CAOS E CALMA IN NORMANDIA, HEALY NE FA UNA DELLE SUE

luglio 11, 2025
Categoria: Copertina, News

Tappa pazza per cavalli pazzi, Pogi invece fa il ragioniere.

Quando c’è chi si domanda il perché delle dirette integrali, la risposta sta in chi pone la domanda. Spesso appassionati di troppo lungo corso che stentano a comprendere la logica della nouvelle vague di questo pazzo ciclismo anni Venti (sempre sperando con le dita incrociate fino ai crampi che dal pazzo non si sconfini nello scriteriato, o che l’allegra follia non salti a piè pari nel vortice autodistruttivo). O viceversa appassionati di troppo breve corso, assuefatti ai sopori fin quasi al triangolo rosso propinati a suo tempo dalle più svariate armate dotate di volta in volta, ciascuna a suo tempo, del “monopolio nell’uso della forza” in nome del ciclismo di Stato, dove con Stato si intende la nazione o meglio il mercato nazionale a cui vendere il prodotto, ciclismo dello status quo a senso unico dove il bullismo era un titolo di merito sbandierato con orgoglio perfino nelle autobiografie.
…Ma i tempi, ora e sempre, sono cambiati! O no? Mentre ci arrovelliamo sull’ardua questione, tuttavia, in bici si corre, e si corre effettivamente in un modo sensibilmente differente rispetto ai primi due decenni di questo secolo, quando ci si doveva accontentare dei Nibali, dei Contador, dei Quintana prima maniera, di qualche occasionale Andy Schleck o Cunego, per trovarsi a sintonizzare il televisore a mossa decisiva già attuata, certo con ancora tutto da seguire il dipanarsi della stessa con tanto di pathos nel capire se la mossa in questione sarebbe poi andata in porto o meno. Oggi quel pathos a volte viene meno proprio nei finali, quei momenti invece così caratteristici nei Giri con Cipollini quale direttore d’orchestra: un traguardo volante, un elicottero che si alza in volo, comincia la diretta, e si comincia a correre sula bici o a guardare da casa. In una tappa come quella normanna, tutto funziona al rovescio, invece.
Ci sono sempre i traguardi volanti, a fare da catalizzatore, anche perché la lotta per la maglia verde si presenta per ora convulsa e acerrima, vedendo impegnati tanto il re delle Classiche Mathieu van der Pole quanto il nostro serio candidato a erede del suddetto Cipollini, almeno quanto a potenza, ovverosia Jonathan Milan, e poi perfino, quasi involontariamente, il principe cannibale e potenziale re dei re, vale a dire Tadej Pogacar. Poca roba! Così ogni punto conta. Aggiungiamoci che a fronte di una classifica generale apparentemente già segnata, la logica degli altri rivali potrebbe essere quella di far pesare ogni km di ogni tappa, per lasciare che Pogi si affondi da solo zavorrato a piombo dalle proprie catene d’oro che gli esigono di esibirsi su tutti i palcoscenici.
Sia come sia, la parte più eccitante e imprevedibile della tappa è la prima metà, quando si susseguono infiniti tentativi di fuga, un’ebollizione continua, un flusso magmatico in cui la forma stessa del gruppo che si allunga, sfilaccia, frammenta, crea bolle che si gonfiano e scoppiano, costituisce un impareggiabile spettacolo visivo, oltreché sportivo. Nel caos di distinguono alcune note di fondo: ad esempio la Visma di Vingegaard insiste nel cercare di piazzare uomini in fuga, la UAE di Pogacar glielo nega. Un nome il cui peso abbiamo potuto ancora apprezzare al Giro, seppur non più al proprio vertice assoluto di performance, è quello di Wout Van Aert, assolutamente distrutto dal profluvio di movimenti in apertura o chiusura, perché perfino chi vuole attaccare a volte deve chiudere sulla fuga se non idonea. Molto significativo pure il tentativo di Jorgenson, capitano in seconda della Visma stessa, chiuso da Pogi in persona. Non è di semplice interpretazione che cosa cercasse di ottenere la Visma, e in che chiave: delusi dalla crono del giorno precedente hanno forse abbandonato ogni velleità di lotta per il primato assoluto, e dunque invece di gestire le proprie energie preferiscono profonderne senza requie per puntare alle tappe? Oppure l’idea è accrescere all’inverosimile la pressione su Pogacar per farlo infilare in qualche vicolo senza uscita? Più avanti nella gara parrà addirittura che l’alveare giallo-nero avesse come propria priorità “obbligare” Pogi a mantenere la maglia gialla col carico di stanchezza extra che essa implica. Piani estremamente complessi oppure idee confuse? Lo scopriremo solo nel prosieguo dell’intricato romanzo che è ogni Tour. Altro tema chiave, l’ostinazione furibonda per far scattare la fuga da parte di due nomi su tutti, Quinn Simmons e Ben Healy, due dei cavalli pazzi più riconoscibili e rappresentativi in gruppo, due capelloni, biondo e bruno, il grosso statunitense biondiccio con la sua maglia da Capitan America e i baffoni da redneck, l’irlandese piccoletto e tutto nervi, orecchini da pirata e barba incolta, ossessionato dall’aerodinamica ma poi asimmetrico e guizzante sulla bici come un Garrincha. Roviniamo la sorpresa: la fuga buona la faranno partire loro, dopo essere stati i primissimi a muoversi sul serio, e a fine giornata saranno primo e secondo sul traguardo, anche se Healy arriva solitario e dietro Simmons deve bisticciare in volata con l’australiano Storer, altro habitué delle cavalcate epiche.
