QUESTA È LA VUELTA BUONA: MA NON QUELLA (BRUTTA) DI VINGO
Questa volta, lo sport sta a zero. Giusto così.
Cronaca della tappa finale in due parole: corsa cancellata. Corridori fermati alle porte del circuito conclusivo di Madrid dopo difficoltà assortite già nell’avvicinamento. Ma nella capitale almeno centomila persone (centomila “secondo la Questura”, diciamo) si sono riunite in un reticolo di focolai che coagulano il fitto e variegato associazionismo – non personalista, non partitico, non verticistico – attraverso il quale la società civile spagnola è abituata a esprimersi.
E ciò che centinaia di migliaia di persone hanno ritenuto di esprimere lungo il corso di tutta questa Vuelta (ovviamente nei “rivoltosi” Paesi Baschi: ma così pure nella Galizia destrorsa e parimenti nell’ultraconservatrice Valladolid) è stato un messaggio semplice, uno slogan che proprio a Madrid trova le sue più profonde risonanze storiche: “NO PASARÁN”. L’insurrezione militare fascista guidata dal generale Franco, spinta dagli altri regimi europei affini, a Madrid sarebbe passata eccome, e così la dittatura avrebbe occupato lo Stato spagnolo per i successivi quarant’anni. Ma tutto passa – passa e trapassa – anche un dittatore mummificato in semivita, anche un regime quarantennale; mentre quel che resta, riemerge, rivive è la resistenza umana di chi non può accettare l’abominio e contro di esso si mobilita. Pur senza reali speranze di vittoria. Pur senza grandi risultati a cui aspirare. Non si ferma il genocidio fermando la Vuelta. Ma se si può, la si ferma. Non si ferma il genocidio ritirando il nome dello Stato genocida dal marchio di un team. Ma se si riesce, lo si fa ritirare. Non si sarebbe fermato il genocidio nemmeno ritirando tutto il team, ma se c’è chi sbandiera a chiare lettere di star finanziando quel team affinché la presenza dello stesso (con tanto di brand) nei grandi scenari sportivi internazionali possa essere ambasciatrice della cosiddetta NORMALIZZAZIONE rispetto a quanto accade in Israele e, di conseguenza, in Palestina, allora la risposta della società civile spagnola è stata altrettanto chiara: per dirla con un francesismo ciclistico, “PAS NORMAL”. Questa non è una guerra, questo è un genocidio, la cui eccezionalità storica e la cui incommensurabilità filosofica sono ormai tragicamente certificati da ogni sorta di dato o considerazione, anzitutto dalle prassi e dalle dichiarazioni stesse di chi lo mette in atto. L’imposizione graduale ma violenta di ciò che siamo costretti ad accettare (per l’impotenza delle società civili di fronte alla potenza degli Stati geopoliticamente privilegiati) si è scontrata con l’opposizione sostanzialmente non violenta di chi, altrettanto progressivamente, comincia a sentire di non poter accettare oltre.
E così questa volta è la povera Vuelta a España di ciclismo che, in effetti, non riuscirà proprio a passare. Podio finale di premiazione per pochi intimi, in un parcheggio di periferia, con gli atleti a raccogliere gli allori in piedi su dei frigobar.
La sensazione è di smacco, o di scacco matto. Probabilmente è stato meglio così, visto che sul podio finale come miglior giovane sarebbe salito – teoricamente faccia a faccia con la folla madrilena – anche lo statunitense Riccitello, portacolori proprio del team israeliano Premier Tech. Come anticipato, la squadra (dopo svariati dinieghi) ha rimosso in corsa la prima parola del proprio nome, “Israel”, senza tuttavia far lo stesso con le corrispondenti stelle di David. Il giovane talento americano ha conquistato sia la top 5 in generale sia, come detto, la classifica dei giovani, ambedue a discapito dell’italiano Pellizzari, andato in crisi proprio nell’ultima tappa di montagna. Dall’anno prossimo Riccitello s’imbarcherà nell’ambiziosa Decathlon e abbandonerà il team israeliano, già oggetto di un certo esodo da parte di altri atleti più o meno di punta (fra cui il capitano Derek Gee, che ha alluso proprio a ragioni d’insopportabilità etica). È evidente che la rimozione di Riccitello dalla competizione, qualora fosse stata ritirata l’intera squadra, avrebbe alterato molto significativamente il risultato sportivo, così come è comunque avvenuto in qualche misura per le tappe accorciate, forse non in modo così drastico a Bilbao, ma sicuramente in Galizia, dove è stata cassata l’ultima ascesa, e pure a Valladolid, dove la crono è stata ridotta a meno della metà del chilometraggio.
