RITO IMMEDIATO PER RICCO’, IL DOPATO (IM)PERFETTO

febbraio 12, 2011
Categoria: Approfondimenti

Riccardo Riccò viene ricoverato d’urgenza in stato di choc, riferendo egli stesso, secondo quanto riportato dal medico, di temere le conseguenze di un’autoemotrasfusione che si sarebbe praticato da solo. La salute di Riccardo non è più in pericolo, la sua carriera sembra alla conclusione. Ma è tutto qui?

Foto copertina: Tour 2008, Riccò fermato dalla gendarmerie dopo la positività

1. IL RITO IMMEDIATO
Nei comuni tribunali il “rito immediato” viene richiesto a fronte dell’evidenza delle prove, quando il materiale raccolto è così abbondante ed esplicativo da far stimare superfluo ogni ulteriore approfondimento. Per Riccardo Riccò un “rito immediato” metaforico (quello vero, giudiziario, naturalmente risulta fin qui inapplicabile) si è già innescato dentro al mondo del ciclismo: paradossalmente il “materiale” è tutt’altro che abbondante, anzi lo si direbbe miserello: l’ammissione di un’autoemotrasfusione – che nel doveroso transito tra il pronto soccorso e la procura giudiziaria è stata assai meno doverosamente filtrata alla stampa da mani ignote – è pur sempre una voce riecheggiata per ben quattro rimbalzi, da Riccò al medico, alla procura, alla stampa, ed è con ogni probabilità in buona parte mendace all’origine.
Non per niente è significativo che la procura del CONI, dunque non quella giudiziaria ma quella sportiva, apra di gran carriera le proprie indagini sulla base dei “fatti riportati dalla stampa”!
Certo che la notizia – in quanto confessione di una colpa – è in concreto, nel suo nocciolo duro, molto attendibile (sempreché non ci siano state alterazioni nella catena sopra descritta: ma per amore di riflessione diamo per scontato che non ne siano avvenute di sostanziali: se invece fossimo un’istituzione dovremmo andare con i piedi di piombo).
Tuttavia in una notizia del genere il nocciolo duro cioè “Riccò si è dopato” è forse l’elemento meno importante: chi crede che il doping sia onnipervasivo o quasi nello sport professionistico non poteva avere dubbi che Riccò, per continuare ad esercitare la propria professione, avrebbe continuato a doparsi; coloro che invece credono che il dopatus pervicax sia un esemplare moralmente corrotto, comunque particolare e distinto dalla pletora di sportivi relativamente immacolati, ebbene costoro perlopiù non hanno mai creduto a una redenzione di Riccò.
Quello che è assai più interessante, anzi addirittura decisivo, è riflettere su una serie di corollari rispetto a quella verità sfolgorante, così sfolgorante da abbagliare la vista: per riflettere però ci vuole un po’ di tempo, i giorni – peraltro ancora insufficienti – che Ilciclismo.it ha deciso di prendersi a differenza delle tante voci che si sono levate in un ululato quasi unanime di orrore.

2. IL RISPETTO PER LA VITA UMANA
La prima doverosa considerazione è che il motivo principe per cui si dovrebbe lottare contro il doping, ovvero per tutelare gli atleti, un motivo che questa vicenda illumina in maniera chiarissima, non deve essere poi così rilevante agli occhi di chi del ciclismo fa parte. Il ritornello degli atleti è “la vita è la sua”, “mi dispiace per la sua salute ma il problema se l’è creato con le sue mani”, “è un idiota”, “dovremmo spedirlo sulla Luna”, “è una carognata alla famiglia di Aldo Sassi”; semmai ci si preoccupa naturalmente dell’immagine del ciclismo, dell’ingiustizia per cui ci siano in circolazione dei bari siffatti e così via. Insomma “se l’è cercata”, “ci fa fare brutta figura” e tutto il resto in secondo piano.
Parole forti, prescindendo completamente dal fatto che si parli di una persona in carne e ossa, che in quel momento si trovava ancora ricoverata in ospedale con una prognosi riservata: non è ipocrisia rispettare per almeno un piccolo lasso di tempo la nuda, fisica, umanità di chi sta soffrendo, trattenendo nel silenzio i propri aspri giudizi, riservandoli al momento in cui almeno la salute sia stata garantita; non volere infierire ulteriormente su chi, sia pure per propria colpa, prende coscienza proprio in questi momenti di avere distrutto la propria vita, per fortuna solo parzialmente sul piano fisiologico, ma più profondamente su quello esistenziale. No, il ritegno non sarebbe mai stato ipocrisia, è invece senso delle priorità: prima la vita e l’umanità da rispettare anche in chi sbaglia gravemente, poi le gare, gli ordini di arrivo, l’immagine. Invece purtroppo ciò che emerge da questa raffica di dichiarazioni è che per istinto si pensa prima al ciclismo poi alla vita: e questa, non è caso, è la mentalità in cui alligna il doping, per paradosso espressa in modo brutale e inconfondibile all’atto di condannare un dopato.

