IL GIRO FINISCE IN GIALLO: DEL TORO MATADOR DI SE STESSO
Tappa di Roma e trionfo in rosa per lo sciame giallo Visma. Il simbolo è Wout: senza troppo brillare, fanno alla grande quel che sanno fare…
Roma ribadisce papale papale la sentenza del Sestriere: assist da manuale di Wout Van Aert, e Kooji insacca la vittoria della tappa finale.
Poco altro da ricordare in una tappa passerella, se non l’omaggio Visma alla moglie di Gesink, scomparsa prematuramente: l’ennesimo lutto nella vita di un corridore (ritiratosi l’anno scorso e per quasi vent’anni bandiera del team) per il quale i trionfi o le amarezze offerti dalla bicicletta sono stati ricacciati a forza in una prospettiva assai relativa, anche se è significativo e commovente che proprio in sella lo stesso Gesink abbia voluto rimarcare col ricordo la propria risposta a quest’altro violento scossone esistenziale.
Ancora non si è posato il poverone del Colle del Finestre, dove la sensazione generalizzata è che – nonostante la prova magistrale indiscutibilmente offerta da Simon Yates e dal suo team Visma – non abbia effettivamente vinto, anzi diciamo pure dominato, l’atleta più forte, bensì il più pronto, disposto e predisposto a giovarsi del mutuo scornarsi altrui. Anche questa è la bellezza del ciclismo, dove non tutto è scatto secco, irruenza, wattaggio, ma talora viene a galla la più profonda natura della sfida che è quella con se stessi: non tanto nel senso ovvio e quasi banale di trascendere i propri limiti atletici nello sforzo o perfino nella sofferenza, quanto in quello ben più profondo di rivedere e cesellare adeguatamente i condizionamenti impostici dal proprio ego.
È un equilibrio sottile perché senza voglia di affermarsi nello sport è difficile vincere. Ma questo è uno sport in cui per vincere bisogna essere molte volte pienamente disposti a perdere. Non si tratta solo di bluffare – capitolo pur importantissimo nel manuale della tattica in bicicletta – bensì di comportarsi in modo da accettare pienamente il rischio di una sconfitta bruciante per potersi così infilare in pertugi di possibilità che, a volte, possono diventare sfuggenti anche per il più forte di tutti.
Anzitutto, però, un grande e doveroso omaggio a Simon Yates che, pur con qualche stagione difficile, è sempre stato fra i grandi protagonisti delle corse a tappe, soprattutto i grandi giri, e perfino nell’era dei fenomeni transumani si è spesso ricavato piazzamenti di prestigio da “primo o secondo fra i mortali”, per di più militando ostinatamente, quasi a oltranza, in una squadra australiana di media caratura, il suo primo team professionistico, pur di poter fare le cose a modo proprio. Su altra scala, un atteggiamento da van der Poel ante litteram. L’anno scorso però qualcosa si era rotto, le prestazioni apparivano opache e sicuramente ormai abbondantemente scoccata la trentina le sensazioni erano di demotivazione e declino: di qui la scelta di cambiare aria in cerca di metodologie nuove. Ammettendo i limiti delle proprie prassi e priorità pregresse – del proprio personalissimo “modo di essere se stesso” insomma – pur di levarsi la curiosità di scoprire quale sarebbe stato il proprio punto di arrivo una volta accettata una guida diversa. Chissà che in ciò non abbia influito l’esempio del fratello gemello Adam, che cedette ben prima alle sirene del team britannico INEOS (britannico come i due gemelli, attesi come profeti dal proprio movimento nazionale), ricavandone una prima miglioria del rendimento sportivo, per poi dare un autentico salto verso l’alto, adempiendo al potenziale da sempre attribuitigli, con l’approdo allo squadrone UAE nelle vesti di gregario extralusso per Pogi – e qualche bella vittoria collaterale come ricompensa. Il destino ha voluto che per Simon la squadra a cui rispondere di sì fosse quel Team Visma che della UAE sono gli arcinemici, capaci in più occasioni di sopraffare il talento puro dello stratosferico capitano avversario grazie a tattiche eccellenti e preparazioni fisiche estremamente mirate.
