BERGAMO, NOTA AL MARGINE: “BASTA MORTI IN BICI”

maggio 22, 2023
Categoria: News

Ancora una fuga, ancora una bella schermaglia a tre, ancora il peloton pateticamente al pascolo. Il Giro non alza la testa, e il ciclismo nemmeno: da bordo strada si protesta per le morti in bicicletta, il movimento tace.

Un’altra tappa che ci scorderemo facilmente. Si scordano tante cose, dopotutto. Soprattutto i morti. A Bergamo spunta il sole, i bordi delle strade sono stracolmi di gente allegra per il Giro. Gran parte del gruppo si scorda di correre. Sarà l’abitudine. “Lo sa che io ho perduto un Giro?”, dirà un giorno qualcuno. “Signore, lei è un corridore professionista piuttosto distratto”, potrebbero rispondergli. Un’altra tappa è andata, la sua musica finita, col gruppo spanciato anche in salita. Va detto che i ciclisti in genere non sono distratti, altrimenti ci lasciano la pelle. Le cicliste nemmeno, naturalmente: anche loro ci lasciano la pelle. Per fortuna la Regione Lombardia qualche anno fa si è premurata di raccogliere tutti i dati sugli incidenti stradali con vittime in bicicletta: così alla faccia delle reti sociali e della fauna che vi imperversa sappiamo che in bici sostanzialmente si muore senza colpe proprie. Travolti dal solito destino, cioè dal solito guidatore immancabilmente sconvolto. Ex post. Lo stesso che magari fino a un attimo prima dell’incidente si stava dedicando a uluare col clacson contro le biciclette, a superare facendo il filo per ripicca o terrorismo, oppure, perché no, a girare un video e redigere invettive contro i ciclisti sulle stesse reti sociali di cui sopra. Fino a un attimo prima – o magari direttamente durante l’incidente. L’uso del cellulare alla guida scalza droghe, alcol o velocità in vetta alle cause di sinistro. L’automobilista, in effetti, è in genere distratto. D’altronde meglio così, duole meno pensare alla distrazione che non all’accanimento, quando ci scappa un morto. Non che i casi di accanimento conclamato latitino, fra pestaggi e inseguimenti per travolgere apposta il reo ciclista. Magari quello sbagliato, come accaduto a Milano: aggressione e distrazione, perché scegliere una sola delle due se si può scadere in entrambe?
Numeri alla mano, dunque, ciclisti e cicliste non muoiono per distrazione propria, e piuttosto sorprendentemente non muoiono nemmeno per indisciplina. “Sorprendentemente” perché, è vero, in bicicletta può esistere un’intrinseca resistenza a farsi disciplinare. E per fortuna, perché chi pedala ne ha ben donde: in Italia lo si fa tra le maglie di una normativa antidiluviana e programmaticamente ostile, quando non già discriminatoria. È l’eredità squallida e cancrenosa di un passato industriale, anch’esso ormai in condizioni terminali, ma ai cui diktat continuano a improntarsi tanti nostri modi di vivere e di pensare. La coazione a ripetere e l’impotenza della politica hanno fatto il resto: le norme di circolazione italiane così come le infrastrutture specifiche per la bici sono orribilmente obsolete nel migliore dei casi, dannose nel peggiore. È davvero meritorio che si riesca ad andare in bicicletta ovviando alle regole più inaccettabili senza che tali infrazioni della “disciplina” si traducano in incidenti. D’altronde i ciclisti e le cicliste, già si è detto, sono tutt’altro che distratti, e sono pure alquanto interessati alla propria integrità fisica, della quale per il resto nessun altro sembra preoccuparsi granché. Di qui il miracolo di riuscire a farsi ammazzare da innocenti, in un mondo dove di innocenza ne resta ben poca.
Tutto questo lo sappiamo bene, perché scriverne oggi? Lo sappiamo benissimo, anzi, visto che fra l’aprile del 2017 e il novembre del 2022, nel breve volgere di una manciata di anni, sono stati uccisi in sella alle loro biciclette due fra gli atleti professionisti più di spicco del movimento ciclistico italiano, Scarponi e Rebellin. Probabilmente fra i dieci corridori principali che l’Italia abbia avuto in questo squarcio di secolo. Rebellin è stato ucciso meno di sei mesi fa. Ma, come premesso, si scordano tante cose, soprattutto i morti.
A Bergamo è stato investito e ucciso un uomo in bicicletta martedì scorso. Non è passata nemmeno una settimana. È successo a meno di due chilometri da dove il Giro ha posto il proprio festoso traguardo. Bergamo non se n’è scordata. O qualcuno non se n’è scordato a Bergamo. Sulla Boccola, dove i ciclisti sono transitati due volte, in mezzo a due fittissime ali di folla, era esposto un gigantesco striscione: “Basta morti in bici”. Le riprese televisive non ci si sono soffermate più di tanto, anzi sono parse evitarlo. O forse è stata solo distrazione. La distrazione imperante a questo Giro, che coincide pericolosamente col fare il proprio più miope interesse.