Aiuta certamente a far passare in cavalleria la dimensione sportiva il fatto che questa Vuelta avesse fin dalle premesse un valore tecnico modesto, che poi sarebbe ulteriormente scemato su strada. Un percorso senza insidie né sorprese né ambivalenze tecniche, disegnato con l’unica finalità di attrarre Pogacar, tradendo così la bella evoluzione cui la gara spagnola era andata incontro dalla fine degli anni ’10 ai primi anni ’20. Insomma, un deja-vu del Giro 2024, ma chiaramente senza Pogacar a insaporire il tutto con una spruzzata di spettacolo, pazzia ed esagerazione. Ecco, casomai qualcuno covasse dei dubbi, ebbene, stante questo ciclismo, per fortuna che Pogi c’è… quando c’è. La lotta fra un Vingegaard nettamente superiore come dotazione atletica, supportato da un team solido, e il primo gregario di Pogi, cioè il portoghese Almeida, circondato da un nugolo di co-capitani o co-gregari egoisti, tutti in cerca di spazietti e soddisfazioni personali, non ha proprio storia. Si direbbe quasi che non c’è lotta, complice lo stile pedissequo che caratterizza il solidissimo Almeida. Il resto della classifica generale, come al Tour, rasenta l’inesistente, fra giovani di bellissime speranze che accarezzano la top 5 pur essendo al secondo Grande Giro in un anno come il 21enne Pellizzari, o il suo già citato rivale Riccitello; e poi campioni in cerca di autore come Pidcock (straordinario comunque nel far podio in una squadretta di seconda fascia seppur seria come la Q36.5) o un ondivago Ciccone, che vede evaporare fra fastidi fisici vari la forma della vita; e ancora personaggi ormai attempati come Jai Hindley, miracolato quando capita da concorrenze leggerine, come stavolta, o il norvegese Traen, miracolato da un fugone. Due dico due gregari di Vingegaard, in aggiunta appunto a Vingegaard stesso. Vingegaard peraltro non si capisce mai se sia proprio stracotto o semplicemente si atteggi a tale per giustificare i pesanti forfait annunciati per fine stagione. Certo è che se in altri momenti era apparso far mondo a sé assieme al superuranio Pogi, o per lo meno degno pianeta di orbita prossima al Re Sole, questa volta invece la sensazione è quella dell’orbo sovrano in un regno di ciechi. Primus inter pares, fra l’altro, dato che spesso si accontenta di stare lungamente a ruota, riuscendo (o meno!) a prodursi soltanto in una o due stoccatine finali da pochi secondi. Unica eccezione, la bella mossa a sorpresa su una delle ascese più facili, Valdezcaray, nell’anonima nona tappa, che avrebbe fruttato coi suoi 24” conquistati su strada il 50% o più di tutto il vantaggio finale accumulato, al netto degli abbuoni. Più viva, come al Tour, la lotta per le tappe, con specialisti di peso a valorizzarle, Ganna a crono, Philipsen e Pedersen negli sprint, Bernal che si riscatta e torna a vincere una gara World Tour proprio sul tracciato della tappa trappola in Galizia che segnò negativamente la sua classifica generale nel 2021. E poi, appunto, bei gesti tecnici all’insù di Gaudu o Pellizzari, e ancora, piaccia o non piaccia (certamente suscita dubbi quantomeno strategici) la pioggia di tappe dell’armata UAE, anche se non si può certo dire né di Vine né di Ayuso né di Soler che abbiano fatto di più rispetto al proprio, in ogni senso. Per fortuna dello sport e per sfortuna di Almeida.
Ma la parentesi sportiva vale proprio la pena di chiuderla a fronte di altre considerazioni. Le più cruciali sono state espresse in apertura, ma ve ne sono altre di doverose. Da questa Vuelta emerge un’altra fondamentale lezione: il ciclismo è sport popolare in quanto sport di tutti e tutte, includendo coloro che del ciclismo sanno poco o nulla. Abbiamo ascoltato fino alla noia il ritornello del ciclismo “sport vulnerabile” o altre banalità quali “scindere lo sport dalla politica”. Ma compiacendosi in questi truismi sconcertanti si perde l’essenziale: anzitutto il fatto che la cosiddetta vulnerabilità sia una caratteristica intrinseca del ciclismo su strada, nonostante negli ultimi anni si vada affermando una retorica, proveniente non a caso da culture a lungo aliene a questo sport, secondo la quale il ciclismo deve assimilarsi al paradigma degli altri sport. Nel ciclismo le contingenze sono un elemento fondamentale della competizione. Il meteo mutevole e perfino inclemente. Le velocità e durate variabili, pressoché incontrollabili, frutto di un comportamento collettivo. L’improvvisa comparsa della malattia o del semplice malessere fisico. Gli animali in strada. Gli errori di percorso. Le forature. L’ammiraglia lontana. Finire nel gruppetto tatticamente “sbagliato” in un rimescolamento di carte tendenzialmente imprevedibile e incontrollabile. Essere ciclista vuol dire confrontarsi con se stessi e se stesse. Con ogni sorta di rivali. E, più di tutto, con le circostanze. Per quanto estranee o assurde. Le interruzioni sono state, come detto, sportivamente significative ma, in questo caso, in ultima analisi del tutto irrilevanti per il risultato. Bene. Ma anche se così non fosse stato, ebbene, la natura profonda di questo sport, fra tanti altri, pretende e comprende l’accettazione profonda di codesto stato di cose: cioè che praticare ciclismo su strada equivale a immischiarsi con una realtà fattuale densa, potente, pressante, ingombrante, invadente, incontrollabile. La STRADA ne è in effetti la metafora principe nella nostra cultura (dopo che a lungo lo è stato il mare, ora purtroppo al centro di metafore altre). La strada come “il Reale” con la R maiuscola, in ogni sua forma, manifestanti compresi. Ciò, e in certa misura possiamo soggiungere “purtroppo”, comprende anche l’aspetto più duro da digerire, cioè le cadute serie degli atleti, in questo caso due in totale, prodotte in un caso direttamente e nell’altro indirettamente dall’azione goffa o inappropriata di un manifestante. Atleti peraltro che nulla avevano a che vedere con il team Israel, ma questo è finanche secondario. Semmai andrebbe rovesciato il cannocchiale per rendersi conto di come, a fronte della magnitudine delle proteste popolari, il tasso di incidenti o episodi caratterizzabili lato sensu come violenti sia stato minimo. Per esperire la caoticità o semplice stupidità dell’essere umano in massa, ben intenzionato o meno, basta mettersi nel traffico motorizzato in una città qualsiasi in una giornata qualsiasi.