Dalla stagione passata, nondimeno, il Team Visma, perdute sponsorizzazioni importanti, pare aver perso una parte della propria preponderanza atletica. Complici infortuni assortiti, i suoi atleti di punta apparivano nel 2024 tutti un’ombra sbiadita di quanto avessero esibito al mondo intero fra 2022 e 2023. E il 2025 sembrava partito con la stessa musica, epitome della quale il talento cristallino di Wout Van Aert ridotto spesso a correre di rimessa per poi perdere addirittura volate in teoria scontatissime. Si erano aperte allora due scuole di pensiero, in realtà in parte compossibili: da un lato chi riteneva che il Team Visma avesse ormai passato i picchi del biennio 2022 e 2023, per cui i suoi atleti sarebbero andati nel 2025 a collocarsi come già nel 2024 in un ambito di più normale competitività, magari scontando pure qualche scoria da eccesso prestazionale protratto, con la possibile eccezione dei nuovi inserti che magari si giovassero del primo impatto di metodologie innovative rispetto a team di provenienza comunque più mediocri, o addirittura giovanili; dall’altro lato, c’è invece chi considera che l’abnorme forza gravitazionale del Tour de France da rivincere a ogni costo con Vingegaard abbia, anche solo inconsapevolmente, fatto slittare in avanti il fulcro prestazionale del team, di cui si spiegherebbe così una primavera mediocre, con picchi di forma raggiunti macchinosamente, e sempre arrivati con tre o quattro settimane di ritardo.
Il Giro non conferma né smentisce alcuna di queste due elucubrate teorie. Certamente fa piacere che la Visma non abbia dominato con uno strapotere fisico insultante, anzi. Emblematica la vittoria di Wout Van Aert a Siena, accettando – proprio nel teatro della sua propria rivelazione al mondo intero come fenomeno assoluto anche su strada (complice lo sterrato) – di trovarsi ora a seguire passivamente, quasi sommessamente, le ruote di uno scatenato Del Toro 21enne, senza mai dare un cambio neppure simbolico, pur di garantirsi il margine di fiato necessario a giocarsela d’esperienza nel finale. Astuzia, prudenza, saggezza, calcolo, accettazione dell’umiliazione, tattica, regole del gioco, opportunità o opportunismo, tutto però ampiamente nei limiti del bello, del poetico, della dignità di non sapersi il più forte atleticamente, ma comunque entro la fierezza di volere – e dovere – imporre a quell’altro, lui sì più forte, la necessità sportiva di superar-si, per poter vincere, cioè senza concedergli di farlo per mera inerzia fisica.
E tale è parso anche il Giro di Simon Yates e dei gregari Visma tutti. Momenti di notevole brillantezza fisica e altri di appannamento, sempre nei parametri imposti a ciascuno dal proprio talento. Il più al di sotto del proprio potenziale, Van Aert, è stato colui che si è rilevato, e di gran lunga, il più decisivo per i trionfi altrui, pilotando magistralmente lo sprinter Kooji, di per sé meno esplosivo del previsto, ma capace comunque di vincere così due tappe. La gestione perfetta sul Finestre per farsi trovare nel luogo perfetto con il massimo di forze per innestare quella trenata devastante che ha trasformato un minuto o due scarsi di vantaggio in una voragine mostruosa profonda cinque incolmabili, lunghissimi minuti. Distruggendo del tutto il morale e le opzioni strategiche di chi inseguiva. E seppur Simon Yates sia apparso la propria miglior versione, nemmeno lui ha proposto il tipo di stravolgimento dei valori in campo che si ricorda con sacro timore dall’altro Finestre britannico, quello di Froome (e del crollo di Simon, come si è ribadito a iosa in questi giorni).
Pur in tutt’altro modo – questo un Giro divertentissimo, quello uno noiosissimo – è emersa una qualche reminiscenza della vittoria 2023 da parte di Roglic, allora appunto capitano dell’alveare giallo Jumbo-Visma. Una condotta sorniona, di risparmio, di attendismo, di presenza attenta, a tratti sofferta, ma mai preponderante… fino a un colpo da KO in cui scatenare tutto il potenziale di una forma finalmente al culmine. È anche (ma col culmine anticipato di quattro tappe) lo schema vincente del Tour di Vingo 2023. Così come la giocata scacchistica facente perno su Van Aert ha ricordato l’identica chiave, seppur allora solo potenziale, del Tour 2022, quando Pogacar fu costretto a inseguire Roglic per impedire che si ricongiungesse con Van Aert là davanti. Molti, avendo visto la capacità distruttiva di questo Wout (e non certo il Super Wout 2022!) sabato in pochi km di falsopiano, avranno forse dovuto ricredersi in merito alla presunta ingenuità di Pogacar in quel frangente.