3. IL CICLISMO “DI IERI” E QUELLO “DI OGGI”
Semmai la vera e opprimente ipocrisia è quella di chi si sente in dovere di calcare la mano contro il dopato sperando così di, appunto, “salvare l’immagine del ciclismo”, e nel frattempo magari anche la propria: perché naturalmente è implicito in chi aborre la mostruosità di Riccò che i suoi orrori siano casi estremi, ormai non più diffusi “come un tempo” visto che oggi il ciclismo “si sta ripulendo”.
Ma quante volte abbiamo sentito questo ritornello? Sempre con un decennio di ritardo (o gli otto anni della prescrizione?) si arriva ad aprire gli occhi che “sì allora erano tutti dopati, non come ora che siamo sulla strada buona”. Prima l’era delle emotrafusioni di stato italiane, dei record dei campioni conconiani in ogni sport, più tardi la Gewiss dei miracoli… Ormai verità pressoché assodate, condivise. Finiscono gli anni Ottanta, cominciano i Novanta. La super PDM si ritira in massa dal Tour del 1991 con problemi di salute presumibilmente legati a coprenti per l’emodoping. Ma quando vince il Tour Riis a che punto siamo? Poi c’è lo scandalo Festina, ma a seguire finalmente con Armstrong al Tour non si vedono più positività. Salvo scoprire che cosa si combinava in Telekom, e non tarderà ancora a lungo la verità sulla stessa squadra del texano, corroborata da testimonianze sempre più numerose oltreché dall’impressionante sequela di positività per atleti che ne provenivano. Vogliamo dimenticare lo scandalo Kelme, e quello Phonak, e quello Gerolsteiner?
Avrete notato che sono stati citati tutti casi di doping massivo, da parte delle principali squadre, al punto che i protagonisti di quegli anni finiscono sempre per dichiarare che “all’epoca” quelle brutture erano sistematiche, coinvolgevano proprio tutti con pochissime eccezioni. “Dopo” sì che lo dichiarano, eccome. “Oggi” invece vogliamo sapere chi parla del caso Riccò? Ne parla Rolf Aldag, meno di quattro anni fa reo confesso di doping, e naturalmente trincerato dietro al “lo facevano tutti”, “ce lo faceva fare la squadra”: oggi direttore sportivo alla HTC. Ne parla Sean Kelly, indimenticato campione e ora anch’egli manager e sponsor di un team, ma che nel 1991 era proprio in quella PDM costretta all’inglorioso ritiro. Perché tutti loro dicono che “da Riccò se lo aspettavano”, che “non l’avrebbero mai preso nella propria squadra”, che bisogna “bandirlo per sempre dallo sport”, ma nessuno di loro fa un paragone tra l’esperienza del modenese e la propria, di dopati in prima persona? Non sono forse loro i più titolati a spiegare che cosa può spingere un corridore a rischiare la salute?
E perché mai poi “non avrebbero preso” il dopato Riccò nella propria squadra, ma loro che pure furono dopati ne possono gestire una? Perché loro erano “obbligati dal sistema”, certo, un sistema che oggi “non esiste più” anche se gran parte delle squadre odierne sono gestite non solo da corridori di quei periodi, ma perfino da corridori coinvolti in prima persona in gravi scandali connessi al doping: in mezzo agli spropositi lunari del team di Armstrong sono cresciuti pedalando o amministrando Vaughters della Garmin, Stapleton ancora della HTC e naturalmente Bruyneel; Breukink della Rabobank era in quella PDM, Riis e Gianetti sono ormai casi emblematici…
Lasciamo dei pietosi puntini di sospensione, e lasciamoci condurre all’elemento che sorge spontaneamente da questa prospettiva, il contrasto tra il singolo e il sistema.

