HUSHOVD, UNA GRANDE PROVA DA THOR

ottobre 3, 2010
Categoria: News

Sarà Thor Hushovd a vestire la maglia iridata per i prossimi 12 mesi, grazie alla volata con cui ha nettamente regolato Matti Breschel e Allan Davis sul traguardo di Geelong, dopo che un tentativo inizialmente apparso decisivo di Philippe Gilbert era stato neutralizzato a 3 km dall’arrivo. Gara d’attacco per la nazionale italiana, che ha inscenato il tentativo di fuga più significativo di giornata ad un centinaio di chilometri dall’arrivo, annullato però al penultimo giro. Filippo Pozzato, 4°, è stato alla fine il migliore degli azzurri, con il rammarico di non avere impostato lo sprint nel migliore dei modi.

Foto copertina: Thor Hushovd indossa sul podio la maglia iridata appena conquistata, in mezzo a Matti Breschel, argento, e Allan Davis, bronzo (foto Luca Bettini).

Se non altro, un po’ come accaduto dodici mesi fa, in occasione del successo di Cadel Evans a Mendrisio, possiamo consolarci pensando che il titolo mondiale è perlomeno andato ad un atleta più che degno del trionfo, un corridore che fino ad oggi, pur avendo costruito un palmarès invidiabile, non aveva ancora colto la grande vittoria, quella che può far fare un salto di qualità alla carriera, e soprattutto al ricordo della stessa. Dove lo scorso anno era riuscito l’australiano è questa volta arrivato Thor Hushovd, 32enne di Grimstad, fra i pochi velocisti capaci di resistere alle andature sostenutissime imposte dalla nazionale italiana, prima di approfittare di un rettilineo finale in leggera ascesa che pareva disegnato apposta per le sue caratteristiche.
Pensare a quanto il norvegese meriti questa gioia è però per noi, come detto, solamente una consolazione, dal momento che a lungo abbiamo legittimamente sperato che a vestirsi d’arcobaleno fosse un azzurro. Impeccabile è stata infatti, pur nella sua spregiudicatezza, la condotta tattica italiana, una strategia di gara che ha riflettuto appieno l’indole battagliera e il passato di corridore assai incline all’attacco del nostro C.T., Paolo Bettini. Gli azzurri, dopo aver del tutto ignorato il tentativo dell’ucraino Kvachuk, del marocchino Elammoury, dell’irlandese Brammeier, e dei colombiani Tamayo e Rodriguez, arrivati ad un margine massimo di oltre 20’, hanno iniziato a farsi vedere regolarmente al comando nel corso del quarto giro sul circuito di Geelong, raggiunto dopo un tratto in linea con partenza da Melbourne, e, a 100 km circa dalla conclusione, hanno inscenato l’attacco che ha rischiato di decidere il Mondiale, e lo ha senz’altro caratterizzato.
Vincenzo Nibali e Matteo Tosatto hanno infatti dato il là, con le loro accelerazioni, alla formazione di un gruppo di 32 atleti, comprendente anche altri tre azzurri – Gavazzi, Pozzato e Visconti -, nonché alcuni dei principali favoriti della vigilia: Philippe Gilbert e Cadel Evans su tutti, ma anche Breschel, Greipel, Boasson Hagen e Roche. Con cinque italiani, tre belgi, tre olandesi, tre australiani e tre spagnoli a farne parte, la fuga, che è riuscita in tempi relativamente brevi ad acquisire un margine di 1’20’’, avrebbe quasi certamente avuto esito felice, non fosse stato per i nomi dei tre iberici presenti: Plaza, Zubeldia e Barredo. Vale a dire, neppure una punta, con Freire rimasto dietro assieme a Cancellara.
L’assenza di possibili pretendenti al titolo al comando ha così costretto gli spagnoli, storicamente – perlomeno in tempi recenti – poco propensi a sobbarcarsi il peso dell’inseguimento, a guidare la rincorsa, sostenuti soprattutto da Russia e Slovenia, decise a riportare in corsa rispettivamente Kolobnev e Bole, in mancanza dell’aiuto di Gran Bretagna e Stati Uniti, orfane degli staccati Cavendish e Farrar. Il vantaggio degli attaccanti è rimasto stabile fino al terzultimo giro, malgrado qualche fase di indecisione, finché, a 45 km circa dal termine, non è venuto meno il lavoro di gregari preziosi quali Hoste, Gerrans, Gavazzi e Tosatto (menzione particolare per quest’ultimo, autore di un lavoro monumentale). L’Italia, ancora in superiorità numerica, ha dovuto decidere come amministrare il vantaggio di uomini, optando alla fine per lanciare una serie di accelerazioni: Visconti e Nibali sulla prima ascesa, quindi solo il secondo sullo strappo successivo. Una scelta che forse, con il senno di poi, ha segnato il destino infelice dell’azione, ma che è andata molto vicina a consegnarci in pugno il titolo, allorché, sulla prima sparata del duo siciliano, al comando si è formato un drappello di dodici atleti, comprendente tre azzurri (i due sopracitati e Pozzato), due olandesi (Moerenhout e Poels) e due pezzi da novanta come Evans e Gilbert.
