LE TRASMUTAZIONI DI BISMANTOVA: DALLO SBRINDELLIO SBUCA CARAPAZ

maggio 22, 2025
Categoria: News

Il pezzo forte della seconda settimana intrattiene ma non troppo. Tappa che cambia faccia più volte, specchio di un Giro promettente ancora in cerca di identità.

“¡Latinoamérica!” esclama il colombiano Nairo Quintana quando gli si chiede un commento sulla tappa di cui è stato protagonista, ma che ha perso assieme agli altri compagni di fuga giusto nel finale, travolti sull’ultima salitella dal gruppo in rimonta – e proprio in quell’istante esatto, dal cuneo dei migliori già stirati sotto un passo sferzante si è fiondato a vincere con lunga azione da finisseur l’ecuadoriano Carapaz.
Ah, America Latina. Quanta ce n’è nella tappa di oggi, una tappa di sogni che si trasmutano in altro e poi in altro ancora, ricordandoci quella vecchia domanda – “un sogno che non si realizza è solo una bugia o è qualcosa di ancor peggiore?”.
Era un quarto di secolo che l’Appenino Tosco Emiliano attendeva il ritorno del San Pellegrino in Alpe, dalle parti del Giro del Diavolo, luogo di schiaffoni e giravolte fra, appunto, santi pellegrini e satanassi. Piccolissime Ande rosse di devozione e comunismo. La speranza, per la riapparizione mistica di questa ascesa giustamente leggendaria quanto a durezza, era che anche al Giro d’Italia partisse qualche schiaffone e s’innescasse qualche diabolico giro narrativo, nonostante i cento o quasi km alle spalle e cento da fare, divisi dal GPM come un gigantesco spartiacque, pianura di qua, mangia e bevi di là, il monumentale valico proprio di mezzo.
C’è il giovanissimo messicano Del Toro in maglia rosa a 21 anni, anche se il suo capitano sarebbe lo spagnolo Ayuso, maggiore di un solo anno e fra i favoritissimi alla partenza. Ayuso è finito acciaccato, Del Toro risulta poco collaudato sulle tre settimane; e poi: uno dei due capoccia del team, Matxin, pure spagnolo, ha in Ayuso il proprio pupillo, però Del Toro ha lo stesso procuratore (italiano) dell’onnipotente Pogi, il cui profilo “tagga in Instagram” una foto assieme al messicano. Investitura papale? Sorrisi e serpenti in squadra, il pubblico si frega le mani sperando in un culebrón (telenovela) di ripicche e tradimenti, un po’ meno gli atleti.
E poi ci sarebbe il grande rivale Roglic, vincitore nel 2023, che ha perso il suo più solido gregario (Jai Hindley, che addirittura il Giro lo aveva già vinto in prima persona pure lui nel 2022, e proprio all’ultimo giorno su Carapaz) e si trova quindi scortato, a corrente alternata, dal pur bravo scalatore italiano Pellizzari nelle vesti di scudiero più fidato. Roglic fra l’altro ha già fatto registrare una discreta quota parte del suo bilancio fisso di cadute con un paio di ruzzoloni non da poco, quindi anche lui è ammacatissimo come e più di Ayuso. Si attarda, recupera fulmineo, pare sganciato, rientra, un Giro finora enigmatico che tuttavia lo vede, guarda un po’, ancora in agguato nell’altissima classifica.
Tiberi e Ciccone le speranze italiane, e poi, come detto, ancora America Latina con altri due grandi campioni già vincitori del Giro: Egan Bernal (2021), sempre disciplinatissimo, sempre animato da una volontà d’acciaio, protagonista di un infinito ritorno verso i vertici del ciclismo dopo l’incidente potenzialmente mortale di qualche anno fa; e Carapaz (2019), che pure lui ha trascorso l’ultima mezza dozzina di stagioni a perdersi e ritrovarsi, a volte unico a tenere il passo di Pogi e Vingo in salita come nel 2021 o campione olimpico a Tokyo, altre volte ridimensionatosi a cacciatore di tappe extralusso magari con annessa maglia a pois, altre volte ancora mestamente attardato in un’abulia da poca gamba.
