ROGLA TORNA RE: ANCORA IN PIEDI ALLA 17ESIMA RIPRESA CONTRO CARAPAZ

novembre 9, 2020
Categoria: News

Vuelta bella, godibile nei paesaggi autunnali inconsueti rispetto allo stereotipo spagnolo, da subito animatissima anche se via via appiattitasi nella terza settimana. Prova di forza fisica e mentale di Roglič, ma anche dell’organizzazione e del ciclismo tutto contro la pandemia.

Roglič non resta giù. Lo sloveno, reduce dal brutale KO del Tour, non rincasa a leccarsi le ferite, e anzi prolunga fino all’estremo una stagione certamente concentratissima, ma da lui corsa a pieno gas dalla prima all’ultima gara. Un approccio generoso che ha dato adito fin da subito a colpi a effetto e docce gelate, in un ottovolante di sensazioni che ha ravvivato una stagione nel complesso non così brillante per i grandi giri. Primoz era già apparso in forma, forse troppo in forma, fin dai campionati nazionali sloveni, in cui lo scambio di colpi a sorpresa con Pogačar, strappandosi la vittoria l’uno nel terreno favorito dell’altro, pareva una mera curiosità di un ciclismo tardivamente sbocciato al sole di giugno. Invece quella sparata finale in salita di Roglič e quella crono di Pogačar erano il presagio di ben più roboanti fatti futuri, oltreché una prima chiave di lettura di una stagione che sarebbe stata improntata, per il campione sloveno, a un’ottica pugilistica, di colpi dati e incassati ripresa dopo ripresa, tenendosi sulle gambe fino allo stremo, per poi essere giustiziato o salvato proprio sul gong.
Il Tour è nei libri di storia e non serve ripassarlo; quindi c’è stato quel Mondiale con un finale al gancio, con Roglič tramortito dagli scattisti in salita e soprattutto, nel dopogara, dalle folle social dei belgi infuriati. Poi, la risalita. Alla Liegi ancora a incassare, reggere, recuperare, ma stavolta rimanendo in gioco nel gruppo di testa fino all’ultimissima ripresa, e lì, quando la campana della vittoria già suonava nelle orecchie di Alaphilippe, ma un istante prima che rintoccasse davvero, il guizzo, quel crederci per un paio di pedalate ancora, il colpo di reni che regala un Monumento insperato.
E ora, la doppia doppietta. “Doppietta” in primo luogo perché con la Vuelta 2020 Roglič si associa a Di Luca 2007 e Cunego 2004 nel comporre un trio di atleti che, unici nell’ultimo quarto di secolo, hanno saputo vincere un Grande Giro e una Classica Monumento nel corso della medesima stagione. Un tipo di accoppiata che non era così stravagante fino alla metà degli anni Novanta, con Bugno, Jalabert, Rominger e Berzin (nel suo anno magico) ancora capaci di proporla nel volgere di un solo lustro, ma poi divenuta progressivamente – con l’imporsi della specializzazione estrema – una vera e propria peculiarità, a maggior ragione se immaginiamo che fra i vincitori di Grandi Giri degli anni Duemila solo Nibali, Valverde e Vinokourov han saputo vincere, pur in anni differenti, una classica Monumento. L’accoppiata, come detto, è una vera perla, e testimonia della qualità di un atleta che in questa Vuelta più che mai ha dimostrato, come vedremo, di essere davvero a tutto tondo.
“Doppietta” è anche sapersi confermare come vincitore della maglia “roja” per la seconda stagione filata: questo genere di filotti è piuttosto comune nel Tour de France, per sua natura gara più prevedibile e soggetta a un dominio economico-atletico che si autoalimenta e perpetua se stesso. Non a caso il Giro, gara dal carattere sostanzialmente opposto alla sorella francese, in mezzo secolo non ha registrato altre vittorie “back to back” se non quelle di Indurain e Merckx. La Vuelta, invece, è gara giovane quanto a spessore internazionale, e i primi personaggi di caratura internazionale a interessarvisi con costanza, non come semplice escursione puntuale, furono i grandi svizzeri Rominger e Zülle, che la razziarono, come pure seppe poi imporsi a ripetizione un purosangue quale fu Roberto Heras. Da quindici anni in qua, tuttavia, l’incremento travolgente di internazionalità e investimento tecnico avevano reso inaccessibile qualsivoglia bis consecutivo, nonostante le partecipazioni reiterate, quasi insistite, dei principali pezzi da novanta nel campo delle corse a tappe, che si chiamassero Froome o Valverde, Nibali o Contador, Menchov o Quintana. Confermarsi significa imporsi a circostanze e avversari anche assai differenti.