4. LA TEORIA DELL’ASSASSINO SOLITARIO
La prima ovvietà che salta agli occhi è che gran parte dei commenti prende per buona, anzi per ottima, la versione fornita da Riccò in merito alla pratica autonoma e individuale di un’autotrasfusione più “auto” che mai. Addirittura la massima autorità della Federciclo, il presidente Di Rocco ci tiene a precisare che “qui non si tratta di consiglieri sbagliati, di apprendisti stregoni, della piovra occulta che stiamo tentando di combattere e sradicare”. Riccò è proprio il dopato perfetto perché “ha fatto tutto da solo”, è “malato dentro”, praticamente un pazzo isolato. Insomma, la vecchia storia di Oswald che tutto solo e di propria iniziativa spara a Kennedy perché “intossicato da falsi messaggi” che “gli hanno fatto perdere il senso della realtà”… si possono perfino applicare le stesse parole che usa Di Rocco per Riccò!
In tutto questo tutti si scandalizzano (e pare Riccò per primo, nel segnalare il dato come fonte di preoccupazione) per i 25 giorni di sangue in frigorifero, quando a un qualunque donatore AVIS viene detto che il sangue non è latte fresco o una bistecca e quindi, essendo tendenzialmente sterile, in “frigo” si può mantenere quasi tre mesi. Si vorrebbe sperare che Riccò, anche facendo tutto da solo, un giro su internet se lo fosse fatto, almeno abbastanza da sapere che il problema non è di giorni, in quel lasso, ma semmai di temperature. Allo stesso modo qualunque donatore AVIS sa che al fine di prelevare più sangue che non quello nelle provette da esami serve un apposito macchinario, e apposite apparecchiature, non attrezzi di tutti giorni o che si possano nascondere con grande facilità da un momento all’altro. Viceversa la rinfusione non richiede macchine, ma un ago di foggia peculiare e notevolissimo diametro, al cui paragone l’endovena autopraticata da un tossicodipendente è uno scherzetto.
Nessuno si è preoccupato di raccogliere simili informazioni per “pesare” la credibilità della “confessione” di Riccò: era troppo comoda così. Riccò che fa da solo risulta automaticamente convincente perché piace credere che sia quasi un caso unico, la sua è un’anomalia, non è legata in nessun modo a un sistema.