Da tutti questi si sogna uno squillo sull’Alpe di San Pellegrino, che svegli dal torpore tutti i diavoli del peloton e ci regali una corsa indemoniata nei cento km finali di discese, contropendenze, valli e agguati. Insomma, un tradimento di Ayuso al compagno leader in rosa, o un tradimento del gregario Del Toro al capitano spagnolo, oppure una rivoluzione campesina che scuota il vespaio e faccia cascare qualche testa coronata a favore dei peones, o al meno delle seconde linee, sia pure rientrando poi nei ranghi.
Questi i sogni del pubblico. I sogni del gruppo sono più modesti e concreti: macché classifica generale, macché tradimenti, siamo tutti già stracchi e un po’ sbatacchiati, niente ¡viva Zapata!, semmai “Viva la fuga!”. Che se ne vada una bella fuga e che si giochi la tappa.
Il problema però è che quando in gruppo sognano tutti quanti assieme, il sogno si fa rumoroso e affollato, scivoloso e profondo, convulso quasi, anche perché il sogno è lo stesso per tutti, ma nel sogno spazio per tutti non c’è: insomma, se tutti sanno che la fuga deve partire, finisce che non parte e non ci va nessuno. Perché chi resta fuori tira alla morte e riporta sotto il gruppo. Perché quando sembra chiaramente andata, allora dal gruppo anche i più dubbiosi si lanciano in avanti per agganciarla, e altri sulle loro ruote, e così facendo si tirano dietro quel che resta del gruppo grosso, e di nuovo siamo da capo, tutto da rifare. Trascorre così più di un’ora di gara sempre al di sopra dei 50 km/h nonostante sporadici strappetti e un fondovalle ascendente. Alla fine se ne va una fuga grande praticamente quanto il gruppo, quasi quaranta atleti che si precipitano contro le pendenze del San Pellegrino, da subito durissimo, come un fascio di particelle che si schianta contro un altro, sostanzialmente esplodendo in un caos di confusione tattica, pigrizia, opportunismo, e crisi immediate di chi alla fuga ci era arrivato già al gancio. Per capirci, sull’8-9% c’è in testa a tirare il colosso Pedersen per il suo gregario Vacek.
In meno di 3 km Lorenzo Fortunato, a caccia di punti pesanti per la maglia di miglior scalatore, capisce che così non va, e parte da solo. Saluti a tutti e cronoscalata solitaria. Bravo, folle e naturalmente fortunato, si prenderà in cima il bottino grosso e poi, tutto di guadagnato, in tal modo favorisce pure che si selezioni un bel quartetto di inseguitori, che lo raggiungeranno in discesa per proseguire assieme verso la meta: il più propositivo Pello Bilbao, compagno di Tiberi, che dà così adito a speranze fantasmagoriche di un attacco dell’italiano con testa di ponte davanti; il più solido in salita, Nairo Quintana, proprio lui, vincitore del Giro oltre dieci anni fa, probabilmente lo scalatore puro più forte della seconda metà degli anni ’10, in particolar modo quando il fondo la fa da padrone. C’è poi l’altresì granitico Poels, in supporto a Fortunato in casa Astana, e l’invece giovane australiano Plapp, trionfatore sabato scorso in una tappa molto simile. Ma la Storia non ama ripetersi: se non come sogno o incubo ricorrente, se non in America Latina o nelle Americhe Latine di tutto il mondo.
Il gruppo pare avviato a un controllo rigido da parte dallo squadrone UAE, perché oltre a Del Toro e Ayuso vi militano un altro paio di gregari che fanno pure classifica. Ma, proprio sulle rampe più dure, allunga secco Egan Bernal, con la maglia di campione colombiano da lui stesso disegnata ispirandosi a quelle dei grandi colombiani degli anni Ottanta. Lo sparpaglio è immediato, resta una decina scarsi di ciclisti. L’immagine è fantastica perché con tutti quegli uomini davanti che erano in fuga, e che ora stanno scivolando quasi all’indietro sulle pendenze impervie come in un cartone animato di scivoli insaponati… la confusione è subito enorme sulla strada. I migliori accelerano e rispondono a Bernal (poi supportato da Castroviejo che era in fuga), ma il trenino dei più forti deve serpeggiare fra i residuati della fuga che gli si parano davanti alla metà della velocità.