Quando parliamo di “confermarsi”, non possiamo neppure scordare che Roglič ha vinto 9 delle ultime 14 gare a tappe da lui disputate: c’è un ritiro al Dauphiné, e delle quattro “sconfitte” restanti tre sono podi, più un quarto posto, anche se proprio quel 4º al Tour 2018 nemmeno può definirsi un brutto risultato, e giunse probabilmente meno sgradito del 2º al Tour 2020. Dall’aprile del 2018, molto pochi ciclisti possono vantarsi di aver concluso una gara a tappa davanti a Roglič, e in questo senso si vede in altra prospettiva anche quel secondo posto di Nibali davanti allo sloveno nel Giro 2019. Con negli occhi un 2020 in cui si fatica a riconoscere lo Squalo e ci si chiede se avesse senso imbarcarsi a competere una stagione in più, è interessante vedere in questa Vuelta e in questo Roglič un termine di paragone per comprendere a quale livello si potesse ancora esprimere Nibali solamente la stagione scorsa, e dunque le logiche aspettative scontratesi con un anno decisamente complicato.
Va detto, ad ogni modo, che Roglič è sempre stato supportato, e così pure in questa Vuelta, da una squadra superlativa: meno qui che al Tour, indiscutibilmente, ma qui con più intelligenza nella gestione tattica. Questo spiega perché, in realtà, il dominio di Roglič non riesca così innaturale, tutto sommato: nel tempo è andato affinando il suo ruolo di terminale in un dispositivo efficace, finalizzando con attacchi che si apprezzano perché svariano su ogni tipo di terreno, ma che, d’altro canto, sono pure progressivamente meno profondi quanto a estensione. Si rimpiange, in un certo senso, la memorabile tappa del Tour 2018 che pure non lo portò più in su del quarto posto. E viene da chiedersi se tornerà a confrontarsi con il Giro, certamente la gara più ostica quando si parla di profondità dell’azione, l’esatto opposto delle fucilate finali ormai spesso imperanti al Tour come da sempre lo sono alla Vuelta.
Fra le altre cose, in questa Vuelta si consuma anche la vendetta da parte di Primoz, puramente sportiva nel suo caso (a differenza di quella di matrice extrasportiva made in Movistar), su Richard Carapaz. I pesi massimi di questa Vuelta erano chiaramente loro due, con un Mas ancora acerbo poco supportato dai co-capitani Soler e Valverde votati all’ambizione personale, sia pure spettacolare nel caso del primo, e più appannata per un Valverde ormai decisamente agguantato per la sella dall’età: l’obiettivo del vecchio volpone Alejandro, peraltro raggiunto, era però raggiungere il record all-time di piazzamenti fra i dieci di un Grande Giro, ben 20 volte in carriera (mai nessuno come lui, surclassando grandi longevi come Bartali o Gimondi a 18, così come bei regolaristi recenti quali Nibali o Sastre a 15). Bei comprimari gli anglosassoni Hugh Carthy e Dan Martin, capaci di vincere una tappa di montagna ciascuno oltreché di piazzarsi in top 5: tuttavia sono più che altro un riflesso del livello generalmente non eccelso della lotta per la generale, per ragioni simmetriche. Dan Martin non è mai stato davvero un uomo da tre settimane, e men che meno a 34 anni compiuti: raggiunge qui il suo miglior piazzamento di sempre in un Grande Giro. Carthy è un fenomeno della salita, ha molta esperienza in Spagna e in Asturias in particolare, e sta entrando ora, a 26 anni, nel suo picco atletico. Il suo attacco sull’Angliru è rimasto negli occhi. Sono però ancora molte le lacune tattiche e nell’approccio di corsa che devono essere limate: basti pensare – e qui entriamo in cronaca – ai quasi 30” incassati da Carthy nella passerella di Madrid, per una distrazione che gli fa pigliare un buco fra le ultime curve. Il cuscinetto su Dan Martin era confortante, un paio di minutini, ma con una classifica così corta non era certo il caso di lasciarsi andare a queste sviste dell’ultimo km su oltre tremila percorsi, e rischiando proprio il podio. Un aneddoto, certo, ma anche un dato sintomatico.