5. UNA STORIA GIA’ SCRITTA
Riccò però è anche il dopato perfetto per un altro motivo, cioè perché – per così dire – tutti sanno che è dopato, è sempre stato dopato, non smetterà mai di doparsi. O almeno questo è quello che pensano tutti. Inoltre Riccò è così, e bisogna sottolineare quel verbo essere, perché lo è di carattere, di natura. Lo dice molto bene Cancellara: Riccò è quel “kind of person”, quel genere di persona. “Once an idiot, always an idiot”, “idiota una volta, idiota per sempre”.
Il problema è che forse non è così facile “conoscere” davvero una persona. Molto più spesso ricaviamo dal contesto un’idea su come una persona sia, e se questa idea è funzionale alle circostanze molto facilmente riusciamo a inserire perfettamente nella cornice di quel quadro tutte le immagini che recepiamo di una persona. Raramente possiamo dire di conoscere bene i nostri vicini di casa, i colleghi, perfino i familiari, talora compiono azioni che ci sorprendono e ci fanno capire come il nostro parere su di loro fosse pigramente sedimentato più che reale. A volte il giudizio altrui su di noi ci lascia altrettanto interdetti. Nonostante questa esperienza quotidiana sull’incomunicabilità dei modi di essere, tutti noi dalla televisione o da tre interviste crediamo di “conoscere Riccò”, così come lo credono i suoi colleghi che l’hanno magari incrociato per dieci minuti in gara ma che verosimilmente lo giudicano solo dall’immagine mediatica, o peggio sulla base di istruzioni che ricevono dall’alto; se non proprio istruzioni, diciamo input del direttore sportivo, dell’aria che tira, dell’UCI e così via.
I cosiddetti fatti insegnano ben poco, perché si inquadrano sempre nel quadretto preparato ad hoc.
Cancellara “ha carattere”, Riccò “è arrogante”. Pozzato è “guascone”, Riccò è “strafottente”. Di Luca ha “carisma da capitano”, Riccò è “egoista”. Cavendish è “immaturo”, Riccò è “odioso”. Non che un aggettivo sia giusto e l’altro sbagliato, semplicemente sono tutte persone che non conosciamo e che però ben volentieri equipariamo ai loro “personaggi”, magari facendo pendere la bilancia un po’ di qua o di là.
E così si sente dire che Riccò era dopato “fin da piccolo” perché “già adolescente aveva l’ematocrito alto”. Invece, ad esempio, Cunego con lo stesso identico “problema”: “ha l’ematocrito naturalmente alto, basta guardare i certificati di quando – da ragazzo – sicuramente non si dopava”. Non finisce qui. Cunego (53% circa) ha avuto subito il certificato, Riccò (51%) invece ha subito varie sospensioni per il medesimo motivo prima di ottenerlo “con gli intrighi di Gianetti”. A nessuno viene il dubbio che un 53% sia più “stabilmente sopra il 50%” che un 51%, e che quindi l’ottenimento del certificato sia nel secondo caso più complicato per un normalissimo altalenarsi dei valori sopra o sotto la soglia arbitraria; e che le varie sospensioni dipendano di conseguenza da quest’unica causa. Come è avvenuto pari pari a Cioni o a Gustov, vale a dire due corridori sui quali, sinceramente, non si capisce perché qualcuno dovesse fare “intrighi”.
Invece fatti uguali producono interpretazioni diverse, perfino opposte: da un lato la faccia pulita del ciclismo (anche se nel Giro vinto da Cunego il suo angelo custode aveva la grinta poco raccomandabile di Eddy Mazzoleni), dall’altra il mostro che si dopa fin da ragazzino.
Senza voler dire che Cunego, Cioni o Riccò siano per forza puliti (Riccò, lo sappiamo, non lo è di sicuro), quello che colpisce è che situazioni identiche diano adito a letture opposte, anche molto ricche di immaginazione. Se ci fidiamo di questi benedetti certificati bene, se no potremmo sospettare che il 53% sia stato regalato generosamente a Cunego per qualche intrigo, mentre potremmo viceversa sostenere che le molte sospensioni per il medesimo motivo a Riccò, senza la concessione del certificato, siano il frutto di una cattiva disposizione verso il modenese. Illazioni, tutte illazioni, nient’altro che sciocche illazioni. Ma con le illazioni si formano storie, questo è il problema, e ad alcune ci piace credere, ad altre meno: per una faccia, una mezza parola, un articolo della Gazzetta. Mai per un fatto che sia un fatto.

6. NOI NON FACEMMO MINACCE, NOI DIVINAMMO PROFEZIE
Dalle storie a cui tutti credono nascono le profezie. Cavendish si mette a dire un annetto fa che Riccò è un parassita e che l’avrebbe preso a pugni. Anche solo questo gennaio, prima degli ultimi fatti, Richie Porte riteneva di sentirsi obbligato – in maniera del tutto inconsulta – ad esprimere un parere poco lusinghiero sul modenese. Bettini aveva già dichiarato, sempre prima degli ultimi fatti, che non lo considerava per la Nazionale perché anche se le gambe c’erano, non c’era l’uomo. Andy Schleck si era già premurato di mitragliare dichiarazioni al curaro prima durante e dopo la scorsa squalifica. L’imparzialissimo presidente dell’UCI Pat McQuaid aveva informato il mondo che “la squadra che avrebbe preso Riccò si sarebbe pentita molto amaramente”.
Il ciclismo è spesso sport assai imprevedibile, il mondo del ciclismo lo sta diventando sempre meno (in molti bar l’anno scorso si diceva già fin dall’inizio della stagione che nessun corridore sarebbe stato in grado di battere Contador al Tour, ma che ad ogni modo il Tour 2010 sarebbe stato in qualche maniera scippato al madrileno. Dopodiché…).
E così anche su Riccò tutti sapevano in che direzione tirava il vento, sentivano l’odore elettrico della tempesta che si addensava, solo non si sapeva il modo in cui sarebbe caduto il fulmine: Riccò, dal canto suo, è andato in giro con un’antenna in testa.
Perché mai un presidente dell’UCI dovrebbe fare dichiarazioni su un singolo atleta che ha finito di scontare la sua pena? E un Richie Porte qualsiasi, che forse Riccò nemmeno l’ha mai visto, che cosa mai lo spinge a esprimersi con parole pesanti prima ancora di questi sviluppi, l’amore per l’ordine, la disciplina e la pulizia nel ciclismo o magari il fatto che il suo procuratore sia proprio il figlio dello stesso McQuaid?
Troppe dichiarazioni mirate, telecomandate, missili a ricerca termica che oltre a colpire avvisavano tutti gli altri: quando qui cascherà l’asino, tutti gli avvoltoi si lancino al banchetto.
Di dopati rientrati dopo le squalifiche ce ne sono stati parecchi, qualcuno – come Basso – direttamente in una grande squadra e ammesso senza tante storie a Giro e Vuelta, anzi incensato senza remore. Vinokourov ha ricevuto un bel po’ di improperi, ma nessuno ha minacciato “amari pentimenti” a nessuno. Di Luca, facendo muso duro in faccia alle polemiche, rientra in una squadra Pro Tour. La vicenda doping del simpatico Scarponi è rimossa del tutto, non ne restano nemmeno vaghi echi o allusioni. Riccò non è certo il solo a ricevere un trattamento a muso duro, anche Rasmussen ad esempio non ha vita facile.
Il punto però è che al di là delle squalifiche, spesso già di per sé poco chiare, sussistono dei comportamenti del tutto estranei alla legittimità delle regole che rendono alcuni atleti perennemente sospetti, perennemente banditi. Se per caso salta fuori qualche altro “problema”, è solo una facile profezia che si realizza.

