IL KÄISER E I BIMBI CHE MENANO DURO (ANCORA FUGA E ANCORA IN TRE PER LA ROSA)

maggio 26, 2022
Categoria: News

Tappa di facce, i grandi primi piani che ci regala questa regia non più domestica e quindi ancora un po’ aliena per gli appassionati del Giro. Van der Poel finalmente torna a far sul serio, Landa attivo ma deluso fa le facce imitando le smorfie furbesche di Carapaz.

Parafrasando il regista interpretato ne “La ricotta” di Pasolini da Orson Wells, che sintetizzava in “egli danza” il proprio giudizio su Fellini, potremmo dire di van der Poel a questo Giro: “egli giuoca”. Avendo fin da subito timbrato il cartellino della vittoria già dalla tappa numero 1, Mathieu si è imbarcato in un’avventura che, gradualmente, e specialmente dopo aver perso per strada il super rivale Biniam Girmay, pareva o pare aver abbandonato la stella polare del ciclista professionista, “vincere”, sostituendola con la croce del Sud che pure anima questo sport, in gara e non: “divertirsi”. Divertirsi, sia ben chiaro, al modo di chi pedala, e cioè soffrendo, faticando, sperperando energie preziose.
Da Napoli in poi, MVDP è riuscito ad andare in fuga nel 40% delle tappe con oltre 400 km percorsi in avanscoperta. Difficile fare i conti in cronaca, e con il profluvio di evasioni massive vissute, però è forte il sospetto che in questa frazione di Giro Mathieu sia stato il corridore più fugaiolo. Senza dire del fatto ancor più folle che pur quando non c’è riuscito, è stato sistematicamente in ballo nelle grandi battaglie di inizio tappa, fra i momenti migliori di questo Giro, e più di una volta lanciandosi programmaticamente in solitario appena calata la bandierina del via, come una sorta di Don Chisciotte pronto a sfidare tutto quanto il peloton in una singolar tenzone.
Quando tireremo le fila di questo Giro, è possibile che dobbiamo chiederci se proprio MDVP sia stato il colpevole da biasimare o il genio da ringraziare per aver innescato la dinamica ormai ricorrente di cominciare ogni tappa o quasi con i calcistici 90 minuti… corsi a 45 km/h di media, se con dislivello!, o a 55 km/h, se in pianura. Vale a dire che l’aperitivo è subito un bombardamento nucleare, anche perché a questa fase non si scappa, uomini di classifica o meno. Si potrà procedere meno a scatti, ci si potrà valere del solido abbraccio dei gregari, ma la velocità va fatta. Una sorta di contrappasso dantesco imposto a un Giro che riserva così sfacciatamente la rosa e il podio agli scalatori puri, e che si identifica con circostanze tecnicamente eccelse, senza dubbio. Ecco, il dubbio è se poi quando arrivano le salite intermedie qualcuno abbia la necessaria voglia residua per continuare il castigo insistendo col martello, aprendo ancora il gas al massimo.
Lasciando i bilanci all’ultima tappa, va anche soggiunto che troppo spesso questo atteggiamento di van der Poel è parso pretestuoso e velleitario. Perché tanto fuoco e tante fiamme se poi su un Trensasco “qualsiasi”, duro, questo sì, ma appena appena a cavallo fra la definizione di “salita” e quella di “côte”, salta fuori che contro gli scalatori, o semplicemente i corridori con attitudine alla salita, Mathieu non reggeva mezza? Se si va a scartabellare, si scopre che proprio in quella tappa van der Poel si era fatto apprezzare per aver favorito la vittoria del compagno Oldani. E a Jesi, con Girmay ancora in corsa, ben altro era stato l’atteggiamento: anzi, specie a confronto con l’Intermarché, si era trattata di una piena assunzione di responsabilità a livello singolo e di squadra. Poi a volte tocca inchinarsi al più forte di giornata, cosa che MDVP fa con speciale classe. Insomma, ci si chiede, il fenomeno olandese si sta crogiolando nel proprio personaggio epperò da troppi giorni senza costrutto, rinunciando un po’ troppo comodamente a obiettivi ardui ma realistici, che avrebbero comportato il rischio di fallire (per dirne uno, piazzarsi in volata e puntare alla maglia ciclamino); oppure dietro la giocosità e lo sperpero c’è sempre e comunque la voglia di giocare sul serio, solamente… a modo proprio? La risposta generale non è ovvia e chi scrive non ce l’ha. Una risposta chiara emerge però sulla tappa di oggi, in cui Mathieu van der Poel ha fatto dannatamente sul serio, e quel che è più affascinante, l’ha fatto comunque oltre ogni logica: riuscendo tuttavia nell’impresa memorabile di far sembrare a tutti, ma proprio a tutti (o a tutti tranne due persone al mondo) che l’incredibile fosse possibile, cioè che MDVP potesse andare a vincere una tappa alpina su una salita finale durissima e contro signori scalatori.