Con questi avversari, pregevoli ma non travolgenti, è stata anche più appassionante del previsto l’alternanza in maglia di leader fra Roglič e Carapaz, un vero e proprio duello da boxe cinematografica.
Roglič esordisce con un diretto alla mandibola alla prima ripresa, nella mitica tappa basca di Arrate, dove gli sforzi del trenino Ineos vengono ribaltati da un attacco nella breve discesa finale che porta lo sloveno subito avanti con autorità. La Vuelta ridisegnata comincia con tappe immediatamente selettive e appassionanti, portando subito a mille il livello di adrenalina e attenzione degli appassionati. Una via l’altra si succedono tappe dal finale complicato: salite vere quasi sterrate a precedere un finale mosso, e Roglič agguanta un abbuono dietro all’evaso Soler; poi ancora un arrivo in salita, e altro abbuono per Roglič battuto solo dallo scatto esperto di Dan Martin. I Jumbo dominano in testa al peloton. Ma basta una tappa di pioggia battente, su un tracciato che ricalca quella giornata del Formigal in cui Froome e Sky affondarono sotto i colpi da lontano di Quintana e Contador, per scompaginare le carte. Problemi con l’abbigliamento, imprevisti tecnici, squadra disunita, qualche giro a vuoto nell’alimentazione, e, dietro ai fuggitivi di giornata che conquistano la tappa, Carapaz stravince il round andando in maglia “roja”. Nella seconda settimana Roglič diventa un martello. Si porta a casa due tappe in tre giorni, un arrivo in salita rognoso e un insidioso finale da pura classica. Torna leader. Non risparmia energie pur con davanti un fine settimana tremendo fra i monti asturiani: a questo proposito, e osservando nel complesso queste prime due settimane – con le loro tappe mosse, arrivi in discesa e salite tecniche – possiamo dire che, a dispetto di qualche incertezza nel disegno, specie nella disposizione spaziotemporale delle tappe, la Vuelta ha fatto passi da gigante nel tracciare ciascuna di esse. Finalmente compaiono salite concatenate, chilometraggi rispettabili. Meno inutili rampe di garage isolate come ascesa finale e più trappole.
Se la Farrapona delude un po’ (capita), l’Angliru anche in assenza di enormi faville regala spettacolo visuale e ciclistico: siamo alla 12esima ripresa, ma questo è un pugilato di ultraresistenza e bisogna farne 18! Roglič cede, subisce, recupera, ma alla fine è dietro. Carapaz di nuovo in testa. Non è finita.
Arriva la crono con cui Roglič è in predicato di chiudere la gara. Piattone con muro finale. E dopo la sezione piatta Roglič guadagna poco, troppo poco. Tira aria di Tour. Di crisi di testa. Ma lo sloveno si è tenuto tutto per gli ultimi duemila metri, una parete con punte del 30%. E stavolta, invece che incagliarsi, propone una sparata con cui surclassa totalmente la concorrenza, mangiandosi anche la tappa. La quarta su tredici.
Sembra fatta, ma il vantaggio è poco. Il resto dell’ultima settimana, fino all’arrivo in salita del sabato, è interlocutorio. Tappe potenzialmente insidiose, ma la Jumbo è solida e soprattutto nessuno l’assalta davvero. Scelta curiosa, questa di proporre una settimana conclusiva più di fatica che di selezione, con poca salita vera. Forse gli organizzatori cercavano la magia, l’ennesimo Fuente Dé. Ma qui non ci sono i requisiti. L’unica squadra ad averne i mezzi è quella Movistar sempre più in bambola dal punto di vista strategico e spesso assolutamente incapace di costruire questi contesti. È comunque inquietante questa tendenza che filtra dalla matrice ASO di alleggerire la terza settimana dei Grandi Giri, per fortuna con il Giro a costituire una vera e propria irriducibile resistenza di segno opposto. Certamente nel caso della Vuelta si è vissuto un vero anticlimax che ha smorzato il ricordo di una prima parte (due terzi) davvero notevole.