7. IL MURO
Sarebbe facile – per non dire ingenuo, per non dire del tutto insipiente – sostenere che l’ostilità dell’ambiente si addensi così corposa su certuni proprio perché la gente del giro “dal di dentro” sa che questo o quell’atleta sono “più dopati degli altri”. Infatti ci vuole poco a smentire che il detestabile fenomeno qui sopra descritto sia innescato da un’innata voglia di correttezza: Bettini (al di là delle proprie vicende personali vicine al limite dei “guai col doping” ma mai dimostrabilmente oltre) non ha mai detto una parola su Museeuw, forse il più grande campione di ciclismo tra anni ’90 e 2000, con il quale ha corso per anni, e che sventuratamente ricorreva a doping perfino con farmaci veterinari. Porte idolatra come maestro personale un uomo quale Bjarne Riis, che oltre alle proprie personali quisquilie dichiarava di seguir Basso fin dentro alla doccia, ma poi fu “sorpreso” di scoprirlo da Fuentes. Il fratello di Andy, non un collega o un lontano cugino, è quel Frank Schleck che implicato soli due anni fa con lo stesso Fuentes per propria confessione, e ormai destinato alla squalifica, venne salvato d’imperio dalla federazione lussemburghese: allora l’UCI tacque compiacente, invece che minacciare ricorsi infiniti contro il vergognoso insabbiamento.
Non si dica quindi che Riccò era al centro del mirino perché chi lo bersagliava aveva una personale insofferenza contro il doping, un impellente desiderio di giustizia…
Riccò però era antipatico in gruppo. Questo è indiscutibile. Anche il “buon” Cavendish, tuttavia, non è un mostro di simpatia, ma lui non riceve certi strali, semmai li tira. Anzi, l’esplosivo britannico nell’anno 2010 causò con il proprio comportamento ai limiti del criminale, tali danni fisici (a proposito di tutela della salute) a Boonen e ad Haussler da compromettere le rispettive stagioni dei due fortissimi rivali, ed in particolare un Mondiale a entrambi favorevolissimo. Nondimeno, nessuno si sogna di tartassare Cavendish, benché si sia trasferito in Toscana nel “triangolo delle Bermuda” del doping e benché corra in un team che ha, come si diceva, tra le proprie inappuntabili credenziali la guida da parte di personaggi come Stapleton e Aldag.
Per esclusione, dunque, non è il fatto di essere dopati a causare l’ostracismo collettivo, e nemmeno il fatto di per sé di essere odiati per i propri atteggiamenti egoisti, strafottenti ed aggressivi.
Il vero dramma è che le dichiarazioni contro i colleghi “sgraditi” fanno probabilmente parte delle imposizioni ambientali e sistemiche (oltreché sistematiche) più o meno dirette, più o meno ben volentieri assunte come proprie, che un ciclista deve accettare, alla pari del doping, per poter fare parte di questo mondo. Non a caso l’antipatico Cavendish è in realtà un vero e proprio “alfiere organico” della dirigenza UCI, sempre pronto a schierarsi al foglio firma delle corse da promuovere, ma soprattutto sempre il primo a sottoscrivere i più indigeribili documenti che erodono la dignità dei corridori.

