. Davanti, intanto, il gruppo affronta senza troppi scossoni il Terminillo, sul quale l’unico a provare qualcosa è Gaul, che si avvantaggia di un pugno di secondi in vista dello scollinamento per poi essere ripreso; scene più interessanti si vivono nella picchiata verso Rieti, lungo la quale si avvantaggiano Nencini e Guido Carlesi, il corridore toscano soprannominato “Coppino” per la somiglianza con il Campionissimo e che alla partenza da Pescara era distanziato di 35” da Anquetil, distacco che scende a 14” sul traguardo reatino, dove transita per primo Nencini.
La risalita della penisola prosegue con una tappa che da Terni conduce a Rimini e nella quale sono attesi i velocisti. Invece è la fuga ad andare in porto ed è di quelle che si definiscono “bidone” perché alla notizia della vittoria di Pierino Baffi, che batte al colpo di reni Nino Defilippis, si affianca quella dell’insediamento di uno dei fuggitivi al vertice della classifica: è il belga Joseph Hoevenaers che, grazie ai 4’15” di vantaggio sul gruppo, detronizza Anquetil, sceso in seconda posizione con un passivo di 1’53” che potrà facilmente recuperare grazie alle altre tre cronometro in programma.
Già dal giorno successivo “Jacquot” ha terreno fertile per cominciare a erodere lo svantaggio poichè il mattino è prevista una brevissima prova contro il tempo, appena 5 Km disegnati tra le strade di Igea Marina, che però non va secondo le previsioni dell’asso francese: un guasto lo costringe a cambiare bici e così finisce per perdere altri 3 secondi da Hoevenaers, mentre a cogliere il successo è Poblet. Si disputa il pomeriggio stesso una semitappa di 81 Km dalla confinante Bellaria a Forlì, dove si giunge dopo aver affrontato l’ascesa alla Rocca delle Caminate. Su quest’ultima rimane davanti un gruppetto contentente tutti i migliori della classifica, 18 uomini regolati allo sprint dal belga Rik Van Looy, che il giorno dopo fa il bis a Livorno, al termine di una tappa movimentata da parecchie cadute che vedranno protagonisti anche nomi importanti, corridori del calibro di Baldini, Nencini, Defilippis, Angelo Conterno – che nel 1956 era stato il primo italiano a vincere la Vuelta – Wim van Est e Poblet.
Altre due semitappe attendono il gruppo al nono giorno di gara e anche stavolta è in programma una cronometro, in calendario al pomeriggio dopo la mattutina Livorno – Carrara, conquistata in volata da Emile Daems, corridore belga che in questa edizione del Giro ha al seguito il suocero, autista della vettura di un quotidiano di Bruxelles. Nella sfida contro l’orologio, più ostica di quella di Igea perché si tratta di una cronoscalata di 2 Km e 200 metri verso le celebri cave di marmo di Carrara, Anquetil riesce finalmente a rosicchiare 24 secondi a Hoevenaers mentre per la vittoria di tappa è costretto a fare a metà con Poblet, poiché i due fanno entrambi segnare il miglior tempo e all’epoca non si usa ancora conteggiare i centesimi.
La corsa ha in “cartellone” ora l’ultima frazione appenninica, che ha meta in Sestri Levante dopo esser saliti sui passi della Cisa e delle Centro Croci. È una tappa che, se non ci fosse stato Hoevenaers in rosa, avrebbe visto un cambio in vetta alla classifica perché Anquetil termina lontano dagli altri big, quasi quattro minuti di ritardo dai primi giunti al traguardo, un risicato gruppetto di dieci corridori selezionatosi nel corso dell’impegnativa discesa dal Cento Croci, resa insidiosa dalla pioggia e dalla presenza di alcuni tratti in selciato. Non si contano le cadute e le forature. All’arrivo è necessario il fotofinish per stabilire chi, tra Nencini e Van Looy, fosse il vincitore di questa tappa che vede il capoclassifica Hoevenaers e Gaul pagare 1’36” e il favoritissimo Anquetil perdere 3’50”. Il belga salva la rosa ma ora ha soli 20” di vantaggio su Carlesi mentre il transalpino è sceso in settima posizione a 2’43”.
Battuto di un amen ventiquattrore prima, Van Looy riesce ad andare in “goal” il giorno dopo ad Asti, dove alla gioia del belga fa da contraltare la delusione di Carlesi che, dopo aver guadagnato il secondo posto in classifica a Sestri subito lo riperde a causa di una caduta avvenuta nella discesa della Ruta, nei chilometri iniziale dell’undicesima frazionbe. Ferito a un braccio e a una gamba, “Coppino” riesce anche a recuperare le ruote del gruppo, ma le perde di nuovo sulla salita dei Piani di Creto, sulla quale scoppia la bagarre, e da lì in avanti non riesce più a ricucire lo strappo, arrivando ad accusare un ritardo di 3’25” che lo fa ripiombare dal secondo all’ottavo posto in classifica.
Con Hoevenaers in rosa si arriva così alle frazioni alpine. Ne sono previste solo due proprio per non rubare la scena al Gavia, sul quale comunque circolano molti timori. Il recente inverno è stato particolarmente ricco di precipitazioni e tanta neve alberga ancora sui più elevati passi, rendendo obbligatorio predisporre un “piano B” che prevede di sostituire il Gavia con lo Stelvio, la cui sede stradale asfaltata e più ampia è più agevole da sgombrare dalla neve rispetto alla stretta e sterrata mulattiera che sale da Ponte di Legno. Gira anche voce di patti stretti da Torriani con le compagnie d’assicurazione che permetterebbe all’organizzazione di scaraventare nei burroni del Gavia le ammiraglie rimaste in panne lungo la salita. Intanto la prima tappa di salita alpina scorre via quasi senza colpo ferire al punto che un giornalista arriva a scrivere che “la montagna ha partorito un topolino”. Quel topolino è un autentico Carneade del gruppo, lo sconosciuto cremonese d’origine polacche Addo Kazianka, che va in fuga da lontano assieme ad altri tre corridori per poi staccarli lungo l’ascesa finale di Cervinia, inedito traguardo al quale si presenta con 3’47” di vantaggio su Nencini, Hoevenaers, Anquetil, lo scalatore vicentino Imerio Massignan e Gaul, l’unico tra i big ad aver azzardato un tentativo sull’ascesa finale.
Milano ospiterà l’arrivo finale ma, nel frattempo, è previsto anche un traguardo intermedio, quella della tredicesima frazione, una tappa la cui altimetria dice volata ma che in realtà parlerà ancora il linguaggio della fuga. E ancora il polacco perché, come Kazianka, ha lontane origini in quella nazionale anche il corridore che si impone in solitaria nel capoluogo lombardo, Jean Stablinski, passaporto francese, futuro campione del mondo nel 1962 a Salò e un passato da minatore – per comprarsi la sua prima bici – dalle parti di Wallers, il centro presso il quale si trova la Foresta di Arenberg, il celebre settore di pavè che proprio lui fece conoscere agli organizzatori della Parigi-Roubaix.
Dopo un giorno di riposo si riparte con la tappa che Anquetil attende di più, una cronometro fiume di 68 Km disegnata tra le colline brianzole. Tra Seregno e Lecco detta la sua legge ed è una legge dura che sancisce la sua netta supremazia: sulle rive del lago di Como la maglia rosa è tornata di sua proprietà dopo che i cronometristi hanno registrato il tempo di 1h29’57” (pari a una media di 45.3 Km/h), dopo che Jacques ha dato 1’27” al primo degli “umani” (Baldini) e dopo aver mandato fuori tempo massimo ben 51 “girini”, quasi tutti graziati alla giuria. Ora il corridore più vicino a lui in classifica è Nencini, che ha davanti a sé un difficile muro di 3’40” da scavalcare, mentre Hovenaers è sceso al terzo posto a 4’19”, seguito da Diego Ronchini a 5’49” e da Gaul a 7’32”.
In attesa di tornare sulle montagne il percorso del Giro propone ora una serie di tre frazioni poco infarcite di difficoltà, ma per i velocisti sembra ci sia poco pane per i loro denti. Viaggiando verso Verona c’è, infatti, da registare l’attacco che non ti aspetti, quello di un Anquetil che ha evidentemente già smaltito la fatica della crono. Il francese parte all’inseguimento di un tentativo di Carlesi e con lui rimane anche Nencini, mentre il gruppo si frantuma. Ripreso il toscano torna la calma in gruppo poi nel finale si sganciano sei corridori, tra i quali ci sono Massignan, 6° in classica che oggi guadagna 25 secondi, e il campione del mondo in carica André Darrigade, che s’impone allo sprint sul belga Edgard Sorgeloos ottenendo quella che sarà la sua unica vittoria di tappa in carriera alla Corsa Rosa.
Anche la breve tappa di Treviso, soli 110 Km di totale pianura, sfugge al controllo dei velocisti con il gruppo che taglia la linea del traguardo 12 secondi dopo l’arrivo del toscano Roberto Falaschi e degli altri due corridori che con lui sono riusciti a evadere a circa 40 Km dall’arrivo. Dopo la battagliata frazione veronese, dunque, oggi niente brividi in gruppo, se non quelli patiti da un febbricitante Gaul, fiaccato anche da un potente raffreddore.
Siccome non c’è il due senza il tre anche la tappa di Trieste sfugge agli sprinter e stavolta c’è lo zampino di una caduta. Succede tutto a 40 Km dall’arrivo quando un’auto della carovana frena bruscamente innescando uno sbandamento in seno al gruppo che spedisce a terra quaranta corridori: tra i coinvolti ci sono la maglia rosa e Baldini mentre si salva dalla carambola Nencini, che insieme ai corridori rimasti incolumi s’invola velocemente verso il traguardo, dove la vittoria sorride di nuovo a Bruni – già vincitore della frazione d’apertura a Napoli – mentre il campione toscano riesce a ridurre di 38” il suo divario dalla testa della classifica.
Mentre buone notizie arrivano dal Gavia, dove Torriani aveva mandato in sopralluogo il cartografo della corsa Cesarino Sangalli e dove in poche ore si è riusciti a sistemare la strada per il gran tappone di pochi giorni dopo, il Giro propone un piccolo assaggio di montagna sulla strada per Belluno con il Passo della Mauria da scavalcare a una sessantina di chilometri da Belluno e le Dolomiti quest’anno solamente sfiorate dal percorso. Qui è più lecito attendersi l’approdo di un tentativo da lontano ed è quel che accade con l’affermazione in solitaria dell’irlandese Seamus Elliott, che a 5 Km dal traguardo riprende lo sfortunato Graziano Battistini, in fuga dalla Mauria, la cui azione si era inesorabilmente spenta a causa di una dolorosa caduta. In classifica tutto rimane tranquillo e sarà cosi anche durante la successiva frazione di Trento, nella quale i big preferiscono risparmiarsi in vista del Gavia e ancora una volta è la fuga ad andare in porto, coronata dal bis del belga Daems.