Questo ci riconduce al primo aspetto accennato sopra: il ciclismo è sport pubblico a livelli estremi. Quanto è accaduto in Spagna si deve – oltreché alla volontà popolare di una cittadinanza le cui porte e finestre si affacciano sulle strade e sulle piazze che la Vuelta attraversa – anche alla volontà politica di un governo con una visione chiara sul tema palestinese. Da questa visione è discesa una politica netta: consentire le manifestazioni. Non fomentarle né scatenarle: per mettere in sicurezza l’ultima tappa di Madrid è stato disposto un effettivo di polizia pari al doppio (!) di quello che venne attuato, per dire, allo scopo di garantire il vertice NATO ivi tenutosi. Al contempo si è deciso di NON usare ogni mezzo lecito o illecito per frenare le manifestazioni stesse, anche qualora esse dovessero arrivare al punto di bloccare… beh, una gara di ciclismo. Le priorità sono perfettamente chiare e francamente condivisibili. Sono le istituzioni pubbliche che rendono fisicamente possibile il ciclismo su strada, e dunque lo rendono possibile nella misura in cui esso è in linea con le priorità di tali istituzioni. La Vuelta è divenuta l’altoparlante con cui il governo spagnolo ha collocato nella notiziabilità mondiale (tranne che in Italia, praticamente) la voce della propria popolazione, su tutti i principali mezzi a stampa dei maggiori paesi occidentali, come minimo. Il New York Times, Le Monde, Le Figaro, The Guardian, Die Zeit e così via hanno messo in pagina un evento che normalmente avrebbero trascurato se non come una noticina in una sottosezione. Va a sé che la televisione pubblica spagnola è fondamentale per la Vuelta come la RAI lo è per il Giro, e ha dato visibilità alle proteste, senza incentivarle al di là della visibilità stessa (che già è moltissimo) ma anche senza stigmatizzarle. Tutto ciò non è stato un abuso né un’intromissione. Non si corre ciclismo su strada se non così. E va benissimo. Va benissimo che il ciclismo debba scendere a patti con le persone che vivono nelle case e lavorano nelle fabbriche attorno ai suoi percorsi, ai suoi villaggi di partenza e ai suoi traguardi. Va benissimo che il ciclismo ci ricordi l’esistenza di una dimensione pubblica e collettiva che non si amministra e gestisce se non pubblicamente e collettivamente, come spazio di negoziazione e dialogo continui.
Gli organizzatori si trovano, ahiloro, incastrati fra molteplici fedeltà e molteplici imbarazzi. Le imprese degli sponsor, che pure mettono soldi. Le autorità locali che magari, come nel caso di Madrid, pure mettono soldi e sono di orientamento politico opposto rispetto al governo centrale. In qualche modo la soluzione scelta in questo caso è “andiamo avanti comunque”, “riduciamo il danno”, facciamo quanto più possibile finta di niente, scarichiamo il barile, la nostra forza starà nel non fermarci, nel non farci imporre (quasi) niente da nessun manifestante, nel giocare al gatto col topo spostando i traguardi. Delle istituzioni sportive e relative ipocrisie non parliamo neppure perché ci sarebbe di che intristirsi. Ecco, stavolta lo sport come “semplice lavoro”, ma soprattutto lo sport come “potere autonomo” ha proprio perso. Ed è un’ottima notizia. Per vincere, come quando si è in fuga, avrebbe dovuto parlare, collaborare, fronteggiare le circostanze aprendosi ad accordi trasversali sia pure con apparenti controparti. Ma lo sport non ne è all’altezza oggi come non lo è quasi mai stato, e come non lo fu, per dire, nelle Olimpiadi del 1968.
Gabriele Bugada

Il podio della Vuelta 2025 (foto Bram Berkien/Team Visma Lease a Bike)