GRANDI POGI, CAV E I VANS MA LO SFONDO È DI CARTAPESTA

luglio 19, 2021
Categoria: News

Tour fenomenale fino alla tappa numero nove, poi irrigidito in una coazione a ripetere resa inevitabile dall’eccessiva superiorità di pochi eccelsi protagonisti

Un Cavendish alla seconda, anzi terza freschezza, dopo anni di moscio e mesto appassimento (zero vittorie nelle scorse due stagioni, faticando a piazzarsi nei dieci contro rivali di modesta levatura in quel del Saudi Tour, della Vuelta a San Juan o del Giro di Turchia) ritrova la livrea vincente dei magici anni HTC e finisce nel verde squillante di una banana appena spiccata dall’albero.
Di fatto, la notizia in cronaca per quest’ultima tappa passarella è che Cavendish riesce a non vincere, forse sopraffatto da un senso di leggero imbarazzo che l’ha frenato nel supremo atto iconoclasta di superare il record di Merckx quanto a tappe vinte al Tour. Record solamente eguagliato dunque, con la consolazione per l’uomo di Man che se parliamo di volate vinte al Tour, il povero Merckx resta senz’altro in secondo piano, dato che il Cannibale per fare numero ha dovuto ricorrere a ogni sorta di mezzuccio, vincendo crono, arrivi in salita, tapponi in fuga più o meno solitaria e, certo, qualche volata. Ma allo sprint la coazione a ripetere di Cannoball è impareggiabile! Si ironizza, ma l’impresa resta, e probabilmente colloca il buon Cav al primo posto nella graduatoria assoluta dei più grandi velocisti puri di tutti i tempi, grazie a questo spareggio fuori tempo massimo con cui viene decretata, pur nell’arbitrio di queste valutazioni, la sua superiorità nei confronti di Cipollini, che costituiva finora il più accreditato rivale in questa volata nella Storia, improntata, com’è ovvio per la categoria, alla pura prolificità, senza scendere in altre sottigliezze. Perché, se di sottigliezze volessimo parlare, andrebbe detto che l’efficacia della Quickstep nel fare e disfare sprinter imbattibili con un semplice tocco di bacchetta magica in qualche modo sminuisce il valore intrinseco del campione di volta in volta elevato a insospettate altezze. Non si tratta di lanciarsi in campagne di sospetto (anche se ci pensa da sé il buon Lefevere a farci rabbrividire quando critica a mezzo stampa Sam Bennett per essersi sottratto alle cure dell’ineffabile Vanmol – della serie, sì, il nostro patto col diavolo continua e guai a chi non firma). Anche rimanendo alla più superficiale evidenza tecnica, una combinazione di preparazione e gestione del treno ha in questi anni trasformato onestissimi mestieranti come Bennett o specialisti non purissimi come Viviani, direttamente, nel “miglior sprinter del mondo” finché durava l’idillio. Idem dicasi per un talento puro ma di arduo affinamento come Gaviria. La commovente resurrezione dell’ex campione 36enne dopo quattro anni di buio puro va contestualizzata in questo quadro favorevole: ma per le circostanze bisogna farsi trovare pronti, e Cavendish ha indiscutibilmente trovato il guizzo fra temerarietà e scelta dell’attimo per piegare lo spazio tempo ed entrare nel mito, proprio come nella sua indimenticabile Sanremo di dodici anni fa.Di questa congiuntura fa parte anche un parco di rivali ai minimi storici, nel comparto almeno degli sprinter purissimi, con la ciliegina dei vezzi di casa Alpecin ove, dopo la prima vittoria, si è sacrificato il più veloce Merlier alle ambizioni di Philipsen in nome di una improbabile legge di alternanza. Mettiamoci il declino inarrestabile della magica classe 1990 (Sagan e Matthews appannati perfino nel loro specifico, la caccia alla maglia verde) e si intuirà come perfino un Greipel ormai quasi quarantenne, già determinato a pensionarsi a breve, abbia raccolto svariate top ten.
Il rivale principale di Cavendish, o almeno il più fatale, è stato un altro gigante, in questo caso davvero al culmine del proprio splendore, ma non certo un velocista puro – e anche questo la dice lunga! Wout Van Aert ha stroncato sui Campi Elisi i sogni di sorpasso made in UK e così si è in qualche modo elevato a paladino del record del proprio connazionale, della cui stravolgente polivalenza sembra il più degno e inedito erede, anche se un’epoca troppa diversa e altri valori fisici gli predestinano un cammino differente. E tuttavia è inevitabile la sensazione di monumentalità che comunica un atleta capace di vincere tre tappe al Tour (dove si porta sempre a casa due o tre tappe da quando ha debuttato, come se nulla fosse), e non tre tappe “qualunque”, ammesso che ne esistano, bensì lo sprint più importante ed emblematico sui Campi Elisi, la crono pura dell’ultima settimana e la tappa regina in montagna, quella del doppio Mont Ventoux, casomai il tutto non fosse già abbastanza leggendario. Un atleta fuori da ogni incasellamento, che rende trionfale il Tour dei Jumbo Visma nonostante il ritiro causa cadute del capitano Roglic: la squadra finisce ridotta alla metà, e ciò nondimeno il livello di forma esibito è così insultante che riescono a vincere, oltre