E arriva finalmente l’8 giugno, giorno per il quale si era dato da fare per consentire l’evento anche Achille Compagnoni, l’alpinista originario della Valfurva che da un paio d’anni per tutti era l’eroe del K2 per aver conquistato per primo la cima dell’Himalaya assieme a Lino Lacedelli, il 31 luglio del 1954. La tappa più attesa della corsa rosa è in programma fra Trento e Bormio, 229 Km che prevedeno prima del “babau” anche le salite di Cadine in partenza, di Molina di Ledro, di Campo Carlo Magno e del Tonale. Chi pensava che i big avrebbero atteso la salita finale rimane felicemente deluso, anche se non si assistono a grandi battaglie sulle prime difficoltà altimetriche, che vedono in testa alla corsa un piccolo drappello con dentro un nome celebre, quello di Van Looy. È sul Tonale che entra in scena Massignan, che attacca a inizio salita, raggiunge il belga e con lui scollina con il gruppo della maglia rosa a 1’35”. Poi lo scalatore vicentino rimane da solo sul Gavia, in vetta al quale il suo vantaggio sul primo inseguitore, Gaul, è il medesimo con il quale era transitato sul Tonale; più distanziati, alla spicciolata, fanno capolino dietro l’ultima curva del passo lombardo Arnaldo Pambianco (2’10”), Nencini (4’45”) e Agostino Coletto (4’50”), mentre bisogna attendere 5 minuti esatti dal passaggio di Massignan per vedere transitare la maglia rosa. Ma c’è un’altra inattesa protagonista in agguato in quella tappa, la sfortuna, che si accanisce in particolar modo proprio sulla testa della corsa, anzi sulle “teste delle corsa”. Due forature a cranio, infatti, intervengono a rendere grama la vita a Massignan e Anquetil, con il capoclassifica che patisce anche un salto di catena. Ma è Imerio a pagarne i danni peggiori perché dopo entrambi gli incidenti viene raggiunto da Gaul: la prima volta riesce a distaccare il rivale e a riportarsi solitario in testa della corsa, ma quando successivamente buca ancora mancano appena mille metri alla linea d’arrivo e il lussemburghese ne approfitta per accelerare e presentarsi in solitudine sotto lo striscione del traguardo, che taglia con 14” su Imerio mentre dietro impazza la lotta per la classifica. Nencini approfitta delle sue doti di discesista per aumentare il vantaggio su Anquetil, riuscendo a portarlo dai 15 secondi che aveva in cima al Gavia ai 3’27” che il francese accusa al traguardo, purtroppo non abbastanza da portargli via la maglia rosa, che rimane sulle spalle di “Jacquot” per soli 28 secondi.
Il Giro oramai è concluso perché nulla dovrebbe turbare gli equilibri della corsa nella lunga frazione conclusiva, che in 225 Km conduce i “reduci del Gavia” al tradizionale approdo del velodromo Vigorelli, dove finalmente si riesce ad assistere a un arrivo allo sprint a gruppo compatto, conquistato da Arrigo Padovan mentre Anquetil viene osannato quale vincitore della 43a edizione del Giro d’Italia.
Subito dopo Jacques annuncia che non andrà al Tour e che lo vincerà Nencini. E andrà proprio così…
Mauro Facoltosi
LE ALTIMETRIE
Nota: mancano la 7a tappa (semitappe di Igea e Forlì), 14a (cronometro di Lecco). Nell’altimetria generale conclusiva è segnalata anche la variante con lo Stelvio della tappa di Bormio, da attuare in caso di maltempo.

1982, QUANDO IL TASSO CI MISE LO ZAMPINO
Proseguiamo la nostra narrazione in rosa con il Giro del 1982, uno dei tre conquistati dal campione francese Bernard Hinault. Ogni qualvolta veniva sulle strade della Corsa Rosa se ne tornava a casa quasi indisturbato con il bottino massimo in saccoccia. Gli andò di lusso nel 1980 e non faticò troppo neppure nel 1985, nonostante un agguerrito Moser, ma nel 1982 incontrò lungo la sua strada un coriaceo avversario che lo mise alle corde e lo costrinse a una furibonda reazione, il varesino Silvano Contini.
In patria lo soprannominarono “Blaireau”, ovvero “tasso”, per la sua maniera di reagire alle avversità di corsa. Come il mammifero dei mustelidi, quando Bernard Hinault veniva stuzzicato, quando qualche avversario lo umiliava in corsa si rintanava nella sua tana per poi sfoderare gli artigli e menare dolorosi fedenti. Ed è quel che fece l’asso francese al Giro d’Italia del 1982, il secondo dei tre conquistati in una carriera che lo vide imporsi anche in cinque edizioni del Tour, come i grandissimi campioni, e in due della Vuelta, successi che si affiancano anche alle numerose affermazioni ottenuti nelle classiche in linea (una volta la poco amata Roubaix, due volte la Liegi, due il Lombardia, mentre non furono mai sue la Sanremo e il Fiandre). E va aggiunto che tutte le volte che venne a disputare il Giro sempre tornò nella sua Bretagna con la maglia rosa in valigia: la prima volta accadde nel 1980, quando si impose a Milano con quasi sei minuti su Wladimiro Panizza e dopo l’impresa nella tappa dello Stelvio in compagnia del compagno di squadra Jean-René Bernaudeau; l’ultima volta fu nel 1985, quando un indomito Francesco Moser ingaggiò una furiosa caccia agli abbuoni per tentare di arginare lo strapotere del campione francese. In mezzo ci fu l’affermazione del 1982, ottenuta in un periodo nel quale il Giro d’Italia attraversò una fase calante per quel che riguarda la durezza dei percorsi, anche se non per colpa di Vincenzo Torriani. Era successo che nel 1976 la Gazzetta dello Sport, da sempre organizzatrice della corsa, era stata acquistata dal gruppo editoriale Rizzoli-Corriere della Sera, che negli anni ’80 incontrerà un grosso periodo di crisi. Era necessario aumentare la tiratura della “Rosea” e si pensava che per attirare maggiormente i lettori in edicola nel mese del Giro al via della corsa dovessero esserci prima di tutto i campioni di casa nostra più amati e che si attrezzasse il percorso sulle loro “corde”. E questi campioni erano Moser e Giuseppe Saronni, forti a cronometro e allo sprint, ma poco avvezzi alle salite, soprattutto uno spilungone come il corridore trentino. Poco importa se in gruppo avessimo anche corridori dotati in salita come Giovanni Battaglin, Gianbattista Baronchelli, il citato Contini e Mario Beccia, il corridore che meno di tutti digerì questa filosofia di disegno dei percorsi e in più occasioni se ne lamenterà con Torriani.
Veniamo ora al Giro del 1982 sul quale il sipario si alza il 13 maggio a Milano con Hinault che indica quale suo principale avversario Tommy Prim, lo svedese della Bianchi che l’anno prima aveva perso il Giro per soli 38” da Battaglin e che corre in squadra con due corridori che lui considera in quel momento leggermente inferiori, Baronchelli e Contini. Ma tutti si devono guardare soprattutto dallo stesso “tasso”, che prende subito la maglia rosa imponendosi con i suoi compagni della Renault nella breve cronosquadre d’apertura: in Piazza Duomo, dopo aver percorso 16 Km a 50.1 Km/h, Bernard veste le insegne del primato distanziando di 2” Moser e di 26” il temuto tridente della Bianchi.
Con un lungo trasferimento il gruppo lascia il capoluogo lombardo alla volta di Parma, da dove si riparte in direzione di Viareggio per una tappa poco complicata per i corridori (si arriva allo sprint, vittoria di Saronni), ma che si rivela decisamente più ostica nel dopotappa per il collegio di giuria, che fa male i conti tra abbuoni e piazzamenti e prima assegna la maglia rosa all’elvetico Robert Dill-Bundi, poi decreta che Saronni è il nuovo capoclassifica, quindi la rimette sulle spalle di Hinault per poi stabilire definitivamente che spetta al francese Patrick Bonnet.
La corsa si ferma altre ventiquattore in Toscana con una tappa che da Viareggio punto verso la dolce collina di Cortona, sulla quale continua la festa in casa Renault grazie ad un giovane neoprofessionista che farà ben presto parlare di sé: è il 21enne Laurent Fignon, che l’anno successivo vincerà il suo primo Tour e che nel borgo aretino mitigherà la delusione per il secondo posto, preceduto allo sprint dall’australiano Michael Wilson, con la conquista della maglia rosa.
Hinault lascia sfogare i suoi “galletti” prima di assestare un secondo colpo nella cronometro di 37 Km che collega Perugia e Assisi, con partenza in discesa, fase centrale pianeggiante e rampetta finale per arrivare nel piazzale lastricato antistante la basilica di San Francesco. E così alle soglie della dimora del santo poverello il campione francese si presente ancor più ricco: vola a 46.818 Km/h, ferma i cronometri sui 47’25” e si riporta in testa alla classifica con 11” su Prim, 39” su Moser e 1’08” su Saronni.
L’indomani 169 Km poco impegnativi collegano Assisi e Roma, dove il Giro piomba insolitamente in un giorno lavorativo con una tappa destinata ai velocisti, che si conclude sulla pista d’atletica dello Stadio dei Marmi al Foro Italico con il successo dell’elvetico Urs Freuler, che poi farà il bis il giorno dopo al cospetto della reggia di Caserta. Sono entrambe tappe che scorrono via senza troppi sussulti agonistici mentre il tradizionale calore dei tifosi del sud si fa sentire particolarmente, al punto che nel frenetico dopotappa casertano si vedono Moser e Saronni menare le mani per farsi largo tra la calca mentre Hinault è costretto ad alzare sopra la testa la sua bici e a brandirla come fosse una clava.
Pur non essendo durissime, né inserite in un percorso d’alta montagna, le prime salite del Giro fanno capire a Hinault d’aver commesso uno sbaglio nella valutazione degli avversari: è da Contini che deve guardarsi dopo che lo scalatore varesino, scavalcate le ascese del Chiunzi (il valico della caduta di Pantani per colpa d’un gatto al Giro del 1997) e di Agerola, si presenta in beata solitudine sul traguardo di Castellammare di Stabia con 1’20” recuperati in classifica al bretone (contando anche l’abbuono), che ora lo precede di 13”.