L’incapacità di trovare un accordo fra i dodici ha però costretto Nibali ad una nuova accelerazione, che ha consentito al fresco trionfatore della Vuelta di comandare in solitaria la corsa per qualche chilometro, prima che su di lui si riportassero Visconti, Serpa Perez, Chris Sorensen e Moerenhout. Gli altri sette non sono neppure allora riusciti a mettere in piedi una qualche collaborazione, finendo così per consentire il rientro del plotone principale, che non ha poi impiegato più di qualche chilometro per ricucire anche il gap dal quintetto al comando.
Anche in quella situazione, un arrivo allo sprint non era comunque ancora garantito, dal momento che i ritmi assai sostenuti delle ultime tornate, uniti al caldo che per la prima volta si è presentato in questa rassegna, aveva ridotto il gruppo ad una quarantina di unità. Il Belgio ha così provato ad inscenare un’azione di contropiede sull’ultimo strappo del penultimo giro, mandando in avanscoperta Leukemans prima di giocare la carta Gilbert. Il solo Pozzato è riuscito a tenere da subito la ruota del vincitore dell’ultima Amstel, prima del rientro di Evans, Terpstra e Kolobnev. Ancora una volta, però, gli attaccanti non hanno trovato modo migliore di dar seguito all’azione che guardarsi e piazzare qualche scatto isolato, condannando al naufragio anche questo tentativo, e rimandando perciò tutti i verdetti all’ultima tornata.
Una tornata iniziata con al comando Marzio Bruseghin, il cui lavoro lasciava intendere che gli azzurri avessero ancora cartucce da sparare. All’opposto, invece, quando Philippe Gilbert ha piazzato un nuovo e più deciso affondo sulla prima e più impegnativa ascesa del giro finale, per la prima volta Pozzato non si è fatto trovare nella sua scia, né altri azzurri sono riusciti a sopperire alle difficoltà del veneto, alle prese con dei crampi. D’altro canto, neppure in altre formazioni è stato possibile trovare qualcuno che riuscisse a replicare alla terrificante sparata del vallone, che ha rapidamente costruito un margine di 20’’ circa sui più immediati inseguitori – Evans, Schleck, il sorprendente tedesco Paul Martens, Leukemans, Kolobnev, Sorensen e Moerenhout -, e di oltre 30’’ sul plotone principale. Un margine rimasto pressoché intatto fino al termine dell’ultima erta, a 6 km dal traguardo, e che pareva ormai consegnare il titolo nelle mani del favorito numero uno della vigilia.
Gilbert aveva però probabilmente peccato di eccessiva fiducia nei propri mezzi, o forse di sottovalutazione dei chilometri pianeggianti finali. Il vantaggio del belga si è così sciolto in un amen, fra i 6 e i 3 km al traguardo, fino ad essere azzerato dal gruppo con l’accelerazione imposta dell’azione di contropiede di Gusev, al quale si sono poco dopo aggregati Brajkovic e Terpstra. Anche quest’ultimo tentativo è stato neutralizzato, spianando così la strada, in virtù del ritardo di un deludente Cancellara, unico che avrebbe forse potuto evadere nelle ultime centinaia di metri, ad un epilogo allo sprint, in assenza dei velocisti più puri del lotto. Uno sprint caotico, che ha visto ben presto presentarsi davanti, da parti opposte della sede stradale, Thor Hushovd e Matti Breschel. Il vichingo, che fino ad oggi, come già accennato, aveva sì vinto due maglie verdi al Tour, varie tappe in grandi giri, una Gand – Wevelgem e un’altra impressionante mole di corse, ma aveva sempre soltanto annusato il grande successo, specie al Nord, vedendosi davanti lo striscione oltre il quale stavano la maglia più ambita e l’immortalità sportiva, non ha tremato, e ha innestato una progressione cui nessuno è stato in grado di replicare. Non Matti Breschel, che al termine di una stagione non particolarmente esaltante si è ritrovato proprio nell’appuntamento iridato ed ha migliorato il bronzo di Varese 2008; né Allan Davis, partito in posizione ideale, ma al quale le gambe hanno fatto difetto nell’attimo decisivo, impedendogli anche solo di provare ad uscire dalla scia di Breschel, e costringendolo ad accontentarsi della 3a piazza; né Filippo Pozzato, che pure aveva ritrovato smalto nel finale, ma che ha intrapreso lo sprint decisamente troppo indietro, vanificando la nettissima rimonta su tutti di cui si è reso protagonista nelle ultime pedalate, e finendo addirittura giù dal podio; né quell’Oscar Freire in funzione del quale sono state sacrificate tutte le altre potenziali punte spagnole, alla fine soltanto 6°, preceduto anche da Van Avermaet.
Un Mondiale che ha dunque complessivamente superato le attese in termini di selezione e difficoltà, ma che si è comunque alla fine risolto come preventivato alla vigilia. Un epilogo che si sapeva non essere quello più gradito ai nostri portacolori, ma che forse, per la corsa sviluppatasi, poteva comunque portare ugualmente un risultato migliore. Quello che invece non tornerà senz’altro dall’Australia – ed è cosa in ogni caso importante – saranno i rimpianti: tutto si può dire dell’Italia di oggi, meno che non abbia fatto ricorso ad ogni sua risorsa.

Matteo Novarini

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