8. RICCO’ TESTA DI PONTE DELLA RADIAZIONE
Riccò dunque è agli occhi del mondo il dopato perfetto. Dopato per inclinazione naturale, dopato irriducibile e individuale, non vittima di medici o squadre o dello sport in senso lato. Dopato da sempre, per tautologia. Tutt’altro che per coincidenza, già bombardato da un’ostilità priva di inibizioni quanto gratuita prima, durante e dopo la precedente squalifica. Insomma, il caso ideale su cui sperimentare e pubblicizzare un nuovo cavallo di battaglia per mettere il ciclismo all’avanguardia nel vilipendio dei diritti degli atleti: la radiazione. Nessuno, noi per primi, forse anzi nemmeno Riccò, potrebbe avere niente da ridire in merito: seconda squalifica, grave, ravvicinata, in più forse la carriera potrebbe già essere compromessa dai problemi di salute. Si creerebbe però così una sorta di precedente che faciliti l’adozione più estesa e “liberale” di questo odioso strumento. Già autorevoli testate come Cyclingnews accostano Di Luca a Riccò, sostenendo che potrebbe rendersi utile una radiazione preventiva di atleti molte volte recidivi (anche le assoluzioni contano come condanne per questi implacabili giustizieri che difendono a spada tratta Armstrong). La deriva verso un apparato di potere (ancor più) smisurato, (ancor più) asimmetrico, (ancor più) autocratico nelle mani di chi “controlla i controlli” è però un rischio terribile, per quanto ci riguarda da scongiurare a ogni costo.

9. DUE SUPPOSIZIONI SCOMODE
Partendo da questo panorama inquietante, in cui si inserisce la singola tristissima vicenda, dobbiamo avanzare due ipotesi molto scomode.
La prima è che il passaporto biologico funziona dannatamente male, e/o che il Centro Mapei non garantisce un bel nulla: si ha un bel dire che il passaporto non trova perché i corridori si tengono “sempre su” di sangue, quindi con valori stabilmente alti; ma in tal caso avrebbe dovuto allertarsi il Centro Mapei che controllò Riccò (con il metodo della massa di emoglobina) prima della trasfusione, e che invece si giustifica dicendo che Riccò non aveva “ancora” elevato i valori. Senza dire del fatto che Riccò è “passaportato” da un bel pezzo, e che lo strumento si vorrebbe ben più sofisticato che un “su o giù” generale. Così come nel caso di Contador possiamo dire che o Contador è moralmente innocente, e crediamo alla bistecca (ipotesi non meramente peregrina); oppure ci affidiamo all’altra più plausibile via, di una rinfusione ematica con clenbuterolo residuale, implicante però la totale inefficacia del passaporto. Se a ciò si assomma la vicenda di Pellizotti, lo scenario presenta più ombre che luci.
La seconda ipotesi, non alternativa ma anzi aggiuntiva alla prima, è che Riccò oltretutto non sia il dopato perfetto, ma viceversa un dopato imperfetto. Un dopato di basso livello. Anche ammesso che non abbia fatto tutto da solo – il che sarebbe letteralmente il colmo dell’artigianato, un bricolage dagli esiti inevitabilmente infimi – evidentemente i suoi referenti non devono essere poi così fenomenali. Riccò non è povero, ma a quanto pare i suoi soldi non bastano per assicurarsi un’assistenza al doping di alto livello, o chissà non vuole investirci tanto denaro quanto fanno altri, supportati magari dai team, o ancora Riccò è troppo fuori dai giri giusti, è un personaggio sospetto, già noto ai poteri giudiziari ma soprattutto inviso alle alte sfere del ciclismo federale e internazionale. Di fatto, in queste medesime condizioni di rischio, sospetto e ostracismo Riccò lo è da una vita: quindi questo brutto finale di partita dovrebbe paradossalmente suggerirci che confrontandolo con il livello del doping “che conta” il dopato Riccò è… meno dopato degli altri. Non certo per scarso impegno da parte sua in quella direzione, evidentemente, ma proprio perché la sua posizione non doveva essere poi tanto vantaggiosa nemmeno da questo punto di vista.
Se ci pensiamo solo per un attimo ci rendiamo conto che – tornando ai grandi casi eclatanti che hanno segnato gli ultimi due decenni – gran parte delle verità emerse sui metodi di dopaggio più strutturati, avanzati e capillari (e dunque in ultima analisi quelli più determinanti) non sono state frutto dell’antidoping, bensì di altri filoni di indagine esterni al ciclismo, o al più da eventi infausti che però, a differenza di quanto accaduto a Riccò, sono stati tacitati pur nella loro maggiore evidenza. Solo dopo, molto dopo, e per altre strade, ci arrivano le abnormi verità su Moser e su Conconi (per fare nomi simbolici, non per segnare a dito le persone), sulla PDM, sulla Telekom, sulle squadre di Armstrong. Incredibile veder cadere come pere cotte i gregari del texano appena avevano l’ardire di uscire dal magico scudo per farsi capitani. Festina e OP smascherate non certo dai controlli, ma dalle polizie.
Il dottor Del Moral che secondo i testimoni dell’epoca scriveva prescrizioni retrodatate per Armstrong possiede un’intera clinica, se qualcosa va storto i suoi pazienti non finiscono in un pronto soccorso a Pavullo. Saiz collaborava con fior di ematologi che si servivano delle strutture ospedaliere pubbliche, per cui se qualcosa fosse accaduto anche al pronto soccorso stesso, c’era una buona chance che non finisse a referto. Grandi campioni non solo del ciclismo afflitti d’un tratto da malanni inspiegabili sono stati aviotrasportati da una parte all’altra d’Europa per essere curati in ospedali compiacenti.
Perché mai oggi dovrebbe essere diverso? Se come si dice il doping al top level fosse calato, i grandi medici di altissimo livello avrebbero meno clienti, meno fila alla porta, tariffe più accessibili. Non ci sarebbe bisogno di servirsi presso i faccendieri, i farmacisti, i dottorucoli della mutua rintanati nella provincia più provinciale, negli anfratti collinari d’Abruzzo, a Gorgo, tra i capannoni padovani, sull’Appennino.