Un avvicendamento al vertice della classifica è all’orizzonte, ma non sarà Silvano a vestirsi di rosa al termine della successiva tappa di Diamante, che doveva essere per velocisti e per velocisti è stata, anche se nello sprint si lancia pure Moser, che non eccelle solo a cronometro e che in quest’occasione coglie il primo posto davanti a Rosola, il consistente abbuono di 30 secondi riservato al vincitore e la testa della classifica per appena un secondo.
Con un giorno di riposo, il primo dei due in programma, ci si sposta al caldo della Sicilia per una tre giorni che debutta con una tappa che fa gola ai finisseur. E tra questi c’è un altro giovane emergente al pari di Fignon, quel Moreno Argentin che ha la stessa età del transalpino ma rispetto a lui è passato al professionismo due anni prima e ha già avuto modo di farsi notare conquistando due frazioni al Giro del 1981, a Cosenza e a Livorno. E la terza arriva ora sul traguardo della Taormina – Agrigento, frazione che sfiora i 250 Km di lunghezza e presenta la rampa finale dalla Valle dei Templi al traguardo, in cima alla quale il corridore trevigiano mette in fila Baronchelli e Saronni, che si piazza al terzo posto per il terzo giorno consecutivo e si consola con la splendida notizia della nascita della figlia Gloria. L’occasione per spezzare questa serie di piazzamenti e dedicare un successo alla nuova arrivata in casa Saronni arriva il giorno successivo, quando Beppe riesce finalmente a mettere la sua ruota davanti a quella di tutti gli altri avversari in quel di Palermo dove, dopo che il Monte Pellegrino a ridosso del traguardo non aveva provocato molta selezione, il corridore “lombardo piemontese” precede allo sprint Pierino Gavazzi e Moser, che coi denti strappa altri 5 secondi d’abbuono. Ulteriori 10 secondi il trentino li incamera il giorno dopo con il terzo posto nella Cefalù – Messina, che vede Freuler mettere in cascina il terzo e ultimo successo parziale in questa edizione della corsa rosa.
Lasciata la Sicilia si torna in Calabria per una lunga frazione che da Palmi conduce a Camigliatello Silano, località che sarà sede d’arrivo anche al Giro del 2020. Si attraversano le montagne della Sila ma la lunga salita verso Villaggio Mancuso oltre ad non essere impegnativa è anche piuttosto distante dal traguardo e, complice la giornata di pioggia, i big della classifica non ci provano nemmeno ad attaccare, lasciando tanto spazio ai tre fuggitivi di giornata. Così questi uomini arrivano a guadagnare fino un quarto d’ora e poi a giocarsi la vittoria, che sorride al francese Bernard Becaas, un altro compagno di squadra di Hinault, davanti a Giovanni Renosto e al futuro commissario tecnico della nazionale Davide Cassani, al suo primo anno da professionista.
Hinault intanto scalpita e il “tasso” si prepara a colpire per la prima volta per vendicare lo spodestamento ad opera di Moser. Medita di farlo 48 ore più tardi quando, dopo il secondo e ultimo giorno di riposo, il Giro si rimetterà in moto da Cava de’ Tirreni; la meta è Campitello Matese, salita molisana che spesso ha fatto vittime a sorpresa ma non sarà così per il corridore bretone che, invece, si tramuta in carnefice e si riprende la maglia rosa dopo essersi presentato al traguardo in compagnia di Beccia e aver affibbiato pesanti distacchi agli avversari: Prim paga 20”, Contini ne perde 1’16” mentre la vittima di Campitello stavolta risponde al nome dell’oramai ex leader della classifica Moser, che si vede volar via più di due minuti e con essi le insegne del primato.
Altre salite sono previste il giorno dopo verso Pescara ma il percorso, a prima vista, non è di quelli che fan paura con lo storico tridente Macerone – Rionero – Roccaraso da superare in partenza e poi il “nulla”. Invece Contini s’inventa un autentico e insperato capolavoro, andandosene sulla salita di Roccaraso assieme ad altri tre compagni d’avventura quando al tragardo mancano quasi 130 Km. Non vengono più ripresi e Contini ci mette pure la ciliegina sulla torta intascandosi successo e abbuono, oltre al minuto e poco più guadagnato sulla strada che lo riporta a 31” da Hinault.
È un Giro che strizza l’occhio ai giovincelli quello del 1982 e lo dimostra anche la 14a tappa: dopo la maglia rosa conquistata da Fignon e dopo il successo di Argentin adesso arriva il turno del “Ciclone” Guido Bontempi, 22 anni, due tappe della Vuelta e una al Giro l’anno prima e adesso l’affermazione al termine d’una frazione pregna di chilometri che in quasi 250 Km conduce da Pescara a Urbino. Per i corridori di classifica è una giornata ideale per rifiatare dopo due tappe vissute intensamente e anche la successiva verso Lido delle Nazioni si rivela identica, disputata unicamente per arrivare tutti assieme sul rettilineo d’arrivo romagnolo, dove il fotofinish assegna la vittoria a Silvestro Milani e nega il filotto a Freuler.
Arriva l’ora delle frazioni alpine, quasi tutte caratterizzate da distanze “sovrabbondanti”. Si comincia con i 243 Km della tappa che dal litorale romagnolo porta sulle Dolomiti, da Lido delle Nazioni a San Martino di Castrozza, arrivo in salita pedalabile preceduto di una settantina di chilometri dal temuto Monte Grappa. A far paura, di quest’ultimo, non sono solo le pendenze del versante di Bassano ma, soprattutto, la discesa verso Caupo, nel 1982 ancora in gran parte sterrata. Corridore che poco ama i settori di pavè della Roubaix, come abbiamo ricordato in apertura, Hinault all’arrivo s’infuria con l’organizzazione per questa scelta, che fortunatamente non lo penalizza più di tanto, visto che al traguardo paga appena 6 secondi a Contini, mentre 24 secondi prima dell’arrivo del francese era giunto vittorioso al traguardo lo spagnolo Vicente Belda. Ma non osiamo immaginare la rabbia in corpo di Prim e Saronni, crollati sull’ascesa finale dopo un lungo e faticoso inseguimento al quale sono stati costretti dalle forature che la stradaccia del Grappa ha loro provocato: il corridore svedese buca due volte, ma peggio va a Beppe che sulla strada ha lasciato ben otto tubolari. I suivers con qualche primavera sulle spalle si saranno ricordati che proprio da quelle parti, nel 1964, si era disputata una tappa ancor più tremenda di questa quando, salendo verso il Passo di Croce d’Aune, si erano verificate ben 300 forature.
Il giorno successivo il percorso del Giro propone un’altra consistente mole di chilometri da percorrere, 235 Km per la precisione, per traslocare da Fiera di Primiero a Boario Terme, dove si giunge dopo esser saliti fino ai quasi 1900 metri del Croce Domini, interminabile ascesa di quasi 25 Km che qualche anno prima aveva visto in affanno un campionissimo del calibro di Eddy Merckx. Contini ci prova ancora ma stavolta non è da solo perché a dargli man forte ci pensano i compagni di squadra Prim e Baronchelli, un terzetto scatenato al quale si accodano altri corridori, tra i quali c’è Lucien Van Impe, lo scalatore belga che nel 1976 aveva vinto il Tour de France e che al traguardo si piazza secondo alle spalle del varesino. E Hinault affonda, giungendo al traguardo con un ritardo di 2’10” e senza più la maglia rosa, che ora Contini veste con un vantaggio quasi simile.
Ma il “blaireau” è nuovamente pronto a saltare fuori dalla sua tana, è veramente “incazzato” come i francesi cantati da Paolo Conte in “Bartali” e stavolta la sua vendetta non tarderà. Il giorno dopo Boario è prevista una breve tappa di montagna che non sembra particolarmente temibile per il nuovo capoclassifica. Si devono percorrere soli 85 Km da Pianborno a Montecampione, tutti in pianura fino ai piedi dell’ascesa finale, più breve rispetto a quella che vedrà Pantani stracciare Tonkov al Giro del 1998 perché nel 1982 non era stata ancora realizzata l’appendice che sale verso Plan. Basterà a Hinault per dare sfogo alla sua rabbia? Gli basta e gli avanza perché in soli 11 Km, quelli dell’ascesa finale, sgretola pian piano e con gli interessi il “tesoretto” di Contini, che forse paga lo sforzo profuso il giorno prima e all’arrivo si ritrova denudato delle insegne del primato. Hinault è primo al traguardo, Van Impe e Baronchelli gli sono dietro a pochi secondi ma non c’è con loro il varesino che avevano vittoriosamente scortato verso Boario e per il cui arrivo bisogna attendere quasi tre minuti e mezzo. Ora il bretone è tornato a issarsi al vertice della classifica e stavolta sarà difficile scalzarlo, visto che Contini è secondo a 1’41” e da qui a Torino, sede d’arrivo della tappa conclusiva, il percorso sembra strizzare l’occhio al francese più che all’italiano.
Annichilito dall’impresa di Hinault il gruppo s’accinge ora ad affrontare un paio di tappe di trasferimento senza troppe pretese, nelle quali i velocisti godono i favori del pronostico. A Vigevano, però, non sono tutte rose e fiori in casa Renault: si sorride nella compagine di Hinault per la vittoria di Robert Dill-Bundi, il corridore che era stato tra i protagonisti del giallo dell’assegnazione della maglia rosa in quel di Viareggio, e contemporaneamente si mugugna per l’indisciplina del pubblico, soprattutto dopo il brutto incidente in zona rifornimento occorso a un altro compagno di strada della maglia rosa, quel Becaas che si era imposto in fuga a Camigliatello e che oggi viene ricoverato in ospedale con una sospetta frattura cranica (che poi si rivelerà una lieve frattura alla tempia) dopo esser stato travolto da una donna in motocicletta dalle parti di Muggiò.