Abbiamo scritto giusto un paio di giorni orsono delle pressanti preoccupazioni del sindacato ciclisti professionisti per la salute e sicurezza dei propri membri, in quel caso per via della pioggia. Mi domando se questa morte così recente, così prossima, non potesse o dovesse essere spunto per una nuova levata di scudi. Una parte consistente dell’attività del ciclista professionista si svolge in allenamento, su strade aperte: infatti non si contano gli incidenti, gli infortuni, le aggressioni, le risse. Nel bilancio dei rischi a cui va incontro chi fa il corridore per lavoro, la sicurezza stradale generale e una normativa che tuteli chi pedala dovrebbero essere una priorià assoluta.
Una parte del rischio sarà sempre ineliminabile, ma l’Italia ha un enorme problema specifico in quest’ambito. Un problema colossale. Infatti anche se a Bergamo forse non si nota, in Italia si pedala sempre di meno, e in proporzione si muore sempre di più, con cifre che da decenni si assestano fra i duecento e i trecento morti annui. A Milano nei tre mesi che separano i primi di febbraio dai primi di maggio sono state uccise tre persone in bicicletta. Ogni settimana vengono uccise sulle strade italiane fra quattro e sei persone mentre stanno pedalando. In Spagna, per confrontarci con un Paese per molti versi affine, l’uso della bicicletta – sportivo o meno – è invece in crescita vertiginosa. Il numero dei morti viceversa è crollato, in due successivi scossoni: ai primi Duemila e a metà dei ’10, a seguito di innovazioni nel codice di circolazione. Confrontando i dati dal 2018 ai più recenti disponibili, la Spagna si assesta sulla sessantina di vittime annue con valori anche inferiori a 50. L’Italia viaggia attorno alle 220 vittime. Ogni anno. Le vittime sono la punta di un iceberg che comprende in proporzioni via via crescenti e rapidamente mostruose anche: le lesioni incapacitanti, i feriti gravi, i danni economici, il senso di minaccia continuo per chi pedala, la discriminazione, il caos normativo, l’insicurezza fisica e legale, e quindi, dilagante, l’abbandono della bicicletta proprio in un momento in cui se ne impone l’imprescindibilità per una mobilità minimamente sostenibile.
Contador, nella cronaca televisiva per Eurosport, sbozza un ritratto da brividi di che cosa significhi allenarsi sulle strade italiane perché la gente in macchina guida terribilmente; è qualcosa, uno sprazzo di consapevolezza, ma parla in spagnolo e non lo ascolteranno gli italiani. Il tutto scade poi troppo facilmente nel folklore nazionale, “pensa un po’ l’Italia, i soliti caciaroni, girate al largo se potete”. Sarebbe stato interessante un paragone sui numeri e sulle normative, ma questo va forse chiesto ai giornalisti, più che a Contador.
La tappa di Bergamo è stata una nota al margine in questo Giro. Il gruppo che ha fatto scempio del primo tappone alpino minacciando scioperi in nome della sicurezza, ha poi insistito giorno dopo giorno in uno smaccato sciopero bianco. A poco è valso il sole di Bergamo, le strade asfaltate per tempo. Si è de facto bloccata la sede stradale subito dopo aver dato via libera senza colpo ferire a una fuga bislacca nella quale spiccavano fin da subito i nomi di maggior caratura per un tracciato altimetrico: McNulty, Healy, Mollema, Rubio rientrato dopo un lungo inseguimento solitario. Il resto era mero condimento, con le eccezioni di cui si dirà, più quella di Rojas, stoico in appoggio a Rubio. Nonostante un’evasione di Bonifazio arenatasi sui muri della Roncola, l’ordine di arrivo conferma pedissequamente le previsioni con l’unica aggiunta dell’indomabile giovanissimo Marco Frigo, che riuscirà a piazzarsi terzo. Divertente il duello fra Healy e Rubio per i punti di miglior scalatore, entrambi propensi a insidiare Bais e Pinot. Divertente la sfida in Roncola fra McNulty e Healy, col primo che allunga, il secondo che lo ripiglia e lo schianta nel tratto più ripido con uno scatto violento, poi lo statunitense rientra con una caccia quasi esasperante per equilibrio. Healy ci riprova sulla Boccola, ma non sgancia McNulty che lo liquida in volata, complice la presenza del terzo incomodo Frigo che dimostra un carattere d’acciaio nel fare l’elastico lungo tutti gli ultimi trenta e passa km. Fin. Il gruppo marcia in file orizzontali per monti e per valli. Stucchevoli accenni di allunghi su un paio di strappi, senza esiti di peso. Nessuna novità in classifica generale. Nessuna novità in generale, anzi.
Lo spettacolo l’hanno dato i margini. I margini della strada, stracolmi di gente riversatasi sulle strade per salutare questi pedalatori distratti. Gente che ha esposto tanti striscioni chiedendo di mettere fine alle morti in bicicletta. Ma il ciclismo era stanco, forse troppo lontano, e non ha ascoltato il loro dolore. E, quel che è peggio, non si è reso conto che quel dolore fosse anche il proprio.

Gabriele Bugada

La vittoria di Brandon McNulty a Bergamo (Getty Images)

La vittoria di Brandon McNulty a Bergamo (Getty Images)

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