I due che non hanno creduto al miracolo, alla magia di quella faccia determinatissima, a quello sguardo in macchina baluginante di convinzione assoluta, sono due ragazzini di 22 anni, praticamente dei neoprofessionisti, anche se con un certo bagaglio già macinato, ciascuno di loro non scevro di ferite antiche o recenti, fisiche o metaforiche. Ma entrambi ancora con un viso incredibilmente infantile, pulito, rotondo, chiaro, terso, da bimbo, letteralmente, cioè non quello da adolescente che ancora sfoggia Pogacar e di cui resta qualcosa negli occhi di MVDP, in mezzo alla spigolosità decisamente adulta di mascella e zigomi.
Gijs Leemreize è connazionale di van der Poel, lo guarda dall’alto dei suoi 6 cm in più e con la leggerezza del suo paio di kg minimo in meno. Una falange già persa per strada in un incidente di gara. Zero vittorie da professionista. Finora tre volte in fuga a questo Giro, sempre in top ten, e due podi con oggi. Lo ricordiamo a Genova intrappolato in uno sprint senza speranze fra i due italiani. È l’unico che se ne va con Mathieu nella discesa del Vetriolo, penultimo Gpm di giornata e momento chiave del piano olandese. Anticipare. Lasciare i cagnacci degli scalatori a un minuto e mezzo perché si sfianchino, svuotino e demoralizzino. Gijs lo capisce e lo accompagna, senza complessi in discesa, anzi spesso tirando per il collo van der Poel che regala così, en passant, un salvataggio clamoroso su un lungo in curva. Van der Poel lo sgancia subito sui primi muri del Menador o strada del Käiser. Imperiale. Sì, sappiamo che il Käiser del ciclismo è unico e irripetibile, ma oggi van der Poel ricorda le dinastie olandesi degli uomini veloci omnivincenti, gli imperatori appunto, e diremmo quasi più van Steenbergen (Rik I) che van Looy (Rik II), dominatore delle volate, il primo, ma meno bisognoso della corte di cavalieri attorno, non estraneo ad avventure alpine, prendendo la scalata come puro hobby reale.
Leemreize però non molla. Perde, si sgancia, poi si riavvicina, controlla, misura e lì fra i tunnel di roccia rientra a velocità doppia e fulmina un MVDP incagliato, forse con lo spettro della crisi di fame. Il re è nudo. Gijs guarda avanti coi suoi occhi da scuola elementare, di quelli che non si voltano indietro perché sono ancora così di fabbrica, proiettati al futuro.
Ed è al futuro che Gijs deve guardare perché da dietro emerge l’altro 22enne, il colombiano Santiago Buitrago. La sua espressione pure fissa in macchina, determinata, la ricordiamo dall’infinito inseguimento a Ciccone verso Cogne. Pure lui fra le facce un po’ così dei delusi di Genova, ma fu quel secondo posto alpino a bruciargli fino alle lacrime in diretta mondiale. Oggi a bruciargli sono le ferite e le botte di una cadutaccia nei su e giù della Valsugana, poi lo sforzo di rientrare. Il suo team là dietro che lavora compattissimo per Landa, a caccia del podio e magari qualcosa in più. Manca solo lui. Lo fermeranno? E se lo lasciano fare ma non vince? Santiago aspetta, in compagnia dei due stakanovisti monstre degli ultimi tapponi alpini, Carthy (tre su tre, sempre più scomposto in una specie di autoflagellazione mistica) e Hirt, che tutti attendono pronto all’avvio del turbo. Santiago aspetta, ma il momento opportuno, il kairos, sarà forse volato via coi biondi d’Olanda? Paiono lontanissimi e c’è sempre meno salita. Poi Buitrago scatta secco, accelera, smaterializza i vecchi lupi di montagna. L’inseguimento è interminabile e sembra disperato, ma su una salita al 12% il tempo e lo spazio trasmutano sotto l’effetto della gravità. Ora Buitrago scandisce un passo forte e regolare, con un rapporto non cortissimo ma fluido. Disintegra van der Poel. Prende Leemreize a cinquecento metri dallo scollinamento e si apposta alla sua ruota. Entrambi sanno che si tratta per l’olandese di reggere meno di due minuti. Buitrago aspetta, aspetta, sempre meno salita per lui. Poi scatta. Leemreize chiude. Game over. Stallo, pausa. Pochissimi secondi che sembrano infiniti mentre le bici scorrono pigre sull’asfalto.
Altro scatto, violentissimo, Leemreize scoppia. Buitrago prende il largo. C’è discesa, per Lavarone, poi una morbida ascesa, un falsopiano, quasi, e ancora discesa, e l’arrivo appena appena all’insù. Una passerella di sicurezza e gioia per il giovane talento colombiano. Gijs non cede, sarà secondo. Poi i cagnacci, Hirt e Carthy. E poi è già il momento degli uomini di classifica, che supereranno van der Poel, ormai una statua di sale, proprio allo sprint.