Dopo la tappa di Cuneo, vinta in volata da Moser, si arriva a quella che gli organizzatori avevano forse concepito come una delle tappe chiave della 65a edizione della Corsa Rosa, il tappone per antonomasia, la mitica Cuneo-Pinerolo. Ma di acqua ne è passata parecchia sotto i ponti dal 10 giugno del 1949, quando tra Maddalena e Vars, tra Izoard, Monginevro e Sestriere Fausto Coppi azzeccò quella che fu una delle più fantastiche imprese della sua carriera. Lo sterrato oramai ha lasciato spazio all’asfalto quasi ovunque e anche le migliorie apportate alla bicicletta, molto meno pesanti rispetto a quelle di 33 anni prima, hanno quasi azzerato le difficoltà tecniche di un tappone ancora forte di un chilometraggio di 254 Km e di un dislivello complessivo di quasi 8000 metri, come i giganti dell’Himalaya. Sarebbe bastato scartabellare tra gli ordini d’arrivo del Giro del 1964, quando la Cuneo-Pinerolo fu riproposta per la seconda volta nella storia, per rendersi conto che questo tracciato non aveva più il potenziale di una volta, in quanto vinse Franco Bitossi grazie ad una fuga solitaria di 120 Km nata sull’Izoard e 2 minuti l’arrivo del toscano si presentò al traguardo il gruppettino dei migliori di quell’edizione, con la maglia rosa Jacques Anquetil apparsa inattaccabile. Nel 1982 non ci sarebbe stato nemmeno l’uomo solo al comando perché sul rettilineo di Corso Torino arrivano a giocarsi la vittoria di tappa in undici, dopo gli inutili ed estremi tentativi di Contini sui colli: l’ultima Cuneo-Pinerolo della storia termina così in volata, con la terza affermazione in questa edizione di Saronni che precede Hinault e Prim.
Il francese intasca così anche l’abbuono per il secondo posto e ora non può che allungare ancora perché l’ultima tappa è una cronometro di 42.5 Km, quasi come una maratona. Bernard vuole vincere anche qua e lo fa, percorrendo la tratta Pinerolo-Torino in 51’14”, volando a 49.772 Km/h e distanziando di 10 secondi uno specialista del tic-tac come Moser, mentre Prim, 4°, fa meglio del compagno di squadra Contini per 19”, che gli bastano per farlo indietreggiare di una posizione sul podio finale. Hinault così vince il suo secondo Giro con 2’35” sullo svedese e 2’47” sullo scalatore varesino che tanto filo da torcere gli aveva dato.
Mauro Facoltosi
LE ALTIMETRIE
Mancano le altimetrie della 7a tappa (Castellammare di Stabia – Diamante) e della 13a tappa (Campitello Matese – Pescara). Della prima tappa è presente la sola planimetria






















1990, L’ASSOLO ROSA DI GIANNI BUGNO
Non vi lasceremo soli. Nel mese che sarebbe dovuto essere occupato dalle cronache e dalle magie del Giro d’Italia, ilciclismo.it vi accompagnerà alla scoperta di edizioni passate della “Corsa Rosa”, una selezione che inauguriamo con il Giro del 1990 vinto da Gianni Bugno. L’abbiamo scelto perché è grazie a quell’edizione del Giro, che il corridore monzese dominò in maglia rosa dalla prima all’ultima tappa, che il nostro direttore Mauro Facoltosi, che scriverà questi ricordi, si appassionò al ciclismo.
Iniziò eccezionalmente in un giorno feriale il Giro del 1990, il 18 giugno, un venerdì. Una data scelta apposta da Vincenzo Torriani per fare in modo che la “Corsa Rosa” tirasse idealmente la volata ai mondiali di calcio che quell’anno si sarebbero disputati in Italia: il Giro sarebbe, infatti, terminato a Milano il 6 giugno, un mercoledì, due giorni prima del fischio d’inizio della prima partita, che sarebbe stata giocata proprio nel capoluogo lombardo. La sede d’avvio era stata individuata in Bari, dove era in programma la “finalina”, mentre era esclusa dal percorso Roma, sede della finalissima, dove il Giro aveva fatto tappa l’anno prima, nel corso dell’edizione vinta da Laurent Fignon. Il francesino della Castorama è al via anche nel 1990 con il ruolo di grande favorito e trova sulla strada a sfidarlo il connazionale Charly Mottet, il bergamasco Flavio Giupponi e il monzese Gianni Bugno: il primo dei due azzurri aveva terminato da miglior italiano della classifica nei precedenti tre Giri d’Italia, una serie culminata con il secondo posto a 1’15” da Fignon l’anno prima; il giovane Bugno, invece, del quale si diceva un gran bene ma che nei primi anni da professionista non aveva colto grandissimi successi, si era sbloccato a marzo conquistando la Milano-Sanremo e ora era atteso alla conferma del suo valore. Nessuno, forse nemmeno lui stesso, si sarebbe aspettato un autentico dominio perché Gianni prenderà la maglia rosa alla prima tappa e la terrà sino alla fine, un’impresa che in precedenza erano stati in grado di compiere solo tre campioni (Girardengo nel 1919, Binda nel 1927 e Merckx nel 1973) e che in futuro nessun altro riuscirà a eguagliare. Da notare, infine, che in gara c’è anche Greg Lemond, che torna al Giro dopo l’esperienza vissuta nel 1986, quando aveva concluso la corsa in quarta posizione con 2’26” di ritardo da Roberto Visentini. A differenza di quel precedente, però, la sua sarà una presenza marginale in vista della partecipazione al Tour e lo stesso accadrà anche nel 1991.
L’atto d’apertura è una cronometro individuale di 13 Km, disegnata in andata e ritorno sul piatto lungomare di Bari con il traguardo fissato in Piazza della Libertà, dove Bugno fa registrare il tempo di 15’19” a una media di quasi 51 Km/h, distanziando di 3 e 9 secondi due specialisti delle cronometro del calibro del francese Thierry Marie e del polacco Lech Piasecki, mentre Fignon è 15° a 29”, Lemond 30° a 21” e Giupponi 41° a 45”.
Assegnata la prima maglia rosa, la corsa propone al secondo giorno di gara una delle frazioni più lunghe, 239 Km da Bari a Sala Consilina con il finale movimentato dalla pedalabile salita verso Sella Cessuta e dal morbido strappo di un paio di chilometri che termina sotto la linea del traguardo. Fignon medita il colpaccio e al traguardo volante di Matera, dove sono in palio abbuoni per la classifica, fa di tutto per portare nella miglior posizione il compagno di squadra Marie, che in classifica ha solo 3 secondi di ritardo da Bugno, ma il bergamasco Giovanni Fidanza, che corre in squadra con il monzese, subodora il pericolo, si butta nello sprint e ricaccia indietro Marie, che si ferma a un solo secondo dalla maglia rosa. Ma il vero capolavoro Fidanza lo compie nel finale, riuscendo a stoppare nientemento che l’assalto diretto di Fignon, imponendosi sul traguardo di Sala Consilina bruciando allo sprint proprio il transalpino.
Al terzo giorno di gara debuttano le montagne con l’arrivo in salita al Vesuvio, anche se si affronta solo parzialmente l’ascesa finale, complessivamente lunga quasi 13 Km. Se ne percorrono solo i primi 8.5 Km, che già bastano a Bugno per allestire un altro show: scatta sull’acciottolato all’uscita da Ercolano e giunge tutto solo al traguardo, 26” dopo l’arrrivo dello spagnolo Eduardo Chozas, mentre Fignon paga 36” al monzese, che ora in classifica comanda con 43” su Chozas.
La quarta tappa era stata inizialmente presentata in un’unica “soluzione” di 194 Km, poi si è stabilito di spezzarla in due frazioni all’altezza del traguardo volante Intergiro: si corre così una prima semitappa mattutina pianeggiante di soli 31 Km da Ercolano a Nola, dove tra i magazzini del CIS (Centro Integrato Servizi) inaugurato quattro anni prima s’impone allo sprint Stefano Allocchio, oggi dirigente di RCS Sport, il gruppo che organizza il Giro. I 164 Km pomeridiani verso Sora prevedono un altro piattone sino a una ventina di chilometri dal traguardo, quando l’altimetria propone la salita non troppo difficile verso Arpino, la cui pendenza media si mantiene sotto il 3%: i velocisti stavolta falliscono il bottino pieno per un’inezia perché appena un secondo prima del piombare del gruppo, regolato allo sprint da Adriano Baffi, avevano tagliato il traguardo l’australiano Phil Anderson e il francese Christophe Lavainne.
La successiva Sora – Teramo è la prima di tre insidiose frazioni appenniniche consecutive, una cavalcata che nel progetto originario doveva misurare 243 Km e proporre le ascese di Ovindoli e del Monte Capo di Serre. I “girini” si trovano, però, a gareggiare su di un percorso diverso, rimaneggiato da Torriani in quattro e quattr’otto a causa di una serie di frane che costringono l’organizzazione a sostituire in fretta e furia la seconda salita con il Passo delle Capannelle, senza aver il tempo di un adeguato sopralluogo sullo stato delle strade. Così la vittoria dopo una lunga fuga del toscano Fabrizio Convalle passa in secondo piano, soffocata dalle polemiche per la brutta caduta avvenuta in una buia galleria della discesa del Capannelle, che Bugno definirà “meno illuminata di una miniera”: qui finiscono a terra una ventina di corridori e tra questi ci sono Valerio Tebaldi, gregario del monzese che sarà costretto ad abbandonare il Giro con il bacino fratturato, e Fignon, che riporta ferite a glutei e schiena, dolorose al punto che gli faranno trascorrere la notte in bianco e che lo porteranno al ritiro qualche giorno più tardi.
Un’altra tappa da fughe va in scena l’indomani tra Teramo e Fabriano, 200 Km esatti che prevedono l’impegnativa ascesa al Sasso Tetto a metà tracciato e il corto Collegiglioni nel finale, ideale trampolino per un’azione a ridosso del traguardo. È proprio qui che si decide la frazione, con l’azione nel gruppo dei fuggitivi del giovane Luca Gelfi, con il quale rimangono Massimo Ghirotto e Anderson, battuti dal corridore lombardo sulla linea d’arrivo. Nulla cambia tra i primi della classifica, anche se permangono le preoccupazioni in casa Castorama per le condizioni di Fignon che, dopo la nottataccia, accusa un minuto di ritardo in cima al Sasso Tetto, svantaggio recuperato nel corso della successiva discesa.