L’ultima tappa prima della passerella finale è bellissima, ma nessuno la sfrutta davvero fino ai -3 km quando Carthy e Carapaz fan partire la tipica gragnuola di colpi dell’ultimo round. Siamo alla 17esima ripresa e Roglič barcolla. I suoi secondi che lo supportano abitualmente, Kuss e Bennett, sono nel pallone, già saltati. Il vento contro è tremendo, Carapaz se ne va e scava un solco crescente. La pedalata di Roglič è quella della Planche al Tour, da KO tecnico. Da colpito e affondato. Ma ecco un compagno dal nulla: era in fuga. Un respiro, un sollievo per le gambe in fiamme che possono ritrovare fluidità, sbloccarsi. E poi la cavalleria azzurra: i Movistar si mettono a tirare per Rogla. O meglio, contro Carapaz, che se ne andato malamente l’anno scorso dal Team Movistar in un clima da psicodramma. Gestaccio di rancore, brutto in sé, ma da romanzo del ciclismo, che titilla lo spettatore. Anche un gesto decisivo? Quasi certamente no. Quando vede la flamme rouge, Primoz riaccende i suoi reattori da finale a tutta e si rialza da terra. L’arbitro aveva appena cominciato a contare. E siamo già all’indomani. Suona la campana del circuito di Madrid, ultimo giro, la Vuelta è di Roglič. Rialzatosi ancora una volta per finire la stagione, probabilmente, come il miglior ciclista dell’anno – nonostante Pogačar! (in una stagione dai molti cadidati e tutti plausibilissimi, divisa fra chi ha vinto “poco” ma grandiosamente e decisivamente, come Pogačar o van der Poel, e chi ha fatto tantissimo, ma con la sensazione che sia sfuggito di mano irreparabilmente fra le dita quell’uno con cui far trentuno, come per Alaphilippe o Van Aert).
La tappa finale la vince Ackermann su Bennett, ma francamente, oltre allo svarione di Hugh Carthy già riferito, non c’è altro da annotare in cronaca: i duelli fra velocisti, francamente, non han detto moltissimo in questa edizione. Lo stesso Ackermann dice di considerarsi “fermo” a una vittoria, non accettando in pieno una assegnatagli in precedenza per squalifica altrui. Se prendiamo per buona la sua parola, potremmo quasi dire che tutti gli sprinter sono fermi alla casella “uno”, mentre il solo Rogla di tappe ne ha vinte quattro (non per nulla conquista la maglia a punti e ci ride sopra, definendosi scherzosamente in più interviste come “uno sprinter”). In effetti, c’è stato di che lustrarsi gli occhi molto di più con la doppietta di Tim Wellens, ciclista favoloso di cui c’eravamo un po’ scordati per l’infortunio che gli ha impedito di correre il Tour, oppure con la duplice vittoria in salita del giovanissimo francese Gaudu, scalatore 24enne peso piuma che comincia a trasferire fra i pro lo scintillio dei suoi trionfi giovanili. Grimpeur di razza come l’altro francese Guillaume Martin, che dopo un bel Tour si porta a casa qui la maglia dei GPM, dominata a forza di fughe fiume e scatti in salita, prospettandosi quale degno erede di Moncoutié. Per l’Italia, c’è un po’ di malinconia, ricordando le soddisfazioni che la Vuelta aveva schiuso in passato rivelando il talento di Nibali e quello, più fugace, di Aru, ma anche confermando lo spessore internazionale dei Trentin, Ballan, Cunego, Di Luca, De Marchi e tanti altri… da due edizioni, invece, siamo a zero tappe e zero uomini in top ten. Stavolta un propositivo Mattia Cattaneo, piaciuto come cane sciolto in Quickstep, fa 17esimo pur cacciando la tappa: ma nei primi 40 c’è solo lui, e l’anno scorso non c’era nessuno. La Vuelta è pur sempre un Grande Giro e il sintomo comincia a essere estremamente preoccupante per il nostro ciclismo, ancor più essendosi trattato tradizionalmente di un terreno amico.

Gabriele Bugada

Il podio della Vuelta 2020 (Getty Images)

Il podio della Vuelta 2020 (Getty Images)

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