Insomma, per risolvere il giallo di questo Giro 2025 enigmatico e misterioso fino all’ultimo colosso alpino, i Visma hanno dovuto far ricorso a tutto il proprio repertorio da autentici Sherlock Holmes della bicicletta, strategie geniali e rivelazioni conclusive comprese. Sarà da capire se al Tour alzeranno ulteriormente l’asticella atletica o se sarà con queste stesse armi, compreso magari un Simon in veste di super gregario, che affronteranno la rivincita contro l’UAE, che senza Pogi è veramente apparsa più allo sbando che mai.
Ora però bisogna parlare di chi questo Giro lo ha reso così appassionante, e va detto che, al netto della bella giocata di chiusura, non sono stati certo i Visma, anzi in generale piuttosto pedissequi e complici nello spegnere ogni focolaio di battaglia.
Il merito è invece per la prima parte di Bernal e della sua INEOS, che chiudono il Giro un po’ obliati perché giunti al finale con il fiato corto e pure con la squadra accorciata dai vari ritiri. Egan è stato comunque esemplare. Campione vero nella testa, anche con gambe non all’altezza della volontà, ha usato la squadra e la strategia per smuovere la corsa in mille frangenti, peraltro venendo penalizzato da un tracciato che offriva tappe scandalosamente predisposte a una facile difesa da parte di squadroni compatti proprio quando la sua forma era al meglio. Senza farsi demoralizzare, le ha animate aprendo crepe a non finire nelle corazzate avversarie, e probabilmente inducendo quell’alzarsi imprevisto del livello di competizione durante la seconda settimana che ha messo fuori gioco tutti coloro che non fossero al meglio. Il risultato, un settimo posto non generoso nei suoi confronti (ci sarebbe stata una top 5, rispetto a un Caruso da applausi vista l’età ma comprensibilmente sparagnino nello stile di corsa) resta comunque di gran lunga il migliore nei grandi giri, dopo il tremendo incidente contro il bus che quasi gli costò la carriera o la vita a inizio 2022. Deve essere durissima per un fenomeno arrampicarsi faticosamente non mese dopo mese bensì anno dopo anno lungo la viscida parete della miglioria prestazionale, dal nulla assoluto in risultanze, il mero potersi allenare e correre (che è già moltissimo), alle prime top 10 in corse a tappe brevi, poi i podi in queste ultime, e infine lottare al vertice in un Grande Giro, e in un Giro d’Italia addirittura.
Carapaz ci ha regalato la versione migliore di se stesso. Il corridore che non sbaglia il tempo di un attacco, che coniuga l’esecuzione mirata di ogni passo con il risultato da perseguire, che raccoglie il massimo di quanto stia sul piatto. Il tutto con uno stile aggressivo, esplosivo, sorprendente. A Bismantova quell’attacco fulminante che lasciò il pubblico così incredulo da far pensare a molti “lo hanno lasciato andare”. Niente di più falso, lo dissero subito i colleghi e lo confermò la strada poi. Devastante nel tappone omerico del massacro di San Valentino, seccamente il più forte, determinato nel portarsi a ruota Pellizzari, pur consapevole che l’italiano (finalmente libero da obblighi di gregariato dopo il ritiro di Roglia) lo avrebbe infilzato in contropiede – ma Richard aveva in testa solo l’obiettivo rosa. Di nuovo eccezionale verso Bormio, prima il forcing sul Mortirolo per predisporre il terreno a che l’ultimo strappetto delle Motte divenisse potenzialmente selettivo, poi la fucilata, con Del Toro, e di nuovo con Del Toro protagonismo a due nella tappa della noia, quella valdostana, dove nondimeno i due latinos si sarebbero confermati nel finale una spanna sopra tutti in termini sia di fondo sia di esplosività. E qui forse si è annidata la serpe che sarebbe costata il Giro ad entrambi…