Quando la fuga parte, finalmente, e che fuga, c’è dentro anche Mathieu van der Pole, poi un altro statunitense, Barta, e un altro irlandese, Dunbar (tutti in team diversi). Per rafforzare il dominio anglosassone per la Visma c’è pure Simon Yates, forse il meno adatto all’occasione, forse perciò il compromesso su cui UAE e Visma trovano un equilibrio (ma a quel punto aveva senso per la Visma? Chi lo sa). Con Harold Tejada dell’Astana è completa la lista degli otto nient’affatto hateful. La presenza di van der Pole aggiunge un altro interessante tema di strategia interno alla fuga stessa: l’olandese è in predicato di riprendersi la maglia gialla, ma per covare questa speranza deve sacrificare le proprie opzioni di vittoria, facendo il passo se e quando la fuga esita, non spendendosi alla morte per chiudere su tutti gli scatti e così via. A margine magari anche il desiderio di raccattare qualche punticino per la maglia verde, come anticipato sopra. Se già è complesso vincere in fuga quando si veste, a torto o a ragione, il mantello di favorito principale, figuriamoci facendo equilibrismi fra due o tre obiettivi differenti; e non parliamone quando la tappa prevede oltre 200 km con un dislivello quasi da tappa alpina, suddiviso però in infiniti strappetti e mangiare bevi. Una specie di super Liegi, ma se alla Liegi si corre assatanati solo dopo Bastogne e verso Liegi, ma non certo da Liegi a Bastogne, qui invece il mattatoio autentico ha preso corpo nella prima metà corsa a quasi 50 km/h di media nonostante il terreno spaccagambe . Mathieu si brucerà nel mulinello di priorità diverse, ma almeno riconquisterà la maglia gialla… per un solo secondo!
Come anticipato, la tappa sarebbe stata da vedersi alla rovescia: opzionale il finale, obbligatorie le prime due ore. In queste due ore opzionali, si segnala giusto l’attacco da manuale, perfetto, di Healy. Come spiegherà il suo DS Wegelius a fine gara, il buon Ben ha dalla sua una fine astuzia tattica, e il suo modo di correre che appare talora pazzo si basa su uno studio meticoloso del terreno e delle situazioni. Poi la sua tenuta implacabile fa il resto. Sfuggito alle grinfie delle scie e controscie, non gli si ripiglia più nemmeno un secondo. E così in un momento di assoluta stanca e relativo relax nella rapsodia di strappi e strappetti, a poco più di 40 km dal traguardo, Healy si porta in fondo al gruppetto, osserva, attende, e dal nulla lancia una fiocinata che nessuno insegue seriamente perché per i primi venti secondi nessuno ci crede, poi dall’incredulità allo scoramento il passo è subito brevissimo. Punto, set, match in una partita fatta di un solo passante perfetto (ma non scordiamoci di tutto quel che c’è voluto per arrivare a trovarsi lì). Provano un inseguimento serio solo Simmons e Storer, ma non c’è nulla da fare. Si giocheranno la piazza d’onore in volata, sul violento muro finale. Muro finale che diventa un vero calvario per van der Poel, pedalando con le unghie piantate nel manubrio e i denti quasi ficcati nella ruota anteriore. Ma la maglia è sua, per un secondo.
Dietro, l’abbiamo detto, strani giorni in casa Visma. Forse vogliono appunto che Pogi la maglia non la regali al suo amico Mathieu, fatto sta che si producono in un forcing devastante. Al termine del quale Pogacar vince, piuttosto scocciato, la volata per il nono posto. Evidentemente lui aveva fatto i propri calcoli e ad essi aveva improntato la tappa, senza pensare a scatti o scattini, ma provocato… È alla fin fine una lotta di nervi più che di gambe, a queste altezze. La curiosità degna di nota è che dopo essere stato titolare unico delle tre classifiche principali, maglia gialla della generale, verde per punti e pois della montagna, Pogacar riesce così a cederle deliberatamente tutte e tre per sottrarsi ai doveri istituzionali con podi, interviste e fotografie. L’impressione è che potrebbe, se volesse, finire il TDF indossandole tutte e tre come Merckx nel 1969. Ma il Tour è lungo e la linea fra il vincere tutto e il perdere tutto è sottile anche per i più dotati fra i fenomeni delle ruote.

Gabriele Bugada

Ben Healy vince la sesta tappa del Tour (foto Anne Christine Poujoulat / AFP via Getty Images)

Ben Healy vince la sesta tappa del Tour (foto Anne Christine Poujoulat / AFP via Getty Images)

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