Il trittico appenninico si conclude con una tappa di 197 Km che prevede il secondo arrivo in salita, ai quasi mille metri dell’abbazia di Vallombrosa. Si tratta di una salita double face, moderatamente impegnativa nella prima parte e molto più pedalabile nel finale, che prevede anche un lungo tratto in discesa in vista dello striscione dell’ultimo chilometro; è un altro palcoscenico che Bugno calca alla perfezione, attaccando quando si accorge che Fignon è in difficoltà e primeggiando ancora una volta, anche se con distacchi risicatissimi rispetto a quelli ottenuti sul Vesuvio: il russo Ugrumov gli è subito dietro, poi a 3” giungono i primissimi inseguitori, tra i quali c’è Mottet, il corridore che a questo punto Bugno indica come il suo più pericoloso avversario, mentre Fignon lascia per strada 1’18”.
Dopo l’interlocutoria Reggello – Marina di Pietrasanta, terminata con il secondo successo allo sprint di Allocchio, c’è spazio ancora per un’ultima tappa disegnata sugli appennini, la più insidiosa di tutte perché nei 176 Km da pedalare tra La Spezia e Langhirano sono state inserite salite impegnative come il Passo di Lagastrello e il poco conosciuto Valico di Fragno. Ci si mette anche il maltempo a complicare la giornata e a un certo punto arriva la notizia bomba: Fignon non ce la fa più, il transalpino si ritira nel corso della discesa dal Lagastrello, dopo aver sofferto come un cane in salita e aver accusato quasi 5 minuti di ritardo quando al traguardo mancano ancora 130 Km. Anche Bugno rischia a causa di un attacco promosso nella nebbia da un gruppetto il cui elemento più pericolo è Chozas: lo spagnolo a un certo conquista la maglia rosa virtuale, ma poi si “spegne” con il passare dei chilometri mentre uno dei componenti del gruppetto all’attacco, Volodymyr Pulnikov, vola a conquistare il successo di tappa, il primo di un corridore russo al Giro d’Italia.
Davanti a Bugno, che a questo punto ha un vantaggio di 1’24” sul secondo (il polacco Joachim Halupczok, che morirà prematuramente nel 1994), c’è ora una delle tappe più temute del Giro 1990, un’interminabile cronometro di quasi 70 Km che scatta dal medioevale castello di Grinzane Cavour per concludersi nel cuore di Cuneo. Anche su questo tracciato Bugno “saccagna” la concorrenza, ma l’esito finale ricorda quello del Vesuvio poiché, mentre tutti gli altri accusano pesanti distacchi (lo specialista del tic-tac Piasecki è 3° a 51” dal monzese, l’avversario dichiarato Mottet perde quasi un minuto e mezzo), Gianni si vede precedere – anche se per soli 6 secondi – da un corridore che aveva fatto meglio di lui, quel Gelfi che qualche giorno prima si era imposto a Fabriano e che oggi ferma i cronometri sul tempo di 1h31’46”, pari a una velocità media di quasi 44.5 Km/h. Ora sembra quasi impossibile contrastare il primato di Bugno, che in classifica ha poco più di 4 minuti di vantaggio sui corridori a lui più prossimi, Marco Giovannetti e Mottet.
Dopo la lunga tappa di trasferimento verso Lodi, che vede Adriano Baffi sprintare vittoriosamente, arriva il momento di misurarsi sulle salite alpine, che debuttano con la Brescia – Baselga di Pinè, frazione che prevede a una quarantina di chilometri dal traguardo l’impegnativa ascesa del Vetriolo, teatro di una cronoscalata al Giro di due anni prima. Laddove Andrew Hampsten si era imposto consolidando quella maglia rosa che aveva conquistato nel tremendo tappone del Gavia innevato, stavolta ci prova Mottet assieme ai connazionali Gérard Rué e Éric Boyer, ma Bugno non si fa trovare impreparato e rimane con loro, concedendo solo un margine di una trentina di secondi all’innocuo Boyer, che va a cogliere il successo sul traguardo trentino.
Il sipario torna ora a levarsi sui velocisti, ai quali strizzano l’occhio le due successive frazioni, a cominciare dalla lunga Baselga di Pinè – Udine che si conclude con la vittoria di Mario Cipollini, alla sua seconda affermazione sulle strade della Corsa Rosa dopo quella conseguita l’anno precedente a Mira. Non è così, invece, nell’unica frazione del Giro disegnata fuori dai confini nazionali, nonostante la facilità del circuito austriaco di Klagenfurt: sono ancora i fuggitivi a godere e il godimento è pieno per l’australiano Allan Peiper, che sul traguardo carinziano ha la meglio sul francese Pascal Poisson.
Dall’austriaca Velden si riparte con un tris di tapponi che proporranno in tutto 15 salite chiamate a decretare il nome del vincitore della 73a edizione della corsa rosa. Il primo di questi è il meno adatto agli scalatori a causa della non trascurabile distanza che separa le cime dei colli dal traguardo di Dobbiaco, dove si giunge dopo esser saliti sui passi di Monte Croce Carnico, di Sella Valcalda, della Cima Sappada (sul quale è ancora fresco il ricordo del tradimento di Stephen Roche ai danni di Roberto Visentini al Giro di tre anni prima) e di Monte Croce Comelico. Infatti, mentre Boyer va in fuga assieme ad altri nel finale e ottiene un prestigioso bis, oggi non c’è battaglia tra i big, tutti assieme al traguardo, tutti attenti a non sprecare preziose energie in vista del più succulento tappone previsto per il giorno successivo.
È un giorno storico perché per la prima volta il Passo Pordoi non è semplicemente GPM di passaggio ma ospita l’arrivo di tappa, 171 Km dopo la partenza da Dobbiaco e aver affrontato strada facendo il Passo Valparola, il Gardena, il Sella e una prima scalata al Pordoi, al quale si fa ritorno dopo esser saliti sulla tremenda Marmolada, la salita più dura del Giro 1990. È il giorno della consacrazione, se ancora ce ne fosse stato bisogno, di Bugno e del suo degno avversario: sulla Marmolada davanti rimangono solo loro due, che giungono assieme al traguardo dove Gianni finge una noia al cambio per rallentare e lasciar transitare per primo Mottet.
Ci sarebbe ancora una tappa di montagna da affrontare ma pare quasi impossibile, a questo punto, immaginare un crollo di Bugno nella Moena – Aprica, tappa che prima dell’arrivo in salita propone Costalunga, Mendola, Tonale e Mortirolo. È la prima volta che il passo valtellinese viene inserito nel percorso del Giro ma il tremendo versante di Mazzo è previsto in discesa dopo esser saliti da Edolo, con non pochi timori da parti di tutti, in prima battuta gli organizzatori che hanno predisposto un servizio di compressori per spazzare via dalla strada gli aghi caduti dai pini, che avrebbero potuto sollevarsi a causa dello spostamento d’aria provocato dal gruppo e finire negli occhi di qualche corridore. Mentre dietro non c’è praticamente corsa tra i big, davanti si laurea primo signore del Mortirolo il venezualeno Leonardo Sierra, che stacca i compagni di fuga e s’invola solitario nella discesa verso Mazzo, che lo terrorizza al punto da consigliargli, dopo un paio di cadute, di scendere di bici e percorrerne i tratti più scoscesi a piedi, espediente che gli consente comunque di imporsi all’Aprica con quasi un minuto di vantaggio su Alberto Volpi.
Il Giro è agli sgoccioli e dopo la facile tappa di Gallarate, che vede Baffi mettere nuovamente la propria ruota davanti a quelle degli altri velocisti rimasti in gara, si disputa al penultimo giorno di gara l’ultima delle tre cronometro inserite nel programma. Sono 39 i chilometri che si devono percorrere per andare da Gallarate al Sacro Monte di Varese, una distanza che Bugno potrebbe percorrere in scioltezza perché, a questo punto, nessuno può impensierirlo. Ma la maglia rosa vuole darà un’altra lezione di grande ciclismo, nonostante il diluvio che accompagna incessante l’intera giornata: mentre Gino Bartali lo consacra suo erede Gianni vola anche oggi, vuole vincere per tutti i tifosi che hanno sfidato il maltempo rischiando l’influenza e vince alla grande, impiegando poco più di 58 minuti per percorrere un tracciato che prevedeva anche una salita finale di 5 Km, distanziando di un minuto e venti secondi il secondo classificato, l’inossidabile spagnolo Marino Lejarreta, corridore in grado di disputare nel medesimo anno tutti e tre i grandi giri portandoli a termine (ricordiamo che all’epoca la Vuelta si disputava in aprile) ed è quel che fece nel trienno 89-90-91.
Arriva così il giorno della definitiva consacrazione di Bugno nell’albo d’oro, subito dopo la conclusione del Giro a Milano, dove si gareggia sull’inedito circuito del Parco Sempione, proposta per la prima volta proprio in questa edizione e che viene inagurato dallo sprint vincente di Cipollini. Per Bugno è un trionfo con la T maiuscola: il secondo, Mottet, ha un passivo di 6’33”, il terzo è Giovannetti a 9’01” mentre a chiudere la top ten è l’eroe del Mortirolo Sierra, 10° con 19’12” di ritardo
Mauro Facoltosi
LE ALTIMETRIE

Altimetria originaria 5a tappa

LIEGI 1982, IL “BLITZ” DI CONTINI
I nostri racconti oggi ci portano sulle strade della Liegi del 1982, vinta dall’italiano Silvano Contini. E saranno le parole dello stesso Contini a riportarci a quella domenica pomeriggio di 38 anni fa
Nella seconda metà degli anni ‘70 i pomeriggi televisivi domenicali erano caratterizzati da due programmi-contenitore che si dividevano l’audience sulle due reti Rai allora esistenti.
Aveva cominciato Renzo Arbore nella primavera del 1976 con “L’altra domenica”, trasmessa sulla Rete 2 (l’odierna Rai 2); e la prima rete, nell’autunno dello stesso anno, aveva risposto con “Domenica in”, allora condotta da Corrado.
Noi, ragazzi degli anni settanta, seguivamo il programma dello showman pugliese, innovativo, divertente e scapigliato, al cui interno venivano trasmesse le dirette dei più importanti avvenimenti sportivi.
Durò fino al ‘79 quella trasmissione e, due anni dopo, il testimone venne preso da Gianni Minà il quale legò il suo nome alla conduzione di “Blitz”, un programma che, mescolando spettacolo e sport, si caratterizzava per puntate monotematiche, con interviste a personaggi famosi, com’era nello stile di quel giornalista.
Ricordo che una volta si collegò con il set di “C’era una volta in America”, intervistando Sergio Leone e Robert De Niro.
Nelle domeniche di Aprile era grande l’attesa per il collegamento in diretta con le classiche del Nord e i primi due successi di Moser alla Parigi – Roubaix vennero celebrati proprio nell’ambito della trasmissione di Arbore.