A quanto pare la favola non dev’essere proprio come ce la raccontano, e – come è sempre stato – nel controllo antidoping o nell’evento infausto finisce per incappare chi vola basso, chi razzola come un pollo nell’aia di campagna, non certo chi si può permettere le ali a reazione, quelle che fan decollare gli asini e scavalcare tanto i colli come i controlli.

Non a caso il succitato Del Moral lavorava fino all’altroieri per la severissima e pulitissima Garmin-Cervélo. Adesso, solo adesso, Vaughters sostiene di aver infine liquidato il corridore Lowe e il dirigente White compromessi con costui non appena scoperto il fatto, ma le pieghe della vicenda suggeriscono semmai che quel corridore – in odore di esser scaricato per motivi di età – abbia provato il ricatto, rivelando la continuità tra l’ormai notorio sudiciume USPostal e il candore a rombi del “nuovo corso”: a quel punto Vaughters avrebbe deciso di salvarsi in corner atteggiandosi a sdegno (incredibile come questi dirigenti altrimenti così attenti siano sempre inconsapevoli di…), e scaricando anche Matt White, colpevole del legame proibito ma soprattutto in trattative con un’altra formazione. Proprio White si è subito consolato, in meno di dieci giorni, con la nomina a responsabile del settore “Professionisti su Strada” dell’Australia, nazione vergine, fiorente di meravigliosi intonsi talenti: non male per uno licenziato sulla base di un motivo siffatto.