Già, e la generale? Addio a una delle tappe meglio disegnate di questo Giro le cui tappe spesso suscitano qualche perplessità per tracciato o collocazione. Quella odierna era perfetta. Ma nessun team, nemmeno secondario, nemmeno messo alle strette, ha voluto cavare il sugo dalla sezione complicata in Valsugana, non diciamo certo per spezzare il gruppo, ma magari per creare un po’ di pressione. Che poi non si sa mai. Nessun capitano prova una scrollata all’albero in prima persona sul Vetriolo, né punte, né mezze punte, queste seconde via via più spuntate e dunque strategicamente inutili quanto più passano le tappe (Bilbao e Buchmann ormai a 6-7 minuti). Nessuno dei leader ha la curiosità di scoprire se, essendo tutti tanto uguali nella modalità “salita finale a fucile”, magari possa sorgere qualche differenza a sorpresa se si passasse a un approccio “due salite di fila forte”, o perfino “penultima salita a fucile e poi vediamo chi ne ha ancora”. Già. Troppa la paura di saltare. Meglio restare in ballo un giorno ancora. Meglio contare sulla selezione naturale, che si fa carico di un incredibile Almeida, mai a fondo (e che, sic stantibus rebus, sarebbe il vincitore in pectore di un GT parallelo identico a questo ma con un chilometraggio decente a crono!); mai a fondo, dicevamo, ma sempre in fondo al gruppo, e sempre più presto, tanto che le dozzine di secondi intascati lo porteranno ad affondare in classifica sebbene al ralenti, come un galeone con una falla. Così come la selezione naturale si fa carico dei grandi vecchi, Pozzovivo e Valverde in primis, ma anche lo stesso Nibali, quindi assolto per non aver provato qui, terreno ideale e quasi ultimo per la tappa – epperò con la gamba palesata, non sufficiente, non sarebbe bastato anticipare i big attaccando sul penultimo.
E se già sul Blockhaus Landa era stato il più propositivo, e se ciò si era confermato sul Santa Cristina, scalato alla pazzesca velocità di oltre 18 km/h, ove Landa avevo tirato il terzetto col suo animo gregario per quasi la metà del tempo, oggi il basco ci mette tutto il team. Sono i Bahrain a picchiare duro per alzare il passo verso la cima del Vetriolo (anche se… too little, too late), è un monumentale Poels a scortare eroicamente il capitano, sì “Landa capitano”, per tutto il Menador, staccandosi, rientrando, tirando, lanciando gli abbozzi d’attacco…
E se van der Poel “giuoca”, Landa felliniano più che mai “danza”, mani basse, rapporto pieno, niente frullate seduto in cicloergometro come Hindley, niente scenette da vecchio volpone alla Carapaz. Bello da vedere, il pubblico ringrazia. E va forte, fortissimo, ma gli altri non li stacca. Sono al gancio? Bluffano? Approfittano di lui e intanto risparmiano? Questa è l’impressione. Anche di Landa, che in un momento epico della salita smette di colpo di tirare, si gira diretto a Carapaz e gli fa il verso, imita la smorfia di inenarrabile sofferenza sfoggiata dall’ecuatoriano, come a dirgli, “caro mio, tante facce fai, ma se fossi cotto come sembri ti saresti staccato da un pezzo, e intanto sei quello che tira di mano”. Il tutto in attesa della volatina di Lavarone, dove ovviamente Hindley e Carapaz issano tutte le vele e si slanciano a tutta birra, chissà che ci siano qualche abbuono… e intanto anche solo sull’impulso, Landa incassa qualche altro secondino di distacco gratis.
Landa è quel che fin qui in salita ha dimostrato, o “mostrato” di più, ma non è bastato. Forte il sospetto è che gli altri abbiano in tasca ancora qualche carta, strategicamente coperta vuoi per attendismo vuoi per sorprendere i rivali. Oppure no. Ma fra crono e altri eventi di gara, su tutti Torino, Landa è già un minuto dietro, quindi è ovvio che sia anche il più obbligato ad attaccare. Sarebbe bello che, chiunque vinca il Giro, lo facesse finalmente mostrando e dimostrando di meritarlo con un’impresa degna di questo nome. Val la pena di ricordare che il Giro, a differenza del Tour, suole regalare almeno una manciata di tappe davvero belle per la generale, non solo per la vittoria di giornata, e il computo annovera fin qui solo Torino, con le ultime due discrete e tuttavia assai prossime a un “vorrei ma non posso” in stile Tour. Perché, fra l’altro, il Giro dovrebbe avere di prammatica, fra quelle belle, anche un paio di tappe letteralmente epiche. Reggerà questa regola d’oro? Le occasioni che restano sono poche, giusto due, ma lo speriamo di tutto cuore perché, in termini di ascolti italiani sulla RAI, c’è da recuperare la situazione peggiore da quando esiste Auditel.

Gabriele Bugada

La volata tra Carapaz e Hindley al traguardo di Lavarone (foto Tim de Waele/Getty Images))

La volata tra Carapaz e Hindley al traguardo di Lavarone (foto Tim de Waele/Getty Images))

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