Domenica 11 aprile 1982, giorno di Pasqua, era in programma la Liegi-Bastogne-Liegi. Non la vincevamo da diciassette anni quella corsa e le nostre speranze – assente Moser – erano affidate a Saronni, a Visentini e a Contini.
Gianni Minà, quel pomeriggio, si collegò dal circo Orfei, una location inedita e suggestiva.
Non ricordo, in verità, se durante la trasmissione – tra un’ intervista a Nando Orfei ed una a Federico Fellini – venne aperta una finestra sulla corsa. Ricordo, però, che mi stupii non poco che non venisse ceduta la linea a De Zan per le fasi finali.
Improvvisamente, però, Minà annunciò: “Linea a De Zan!” e sullo schermo apparvero le immagini del traguardo, con un corridore che alzava le braccia al cielo sotto lo scriscione e l’urlo di Adriano “ Contini!!!!!”, proprio mentre il nostro connazionale tagliava vittorioso la linea d’arrivo della Doyenne.
Poco dopo, fine della diretta e ritorno al circo Orfei: la telecronaca più breve nella storia delle televisione italiana!
Di quella Liegi, di quello che non vedemmo alla televisione, ne abbiamo parlato proprio con Silvano Contini, indimenticato protagonista del grande ciclismo per oltre un decennio (dal 1978 al 1990), che con straordinaria disponibilità ha aperto il baule dei ricordi.
“Avevo partecipato all’edizione del 1980 in una giornata da tregenda. Nonostante fosse il mio esordio alla Doyenne restai con Hinault sino ad una quindicina di chilometri dal traguardo, poi fui vittima di una crisi di fame. Riuscii comunque a concludere la corsa quel giorno e a classificarmi al dodicesimo posto. Arrivammo in pochissimi, al traguardo: 21 corridori su 174 partiti”.
Silvano Contini è un vero gentiluomo: aveva un sorriso accattivante quando correva e, a sentirlo parlare, è facile immaginare che stia sorridendo anche dall’altro capo del telefono, mentre ci racconta di quella trasferta sulle strade del Nord, nella primavera dell’82.
“Quell’anno partecipai alla Gand-Wevelgem, arrivando nei primi dieci. Poi ci fu la vittoria alla Liegi e la settimana successiva presi il via anche alla Parigi – Roubaix. Fui particolarmente sfortunato, in quell’occasione: ero con Moser e De Vlaeminck ma forai due volte e dovetti abbandonare i sogni di gloria”
Ritorniamo a quella Liegi, Silvano. Com’erano le condizioni atmosferiche? Perché tu, con il brutto tempo, andavi bene.
“Si, il brutto tempo mi esaltava. Quel giorno faceva freddo e non mancò, oltre alla pioggia, neppure la grandine a farci compagnia!”
Le cronache raccontano di una lunga fuga di due comprimari, mentre si registravano i ritiri di Hinault, Raas, Saronni, Knetemann, Maertens, Panizza e Visentini. Poi, ad una quarantina di chilometri dall’arrivo, si formò una pattuglia di undici corridori: Contini , Prim, De Wolf, Criquielion, Grezet, Roche, De Vlaeminick, Van der Velde e Willems. Quale fu il momento decisivo della corsa?
“Eravamo sulla Redoute quando Criquielion accese le ostilità. Allo scatto del belga rispondemmo in tre: io, lo svizzero Mutter e Fons De Wolf, con il quale avevo un conto aperto”
Cos’era successo tra te e il belga?
“Alla Sanremo del 1981 De Wolf scattò sul Poggio. Io non mi feci sorprendere e cercai di prendergli la ruota. Ero a non più di dieci metri da lui, sul falsopiano, e sono convinto che l’avrei certamente raggiunto se non ci fosse stata di mezzo una moto belga. De Wolf ne sfruttò la scia e per me non ci fu nulla fare. Andò a vincere quella Sanremo, ma quella vicenda mi bruciava ancora”
Un motivo in più. dunque, per pareggiare il conto. Ci fu collaborazione tra i quattro attaccanti?
“Direi di si. Io avevo collaborato sino a sette-otto chilometri dal traguardo, poi mi risparmiai per la volata” .
Vi presentaste in quattro sul rettilineo finale. Tu fosti guardingo e furbo allo stesso tempo. Prendesti la ruota di De Wolf e lo passasti a pochi metri dalla linea d’arrivo. Pensavi di farcela? Non temevi per i crampi?
“No, mi sentivo bene ed ero fiducioso. Anche perchè nelle volate ristrette, di tre o quattro corridori, mi sentivo a mio agio, sapevo amministrarmi bene in quelle situazioni di gara non mi mancava lo spunto veloce. Ricordo che una volta, al Trofeo Matteotti, riuscii a battere pure un velocista come Gavazzi”
E quel giorno, a Liegi, mettesti la tua ruota davanti a quella di De Wolf. Grande vittoria e grande considerazione per te: Hinault, nei giorni successivi, ti avrebbe indicato come l’avversario più ostico per il Giro d’Italia che sarebbe partito da lì a poco.
“Con Hinault c’è stata amicizia, che dura tuttora. Era un grande campione che sapeva farsi benvolere, non voleva vincere tutto lui. Cercava amicizie nel gruppo. Al Lombardia del 1979 io sono stato alla sua ruota negli ultimi venti chilometri. Poteva staccarmi con un niente, invece avevo collaborato in precedenza e sono stato graziato. E così arrivai secondo”
A Liegi c’era anche Tommy Prim, tuo compagno di squadra, che regolò in volata il gruppetto dei battuti.
“Con Prim ho sempre avuto un ottimo rapporto, che conservo tuttora. L’ho visto l’ultima volta nell’ottobre scorso e l’ho sentito recentemente. Fino ad una decina di giorni fa mi diceva che usciva regolarmente in bicicletta. Poi anche in Svezia la situazione è peggiorata”
Il 1982 fu indubbiamente l’anno migliore della tua carriera. Quel Giro d’Italia che poteva essere tuo ed il terzo posto nella classifica finale del Superprestige Pernod ti avevano consacrato tra i migliori corridori nel panorama ciclistico internazionale. Nei due anni successivi, invece, la tua carriera subì un rallentamento. Come mai?
“Nel 1983 Gibì Baronchelli cambiò squadra e la Bianchi reclutò De Wolf. Fu una scelta sbagliata, secondo me, perché si formò un clan belga e l’ambiente si deteriorò. La mancanza di serenità all’interno del team ebbe il suo peso. Peccato, perché la Bianchi avrebbe potuto valorizzare Prim, un campione che aveva in casa“
Ed infatti nell’85, quando passasti all’Ariostea, tornarono i risultati degli anni migliori: il Midi Libre, il Tour de l’Aude , la Coppa Placci… Tu corresti sino al 1990 ed avesti la soddisfazione di indossare nuovamente la maglia rosa nel 1989. Avevi mai pensato di restare nel mondo del ciclismo?
“Quando ho smesso di correre ho staccato con il ciclismo e mi sono dedicato all’attività di famiglia (la falegnameria Prandi e Contini, che oggi produce infissi e serramenti di qualità, ndr). In verità alla fine del 1990 si era parlato di una nuova squadra, sponsorizzata dalla Irge: Bugno sarebbe stato il leader ed io il direttore sportivo, ma non se ne fece nulla”
Qualche uscita in bicicletta te la concedi ancora?
“Non in maniera assidua. Una volta ho partecipato ad un’edizione dell’Eroica. Due volte al mese esco in bicicletta con Beppe Saronni, che ha una casa dalla mie parti. Ci lega una vecchia amicizia ed un carattere simile: siamo schivi, due tipi casalinghi“
In effetti non ti si vede sui palchi delle grandi corse.
“Sai, Sono sempre stato un tipo riservato, che non ama la luce dei riflettori”
Eh, già! Sapevamo che Contini era un campione anche di modestia e di riservatezza, Quando passò professionista si era appena diplomato ragioniere e questa circostanza veniva sempre sottolineata da De Zan, durante le interviste.
“Riuscivo a conciliare studio e allenamenti, anche se non era facile. D’altra parte i miei genitori non mi avevano dato scelta: o finisci la scuola o smetti di correre,mi dicevano! Ricordo che alla vigilia dell’esame di maturità vinsi la mia prima corsa tra i dilettanti, una corsa internazionale. L’indomani mostrai l’articolo pubblicato sulla Gazzetta dello Sport al mio professore di diritto, il professor Salvi, appassionato di ciclismo. E passai la maturità”, ridacchia Silvano.
Quest’anno la Liegi non si correrà A distanza di trentotto anni dalla tua vittoria, qual è il ricordo più intenso di quel giorno?
“Senz’altro l’entusiasmo indescrivibile dei tantissimi italiani presenti, emigrati in Belgio a cercare lavoro, che mi festeggiarono con un calore commovente. Per loro fu motivo di orgoglio che un corridore italiano avesse sconfitto un campione belga . L’indomani, sui posti di lavoro, avrebbero potuto “sfottere” i colleghi del Paese che li ospitava”
Erano passati diciassette anni dalla vittoria di Carmine Preziosi.
“Ma Preziosi era naturalizzato belga! In effetti fui io il primo italiano a vincere la Liegi. Ed ho aperto la strada a tanti altri successi azzurri, da Argentin in poi .”
E questo è l’unico momento in cui Silvano abbandona – finalmente – la sua modestia per rivendicare con orgoglio quella straordinaria vittoria, la più importante di una carriera impreziosita da quasi cinquanta successi.
La televisione, quel giorno, lo scippò – incredibilmente – della gloria: per noi, che alla Cuneo- Pinerolo dell’82 lo avremmo applaudito sul Sestriere mentre, digrignando i denti, portava l’ultimo isperato assalto al primato di Hinault, Silvano Contini resta uno dei campioni più apprezzati della nostra giovinezza. È un nostro coetaneo e parlare con lui è stato come chiacchierare con un vecchio compagno di scuola di cui non avevamo dimenticato la simpatia, la gentilezza ed anche la grinta, quando serviva: proprio come quella volta a Liegi, in una domenica di primavera dell’82.