alle tre di Van Aert, un’altro tappone pirenaico, con Kuss (e perfino Teunissen ci va vicino). Il secondo posto finale dell’esordiente e giovanissimo Vingegaard, capace di staccare Pogacar in salita e, alla faccia dei propri 58 kg, pure in una crono piatta non fa che confirmare lo stato di grazia di un collettivo che, senza il capitano designato, si è espresso in una costellazione di talenti individuali invece che replicare l’effetto “schiacciasassi da guerra” dell’anno passato. Francamente, tutto a maggior godimento dello spettatore, con una conversione che invece è riuscita solo a metà (cioè solo al Giro…!) al Team INEOS, qui precipitato invece in una parodia di se stesso sui Pirenei, col duplice risultato di ammazzare la gara e magnificare il proprio stato attuale di irrilevanza.
Ma, francamente, i Pirenei è meglio dimenticarli. Non che ci sia stato molto da ricordare in quel paio di tappette formato juniores, con troppi km piatti prima delle scalate, che presuntamente dovrebbero far la delizia dello spettatore moderno. Basti dire che il podio di giornata si è ripetuto identico da un giorno all’altro. Premessa smorta di una terza settimana afflosciata su stessa, tutta affidata alle alzate di ingegno in cerca di gloria del già giallissimo Pogacar. Ne è un altro esempio quella crono che pur corposetta è del tutto irrilevante per la classifica generale: se non andiamo errati l’unico mutamento nelle prime venti posizioni è l’ingresso di Mollema (appunto 20esimo con più di un’ora di distacco da Pogacar) ai danni di Henao. Il resto della top 20 ne esce del tutto identico.
A fronte della modestia di troppi protagonisti, con una startlist che per la generale lasciava parecchio a desiderare specie dopo le cadute di prammatica (ma il Giro ha retto meglio pur con grandi perdite), il tracciato è divenuto un fattore estremamente determinante. Disegnatasi benissimo la “prima settimana”(che sono poi nove tappe, di fatto), al di là delle brutte cadute è stata anche sulla strada entusiasmante. La seconda settimana è vissuta solo di imprese individuali, di poco peso in GC, perché il tracciato favoriva il controllo e la stasi. La terza settimana all’insegna della leggerezza non ha fatto altro che ratificare il già noto. Troppa leggerezza è sconfinata nell’inconsistenza.
Ma, oltre al tracciato, in quella prima settimana c’era un’altra macchina da spettacolo. Totalmente on fire, oltretutto. Mathieu van der Poel è stato il mattatore della settimana che ha trascorso in giallo, fin dal vero e proprio arrembaggio con cui ha strappato il primato a un Alaphilippe che ha bruciato quasi tutto il proprio splendore in quel primo ed unico jour en jaune. Il capolavoro, la sua “difesa all’attacco” nella lunghissima tappa di Le Creusot. Tornano i chilometraggi over 200, quelli che portano noia secondo gli esperti da salotto televisivo, e il Tour vive cinque ore e mezza di spettacolo puro, nonché probabilmente l’unico momento in cui Pogacar deve aver avvertito un effettivo senso di minaccia. Complicità assoluta con Van Aert nel mettere in subbuglio il pollaio, rivalità assoluta nel giocare il tutto e per tutto pur di non passare il giallo all’arcinemico, che lo tallonava a trenta secondi.
Tutto il resto è Pogacar. Devastante nella prima crono, incomparabile sul bellissimo percorso di Le Grand Bornand dove attacca in solitaria a 30 km dalla fine per firmare un’impresa che resterà negli annali. Il Tour finisce il giorno dopo a Tignes, con la conferma che non di fiammata isolata si è trattato. Da lì in poi restano solo le occasioni perse, quelle degli altri s’intende. Pogacar si andrà a prendere le sue tappe di montagna in giallo per la foto mentre il resto del peloton si spartisce il contorno del banchetto. Impazzano i Bahrain (per una volta, davvero eloquente la classifica finale per squadre che li premia), raccattano un paio di stuzzichini i Bora e i Trek, vive la propria favola di fuga bidone, crolli e infine tenuta il buon Ben O’Connor… e poco altro. Piacciono diversi atleti, Enric Mas che regge, stenta ma non si arrende a ci prova sempre (chiaramente in chiave tradizionale, senza troppa fantasia, ma si fa apprezzare), sulla stessa linea pure Bilbao. Ancor meglio i Guillaume Martin o Gaudu che provano pure a inventare. Ma l’impressione è che la loro dimensione sia sempre e comunque la top 10, forse top 5, più che un podio. Bravissimi comprimari, non autentici rivali che costituiscano la pietra di paragone per un campione. Per fortuna in questo caso ci pensa il campione a metter se stesso alla prova, dando così una qualche indiretta misura della propria caratura. Ma, soprattutto, regalandoci grande ciclismo anche in un Tour di chiaroscuri, dove i lampi individuali, pregiatissimi, spiccano fra carriere in appannamento, eterni incompiuti e imponenti dinamiche di squadra.

Gabriele Bugada

Il podio del Tour de France 2021 (foto Bettini)

Il podio del Tour de France 2021 (foto Bettini)

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