Perché quando Carapaz a sorpresa usa tutta la squadra per far esplodere il gruppo da inizio e salite e trasformare l’intero interminabile Finestre in un infinito anfiteatro per un duello uno contro uno (contro uno…), in Del Toro si radica un pensiero assurdo e autodistruttivo, il pensiero che confesserà candidamente poi in tutte le interviste. “Carapaz era arrogante, pensava di poterci demolire tutti, e io ho deciso che gli avrei dimostrato che quanto a me, no, non avrebbe mai potuto staccarmi”. Dall’orgoglio alla paura di vederlo incrinato il passo è breve. E dalla paura alla paralisi il passo è più breve ancora. Così Del Toro si rifiuta ostinatamente di collaborare con Carapaz che per tutto il Finestre porta il peso degli allunghi sugli inseguitori, e fin qui ci potrebbe anche stare, degli scatti per scuotere il catenaccio della maglia rosa, e pure questo potrebbe avere una logica, ma perfino il peso tutto dell’inseguimento a Simon Yates perché, questa la scusa di Del Toro a domanda esplicita, “essendo Yates terzo e Carapaz secondo, toccava a lui inseguirlo”. Ebbene, lo abbiamo visto. La colossale baggianata è il tipico grumo di pensiero a cui la mente si attacca disperatamente per giustificare a se stessa l’ingiustificabile: pur di non correre il benché minimo rischio di vedersi in qualche momento staccato da Carapaz, Del Toro ha buttato alle ortiche il Giro d’Italia. Diciamo Del Toro perché in bicicletta c’era lui e lo stile di corsa lasciava trasparire appieno il suo stato d’animo, ma la responsabilità principale, con un atleta di 21 anni, è dell’ammiraglia, che deve strillargli nell’auricolare, per una volta con giusta causa, la condotta di gara da seguire. C’era un’ora di ascesa per farlo entrare in ragione.
La peculiarità della situazione è che essa non era simmetrica: senza poter staccare Del Toro, a nulla valeva a Carapaz riprendere Yates. Per lui, già vincitore di un Giro, e già secondo nel 2022, poco o nulla cambia il gradino del podio. E, sic stantibus rebus, Carapaz ha potuto e dovuto fare del tutto e di più pur di staccare Del Toro, ma non è stato possibile. Dunque amarezza tanta, ma rimpianti pochi. La possibilità per Carapaz di vincere sarebbe cominciata laddove Del Toro stesso avesse voluto, prima di tutto, vincere. Si badi bene, non una certezza di vincere, perché altrimenti Del Toro avrebbe avuto ben ragione di non imbandire la vittoria a Carapaz, e dunque di imbandirla a chi altri avesse lui voluto.
Ma esisteva eccome una terra di nessuno, una striscia nebbiosa e polverosa e tortuosa come gli ultimi km del Finestre, entro la quale Carapaz, e Del Toro, e pure Yates, certo (in terz’ordine!), si sarebbero potuti giocare la definitiva maglia rosa su un equilibrio di secondi, misurando le rispettive forze e i rispettivi sforzi. In questo modo invece Del Toro ha ottenuto ciò che si era prefisso, non perdere da Carapaz. Sicuramente penserà, e ne ha ben donde, che non sarà questa la sua ultima occasione. Ma proprio le storie personali di Bernal, e di Carapaz, e dell’America Latina tutta, insegnano che non si sa mai per davvero se la prima occasione sarà anche l’ultima (in realtà per Bernal parliamo del Tour, e per Carapaz speriamo che l’ultima non sia ancora giunta, ma il riferimento è ai Giri sfuggiti di un niente). Bernal e Carapaz hanno còlto la propria occasione maiuscola quando è toccato loro, ormai nel 2019, per entrambi, poi per il resto della carriera hanno dimostrato – e proprio non vincendo – di essersela meritata eccome. La domanda resta aperta per Del Toro, ma forse, come per quasi ogni 21enne (o 104enne) di questo mondo, la sua vera corrida in cui al contempo sopravvivere e lasciarsi sopraffare, toro e torero in uno, è ancora quella celebrata nell’arena interiore.
Gabriele Bugada

Il podio del Giro 2025 (foto Dario Belingheri/Getty Images)