Mario Silvano

LE QUATTRO LIEGI DI VALVERDE – PARTE SECONDA (con il ricordo di Scarponi)
Concludiamo la rassegna sulle quattro Liegi-Bastogne-Liegi vinte da Alejandro Valverde. Oggi vi riproporremo le cronache del 2015 e del 2017, l’ultima delle quale scritta a poche ore dalla drammatica scomparsa di Michele Scarponi
VALVERDE, SONO TRE! (2015)
Se vincere la Liegi-Bastogne-Liegi è in assoluto un’impresa notevole, vincerla da favorito unico, pedalando per 253 km con un bersaglio sulla schiena, è qualcosa di eccezionale; e proprio di questo è stato capace Alejandro Valverde, al termine di una gara in cui ogni avversario era partito con il preciso intento di non portare il murciano allo sprint. Troppo forte l’ex Embatido, e forse troppo poco creativi i rivali, disabituati ormai a correre all’attacco, perlomeno quando il termine “attacco” indica qualcosa di diverso da una girandola di allunghi senza pretese negli ultimi 20 km. Unica eccezione la Astana di scuola Vinokourov, la cui enorme intraprendenza non è stata tuttavia supportata da altrettanta brillantezza degli interpreti.
Sono stati proprio i kazaki, freschi di conferma della licenza, ad infiammare la corsa, peraltro con largo anticipo sulle più ottimistiche tabelle di marcia: già sullo Stockeu, a quasi 80 km dal traguardo, dopo aver contribuito a ridurre ad un pugno di secondi il vantaggio della fuga della prima ora di Ulissi, Montaguti, Vergaerde, Chevrier, Minnaard, Turgis, Benedetti e Quaade, gli uomini di Nibali hanno mandato in avanscoperta Tanel Kangert, scatenando un florilegio di reazioni forse neppure immaginato. Guidati da Izagirre, infatti, non meno di una ventina di corridori si sono riportati sull’estone, con un’altra decina di elementi a poca distanza, dando per un attimo l’impressione che la corsa potesse impazzire.
Il solito, fatale istante di incertezza – sulla falsa riga di quello che a Ponferrada frenò la possibile maxi-fuga promossa dall’Italia a due terzi di corsa – ha però consentito ad un plotone ad un tratto spaesato di riparare il danno, concedendo via libera soltanto al ben più gestibile quintetto lanciato di lì a poco ancora da Kangert, al quale si sono accodati Chaves, Arredondo, Boaro e Scarponi.
I due Astana, chiamati dalla superiorità numerica a svolgere la maggior parte del lavoro, hanno seminato Boaro e Arredondo già sul Rosier, fino a dilatare il margine sul gruppo ad un massimo di 1’05’’. Con l’avvicinarsi della Redoute, Movistar e Katusha hanno provveduto a riportare il distacco intorno ai 20’’, senza rallentare nemmeno quando una maxi-caduta ai 40 dall’arrivo ha spezzato il plotone ed escluso dalla contesa nomi del calibro di Rolland, Roche, Gerrans (già acciaccato) e – soprattutto – Daniel Martin. Nibali ha evitato miracolosamente di restare coinvolto, frenando all’ultimo centimetro utile; un contrattempo costato qualche secondo – recuperato comunque in pochi chilometri – e forse anche un rinvio del successivo assalto Astana.
Com’è ormai consuetudine, il passaggio sulla Redoute è stato svilito da un gruppo transitato a ritmo di transumanza, che soltanto in cima è stato scosso dal tentativo di Siutsou, durato giusto il tempo necessario ad un primo piano in diretta tv. Scarponi e Chaves, sbarazzatisi di un esausto Kangert ai piedi dell’ascesa simbolo della Doyenne, non hanno potuto comunque resistere più di qualche chilometro ancora, permettendo al gruppo di presentarsi compatto ai piedi della Roche-aux-Faucons.
La salita cara ad Andy Schleck, solito infiammare qui la corsa nei suoi giorni di gloria, si è questa volta dovuta accontentare di assistere all’attacco di due outsider – sia pur di lusso – quali Kreuziger e Caruso, osservati da un gruppo ancora pressoché inerte. Soltanto nel successivo tratto di falsopiano la Astana, dopo aver inutilmente tentato di riportare tutti sotto con uno stracotto Taaramae, ha ridato fiato al suo piano tattico, spedendo Fuglsang in caccia del duo di testa. Con una notevole progressione, il danese è riuscito a trasformare la coppia in un trio, e chissà quale fisionomia avrebbe potuto assumere la corsa se un quintetto di contrattaccanti composto da Rui Costa, Bardet, Visconti, Moreno e Alaphilippe, non avesse mancato l’aggancio per un pugno di metri, prima che il marcamento reciproco portasse al naufragio l’azione.
Grazie ad un superlativo Stybar, i favoriti hanno potuto approcciare il Saint-Nicolas con un distacco di appena una decina di secondi dal terzetto di testa, prontamente azzerati da una progressione dimostrativa di Valverde e da un’ugualmente inefficace azione di Nibali, che in quel frangente produceva tuttavia il massimo sforzo. Henao e Caruso hanno a loro volta provato a scremare i resti del gruppo, riuscendo a far fuori un paio di grossi calibri (Gilbert e Kwiatkowski, oltre a Nibali, successivamente rientrato in vista dell’ultimo chilometro), ma non a promuovere un attacco degno di tale nome.
Caruso (nessuna omonimia: sempre Giampaolo, oggi inossidabile) si è incaricato di portare tutti assieme sotto lo strappo finale di Ans, dove Dani Moreno ha provato a giocare d’anticipo, con Joaquim Rodriguez ad incollarsi alla ruota di Valverde per chiudere il murciano in una tenaglia. Qui, però, Valverde – tante volte deriso con pieno merito per la sua insipienza tattica – ha messo in piedi un capolavoro strategico: anziché chiudere subito su Moreno, esponendosi a probabilissimi scatti in contropiede, ha atteso qualche centinaio di metri, inducendo addirittura a credere che le gambe lo avessero abbandonato sul più bello; soltanto in un secondo momento è arrivata la reazione, e quando Moreno è stato finalmente riassorbito, in vista della curva a sinistra che l’anno scorso costò la gara ad un altro Daniel (Martin), lo spazio per anticipare la volata era ormai esaurito.
Nello scenario per lui ideale, Valverde non ha tradito, mangiandosi facilmente i rivali di Firenze, Rodriguez e Rui Costa – 3° e 4° rispettivamente -, e trovando ancora in Alaphilippe, già secondo mercoledì alla Freccia e settimo all’Amstel, l’avversario più credibile, capace di una piazza d’onore alla Liegi prima dei 23 anni. Kreuziger ha trovato ancora la forza di guadagnarsi un ottimo 5° posto, mentre Pozzovivo provvedeva a piazzare il tricolore italiano in top 10, sia pur con un’ottava piazza che non può soddisfare fino in fondo.
Con il senno di poi, è fin troppo facile immaginare quali accorgimenti tattici da parte degli avversari avrebbero potuto complicare la vita a Valverde, messo davvero sotto pressione soltanto negli ultimi 20 km, e secondo piani strategici di facile lettura. La sensazione di generale mancanza di forze che ha destato la scalata al Saint-Nicolas e la disarmante progressione finale dello spagnolo, tuttavia, autorizzano a credere che i rivali, quest’oggi, potessero soltanto scegliere come farsi battere.
Matteo Novarini
MESTA LIEGI: ADDIO MICHELE (2017)
È uno strazio pensarci ora, ma Michele Scarponi è stato – anche – il miglior corridore italiano per la Liegi fra tutte le generazioni successive all’epoca dorata dei Bettini, Rebellin e Di Luca. Con la solita umiltà sorniona, non ha mai strombazzato la propria solidità nella decana delle Classiche, quella che sa sorridere anche agli scalatori ma solo se se dotati di guizzo, intuito e classe: ha sempre coltivato in modo quasi intimo una storia d’amore personale con la severa signora belga, sfiorando il podio all’esordio, un neoprofessionista di appena ventitré anni col completo zebrato della Domina, e di nuovo quando fu quinto dieci anni dopo, all’ultima stagione in Lampre, non mancando di intascare nel frattempo un altro paio di top ten. I Gasparotto o Nibali, invece, pur avendo dato una più netta impressione di poter agguantare la vittoria, non han brillato che per un paio di stagioni su queste strade. Il ricordo più recente e indelebile è quello di Scarponi che nel 2015 scala la leggendaria Redoute in testa alla corsa, mezzo minuto davanti al gruppo, con il giovanissimo e talentuoso Chaves in scia. Stava lavorando in funzione del capitano Fuglsang, oggi in lacrime alla partenza, ma quell’istantanea di Michele che scollina davanti a tutti sulle rampe del mito è un piccolo regalo che si fece e ci fece: proprio oggi acquista una rilevanza speciale.
È bello allora che arrivi qui il primo di una serie di omaggi a Michele Scarponi da parte dei suoi amici nel mondo del ciclismo, e la parola “amici” per una volta non sembra abusata come troppo spesso accade: Valverde, vincitore con gli indici e lo sguardo puntati al cielo, stenta a parlare nell’intervista, rifiuta come prima domanda di commentare il finale di gara e impone, anzitutto, il ricordo commosso, con la voce rotta e gli occhi rossi di pianto, del collega italiano e della famiglia di questi, a cui devolverà il premio.
Lo sprint folgorante di Valverde, a conclusione di una progressione che sgretola e spazza via la concorrenza, è uno dei pochi gesti tecnici che danno lustro a una giornata a cui, oggi, non ci sentiamo di rimproverare il solito, oppressivo grigiore e l’andamento mesto, contratto, come di chi corra con il cuore in un pugno. Sembra ormai questo il destino costante della Liegi, in attesa di novità che la ravvivino, però, solo per quest’anno, è davvero già molto riuscire a trovare la voglia di correre, spingere, scattare, soffrire.
Poche note di cronaca. La fuga del mattino dilaga, ma si sfalda sulla Rocca dei Falchi nonostante i sussulti finali dell’indefessa coppia Cofidis con Rossetto e Perez. Dietro bisogna aspettare il Maquisard affinché prenda corpo una mossa robusta, con in luce gli ottimi De Marchi, Brambilla e Benedetti rodando i motori per il Giro, assieme a nomi noti come Latour o Betancur, che fa respirare i suoi compagni Movistar fino ad allora in testa al gruppo, o la coppia Dimension Data di Fraile e Haas. La Redoute però, invece che spaccare la corsa, la rimpasta, con le trenate di Sebastian Henao e Kreuziger che ricuciono i distacchi. Eccoci alla Rocca dei Falchi dove ci prova l’altro Henao, il più forte Sergio Luis, con Kreuziger stavolta più aggressivo che difensivo. La testa del gruppo si rimescola con gli abituali giri di mano che vedono gruppetti diversi provare a sganciarsi tra scatti e controscatti – tutti piuttosto timidi, invero – finché non se ne va un’altra buona azione con il sempre coraggioso Tim Wellens a fare la parte del leone, più di nuovo un paio di italiani, Villella che scorta il suo capitano Woods, e Damiano Caruso che sembra pensare soprattutto ai suoi capitani belgi rimasti in gruppo, Van Avermaet e Teuns. Ci sono anche l’assatanato Kreuziger e la promessa Sam Oomen (oltre a Vuillermoz e Konrad).