10. UN AUGURIO TRISTE SOLITARIO E FINALE
Non solo quella di Riccò, ma anche quella di White (e Del Moral, e Vaughters, e Lowe) sono storie altamente simboliche, oltreché tremendamente reali, che ci dicono tanto sul ciclismo di oggi, e non solo di oggi. Vanno necessariamente accostate per capire che cosa accada nell’una, e nell’altra. La storia di Riccò, da sola, non dice nulla: “Riccò è dopato”. L’abbiamo sempre saputo, grazie.
Ma i dopati sono tanti, ovunque, non solo nelle pagine che generosamente la Gazzetta regala al ciclismo su questo tema, non solo nelle liste di proscrizione dei padroni del vapore presso Aigle.
Eppure il talento non si inventa col doping. Bisogna continuare ad amare questo sport per gli sprazzi di talento a cui talora concede di brillare, che siano australiani o emiliano-romagnoli, senza illudersi che in questo o in quell’altro emisfero ci sia spazio per una purezza assoluta, che più viene reclamata più puzza di fasullo, di detersivo convocato a lavare ben altri panni sporchi.
A Riccò l’augurio di ritrovare la salute del corpo, e un nuovo, diverso equilibrio per la sua vita. La reazione di rigetto del corpo al proprio sangue è in un certo senso la medesima che l’organismo del ciclismo ha avuto verso il corpuscolo Riccò, che in se stesso potrebbe ben rappresentare il sangue, la linfa vitale, del ciclismo stesso: il coraggio, la sfida, lo scatto in salita, ma anche l’ambizione, la supponenza, l’intrigo, che ormai sono parte del DNA di questo sport non meno che la strada.
Riccò è il ciclismo, nel bene e nel male.
Riccò ormai dovrà de facto cambiare.
Il ciclismo deve, assolutamente, cambiare.
Per avere un giorno più Cervélo e meno Del Moral, più UCI e meno McQuaid (anche nel senso di McQuaid meno numerosi, ora ce ne sono tre o quattro!). Più Riccò in bici e meno Riccò attaccati a una flebo.

Gabriele Bugada

Comments

5 Responses to “RITO IMMEDIATO PER RICCO’, IL DOPATO (IM)PERFETTO”
  1. Emiliano scrive:

    Finalmente una voce degna, equilibrata e preparata e per questo lapidaria, preziosissima. Fuori dal coro per indole e natura, non per circostanza. Articolo bellissimo, finale che racchiude il senso della nostra epoca triste. Non conoscevo Gabriele Bugada, lo leggo oggi per la prima volta; se non altro la triste vicenda Riccò mi sarà servita a questo. Grazie.

  2. gabriele scrive:

    Anche il giovane statunitense Tejay Van Garderen, esploso al professionismo alla Vuelta dell’anno scorso, membro guarda caso dell’HTC, espone il suo parere su Riccò:
    1- ero sicuro l’avrebbe rifatto; una persona con quella arroganza ce l’ha attecchito, incrostato nella sua mente.
    2- Sono felice che non dovrò mai più correre contro di lui. Sono contento che stia bene ma non mi dispiace affatto per lui.
    3- Anche se sono in giro da pochi anni sentendo i miei colleghi, ed essendo in uno dei team più vincenti al mondo, vi posso assicurare che ciò che facciamo noi è interamente puro. Interamente pulito.
    4- Il ciclismo è più pulito di quanto non sia mai stato.
    5- Si rovina l’immagine del ciclismo facendo perdere la fiducia alla gente proprio ora che il ciclismo è in una posizione migliore. Là fuori rimangono solo una o due mele marce.
    Mi sono limitato a tradurre letteralmente, ma è veramente inquietante come questi poveri ragazzini poco più che ventenni ripetano in modo automatizzato le medesime, prevedibili frasi rituali. Sembra davvero un copione teatrale imparato a memoria, impersonato da automi programmati dall’alto, senza uno spunto solo di umanità o originalità.
    Ci tengo a precisare che queste dichiarazioni sono successive all’articolo, ma potrebbero perfettamente esserne invece alla base… Sempre questa terribile sensazione di prevedibilità.
    Un cordiale saluto.

  3. Alberto scrive:

    Mi complimento con Gabriele Bugada per la precisione, la competenza, l’amore per il ciclismo (quello vero), la sensibilità e, in una parola, l’intelligenza che traspare cosi’ vivida da questo magnifico scritto. Era difficile commentare questo momento e lei ci è perfettamente riuscito, al punto da indurmi a lasciarle questo modestissimo ringraziamento. Idealmente l’abbraccio.

  4. Manuele scrive:

    Ottimo articolo! Complimenti all’autore

  5. andrea scrive:

    Caro Bugada, hai detto delle sante verità… ora avrai difficoltà a trovare i pass per gli arrivi delle corse… e forse avrai anche difficoltà a farti rilasciare intervista da qualche corridore, egualmente dopato, che ha dovuto aspettare la “disgrazia” di Riccò per vendicarsi a parole delle umiliazioni sportive patite sulla strada…
    Infine, il C.T. Bettini… odia Riccò da quella volta che perse un volata ristretta alla Coppi e Bartali, quel giorno che nacque il “Mostro Riccò”… non gliel’ha mai perdonata…

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