Chi c’è? Chi non c’è? Dov’è Roglic? In crisi i gemelli Yates (ciascuno in un superteam diverso)! Roglic isolato! Ayuso ingolfato! Reattivissimi Tiberi e Carapaz. Vuoi vedere che…?
Niente da fare. Allo scollinamento, ci si ferma, si scende tranquilli, che rientrino tutti i gregari. E con loro gli attardati. La rivoluzione non è oggi. Domani sicuramente no, e dopodomani men che meno. Pensiamoci forse per domenica prossima: dopo la Messa e il Grappa, o la grappa, magari. O martedì sul Santa Barbara, patrona del fuoco alle polveri. Grazie lo stesso Egan per averci fatto sognare: una tappa diversa sarebbe stata possibile.
E allora? Arriva la fuga? Vince Nairo? Vince Fortunato? Nemmeno, niente Nairo e niente fortuna. Perché, in una simmetria delirante, dopo aver tirato in salita per la prima metà del San Pellegrino in Alpe, e poi essersi arenato bello che sfondato, piomba dalle vette a tutte velocità un metorite ciclamino. Mads Pedersen riprende la testa del gruppo. E si mette a tirare. Supponiamo perché così magari il compagno e capitano per la classifica generale Ciccone potrebbe puntare alla tappa con relativi abbuoni. O semplicemente perché Pedersen sembra averci preso gusto, ha una gamba della madonna e gli altri dietro a stringere i denti. Il vantaggio della fuga evapora. Un lunghissimo ponte sul vasto greto di un piccolo fiume, il Secchia, basta da solo a tirar giù mezzo minuto fra i Gessi Triassici. Milioni di anni sono un nonnulla, figuriamoci trenta secondi. Carapaz mette pure lui la squadra. Presagi.
Tocca salire alla Pietra di Bismantova, altare titanico baciato da sole su un fondo di nuvoloni neri. E ritorniamo all’incipit del pezzo. La fuga è immolata, Carapaz – che come li sceglie lui, gli attimi fuggenti, nessun’altro – parte mani basse, fuorisella e denti stretti. Del Toro accenna un non so che. No, non può, che resti nel recinto. Non tocca oggi la sfuriata. Carapaz guadagna mezzo minuto. Dietro tira la UAE. Trenta secondi sono un nonnulla: dopo la salita non c’è discesa, perché si arriva a Castelnovo ne’ Monti con cinque km di dentelli e saliscendi. Trenta secondi non sono niente quando ti insegue il gruppo dei migliori. Ma Carapaz è un cagnaccio e sul traguardo ci arriva con dieci secondi. Dieci secondi sono tutto! Con pure i dieci di abbuono risale un po’ la classifica e vai a sapere che cosa ci combinerà la terza settimana, se viene a galla il suo fondo naturale. Magari con la voglia da campione di Bernal. Magari con lo stoicismo di Quintana. Magari con il peso piuma che vola all’insù di Einer Rubio. Magari con un Del Toro unchained, per scelta della squadra… o del “perfido” procuratore (Del Toro che fa la volata per il secondo posto col torso letteralmente girato all’indietro, come cercando platealmente Ayuso, il giro del Diavolo insomma). Insomma, magari alla terza settimana si fa la Rivoluzione – o magari vince Roglic. E la Rivoluzione la lasciamo per la quarta settimana e i suoi illustrissimi, magnifici sognatori.

Gabriele Bugada

Carapaz vince ai piedi della spettacolare Pietra di Bismantova (foto Dario Belingheri/Getty Images)

Carapaz vince ai piedi della spettacolare Pietra di Bismantova (foto Dario Belingheri/Getty Images)

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