La Sky è rimasta fuori dal mazzo e si incarica dunque di menare le danze dietro, levando le castagne dal fuoco a un Valverde provvisoriamente a corto di compagni. Moscon, il trentino 23enne che già fu splendido alla Roubaix, viene speso in un’infinita menata da mulo che smonta le velleità degli attaccanti, dei quali si rilancia in avanti solo l’indomito Wellens, senza che però il suo vantaggio faccia mai sperare che possa superare il Saint-Nicolas, la salita degli italiani che ci introduce al gran finale. Fedele al suo nome, la côte tra le case di mattoni imbruniti si apre e si chiude con begli spunti italici: il primo è ancora Villella, che allunga fluido, e viene agguantato solo dalla duplice fucilata di Sergio Henao e Albasini, ansiosi di anticipare. Il gruppo si ricompatta grazie all’intensità di Ion Izagirre altro gregario più o meno involontario di Valverde (in Movistar l’anno scorso, ma ora sarebbe pure capitano in casa Bahrein-Merida!): tuttavia prima che spiani l’ultimo metro del Saint-Nicolas squilla di nuovo un acuto italiano, con Formolo che allunga decisissimo e prende il largo, mentre dietro si tentenna.
Formolo regge bene sui saliscendi infarciti di sanpietrini, ma lo strappo finale di Ans incombe: il primo allungo è di Fraile, ma le polveri sono bagnate da quella fuga di tanti km fa.
Al fulmicotone la sparata di Daniel Martin ai -800 metri dal traguardo, lui sì prende il largo e dribbla Formolo in scioltezza: dietro però è l’Orica che s’incarica di tirare il guinzaglio, peraltro con un’azione confusa in cui non è chiaro se Adam Yates e Albasini collaborino o pensino ciascuno a sé – l’impressione è che entrambi pensino a Valverde, finiranno infatti settimo e ottavo. Quando Valverde innesca la sua progressione, lo sparpaglìo è graduale ma inesorabile, la lunga fila indiana di una ventina di uomini che serpeggiava per le vie delle periferie belghe si sbriciola, perdono le ruote i Bardet, i Majka, i Van Avermaet, mentre Valverde piomba su Daniel Martin come il falco su un coniglio, rifiata in curva, riapre il gas in piena spinta ma in appena pochi metri già capisce di aver schiantato tutti e con ampio anticipo si rialza, leva gli indici, guarda lassù, oltre il cielo di polvere e limatura, lasciandosi alle spalle gli affanni di Martin ancora secondo, di Kwiatkowski in rimonta affannosa, di Matthews che sprinta forte in salita dopo aver sgomitato sorprendentemente sulla Redoute, di Izagirre indomito, e poi tutti gli altri. Pozzovivo dodicesimo, primo degli italiani nell’ordine d’arrivo, ma il primo italiano, oggi, passava il traguardo con Valverde.
Comunque Scarponi oggi sarebbe stato contento dell’azzardo e della smorfia sofferta di Formolo, delle sortite di Villella, delle puntate offensive in funzione dei capitani fatte da De Marchi, Brambilla o Caruso, di Moscon duro, umile e fedele, del proprio capitano di anni anteriori Fuglsang, che arriva a dieci secondi dopo una gara cominciata con un pianto a dirotto ma altresì del compagno e collega Cataldo che, già distrutto emotivamente al via, non ce l’ha fatta a finire.
Eppure, va detto, questa corsa da italiani vede gli italiani anche se degnissimi sempre più outsider e gregari. Forse c’è un qualche rapporto con il calo di oltre il 40% dei km in bici percorsi all’anno per abitante, in Italia rispetto al 1997, vent’anni fa, quando Michele era juniores?
Michele Scarponi fu tra i primi e più entusiasti professionisti a sostenere, l’iniziativa #salvaiciclisti, innescata ormai cinque anni fa. Da allora i ciclisti morti in Italia hanno superato i milleduecento. Michele è uno fra le centinaia di ciclisti che ogni anno vengono ammazzati sulle strade italiane, chi per lavoro – come nel suo caso, o di chi in bici ci va in fabbrica o in ufficio – chi per il puro piacere di spostarsi senza rumore e inquinamento. Non credete a chi dice che è perché la bici è intrinsecamente pericolosa: la straripante maggioranza delle morti è causata da un veicolo a motore. Non credete a chi dice che non potrebbe essere diversamente, perché le strade sono fatte per le automobili: negli altri Paesi europei la situazione è ben diversa rispetto all’Italia. In Francia, dove il ciclismo, numeri alla mano, si pratica quanto in Italia, i morti si attestano intorno ai 150 all’anno. La media italiana dal 2001 al 2015 è di 300.
L’Italia è di gran lunga il Paese con la peggior combinazione di pratica ciclistica relativamente moderata e gran numero di morti: la Polonia, con cui ci disputavamo il poco ambito trofeo, ha rivoluzionato la propria sicurezza stradale nell’ultimo quinquennio. La Spagna, vent’anni fa uno dei Paesi meno pedalatori del continente nonostante il mito Indurain, ha cambiato in modo sempre più radicale il proprio codice della strada dal 2001 al 2014, con governi di ogni colore, e nell’ultimo biennio il ciclismo amatoriale ha scavalcato calcio, nuoto e atletica diventato lo sport più praticato nel tempo libero.
L’isteria dei guidatori italiani, sulle strade o in rete, ignora che vent’anni fa la presenza ciclistica sulle strade del Belpaese era quasi doppia e l’auge recente ha recuperato solo parte di quel prezioso patrimonio. Come si circolava allora? E come faranno mai in Germania, Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia, Corea del Sud con tre, quattro, dieci volte i ciclisti che ha l’Italia? Saranno tutti in coda, o viceversa la mobilità è molto più fluida ed efficiente per tutti?
Mentre in altri Paesi, come appunto la Spagna, le leggi obbligano i guidatori di veicoli motorizzati a contemplare perennemente la possibilità della presenza di un ciclista per reagire di conseguenza (dal metro e mezzo di distanza obbligatoria per sorpassare, fino ai limiti di velocità ridotti in orari di forti flussi ciclistici, o all’obbligo di considerare il gruppo come un tutt’uno e quindi attendere il passaggio fino all’ultimo ciclista nelle rotonde, e molto altro), in Italia invece non si stimola questa cura costante, per cui il ciclista italico o è invisibile o disturba. Se l’occhio non si abitua a guardare sempre con la massima attenzione per individuare ciclisti, pedoni, motociclisti, insomma, la cosiddetta utenza debole, ebbene la probabilità del “non l’ho visto” incrementa esponenzialmente. Non è un caso: è un evento reso possibile o probabile da un contesto. Magari sei controluce, hai fretta, non vedi bene, e se non c’è niente “di grosso” in arrivo, ti butti. Con l’incuranza di chi non sa o finge di non sapere che sta conducendo, a tutti gli effetti, una potenziale arma omicida.
Il Presidente della Federciclismo dichiara che per Scarponi si è trattato di un “destino scritto male”: ad essere scritto male è il codice della strada italiano. “Si sta lavorando”, dice Di Rocco: ma è in carica da dodici anni e mentre in questo stesso periodo altre nazioni hanno fatto passi da gigante sia nella pratica ciclistica, sia nella sicurezza, noi arranchiamo nella prima e sprofondiamo nella seconda. Se davvero ci si tiene, sarebbe il caso di fare un gesto di rottura e dare le dimissioni, di fronte a un caso così eclatante. Che cosa ha fatto la FCI, ad esempio, dall’incidente gravissimo di Marina Romoli a oggi? Quali azioni concrete, quali proposte, quali pressioni sulla politica? Incrociare le dita, sperando che non accadesse qualcosa di ancora più grave? Con centinaia di morti all’anno non è questione di auspici, è solo una questione di tempo. Il tempo corre, i ciclisti vengono uccisi. E fare ciclismo diventa sempre più duro perché ancor più dei morti è il non sentirsi rispettati che fa crescere, giustamente, la paura. Michele – lo dichiarò – percepiva un aumento dei rischi e dell’aggressività del traffico, ma rimaneva ad allenarsi in Italia perché amava la propria famiglia e perché amava questo Paese: sarebbe ora che il Paese ricambiasse l’amore che Scarponi e i ciclisti e cicliste italiani di ogni età, passione, velocità riversano sulle strade dell’Italia.
Scarponi non era in doppia fila. Non era passato col rosso. Non parlava con un amico. Non era in gruppo. Non era uno “che crede di essere al Giro”, perché il Giro lui sapeva benissimo che cosa fosse. Non era uno “che si compra la bici da corsa poi non la sa guidare”. Non si prendeva rischi. Non faceva il prepotente. Aveva il casco.
E noi non dovremmo più tollerare queste sciocchezze sulle centinaia di ciclisti che come Michele vengono uccisi da mezzi a motore, per poi subire l’insulto di vedersi colpevolizzati senza alcun fondamento logico.
Se l’Italia fosse un Paese al passo con gli altri, almeno cento, centocinquanta, duecento vite di ciclisti all’anno non andrebbero perse. È pura matematica. E magari, tra esse, anche quella di un grande uomo e grande campione come Michele Scarponi. O magari no, magari sarebbero stati altri “i morti in meno”: il rischio è e sarà sempre parte del ciclismo come della vita, ogni ciclista lo accetta. Ma vogliamo davvero tollerare di rimanere con il dubbio che, se solo avessimo costruito una cultura stradale migliore, lui, Michele, come tanti altri, sarebbe tornato a casa leggero sui pedali?
Gabriele Bugada

Alejandro Valverde vince la sua ultima Liegi con Scarponi nel cuore




















































































































































