UN GIRO GRANDE, AL DI LÀ DI TUTTO: ENORME GANNA E BENTORNATO TAO

ottobre 26, 2020
Categoria: News

La vera vittoria è arrivare a Milano. Il luogo comune diventa verità di fatto in un Giro strano, in cui la grandezza di un percorso straordinario porta per mano fino al gran finale interpreti in qualche modo incompiuti, almeno finora.

Il Giro è cominciato con una certezza: Filippo Ganna vince. E con una certezza è finito: vince Ganna Filippo. Il team Ineos, una volta mutilato dopo meno di tre tappe del suo blasonato capitano, il già vincitore del Tour 2018 Geraint Thomas, si scatena in un liberi tutti selvaggio che fa razzia di un terzo delle tappe totali, ben sette, per poi conquistare quasi a sorpresa (ma non troppo) anche la classifica generale dopo una sequela di opportunismi tattici ed esibizioni atletiche. Però la parte del leone la fa, letteralmente, il campione del mondo contro il tempo, perché quattro di quelle sette tappe le timbra lui, distruggendo la concorrenza in ogni singola cronometro disponibile, ma togliendosi pure lo sfizio di una lussuosa vittoria in linea a base di determinazione e dedizione, con una fuga fiume nel folto delle foreste silane. Oggi nel suo terreno privilegiato Ganna è stato semplicemente gigantesco: 2” al km rifilati al secondo classificato – l’attuale detentore del record dell’ora Campenaerts – in una 21ª tappa in cui, presuntamente, si appiattiscono le differenze. Clamoroso era stato anche il quasi 1” per km inflitto sui colli del Prosecco al secondo di giornata, vale a dire il suo predecessore nelle due precedenti edizioni dei mondiali a crono, Rohan Dennis, in questo caso su una prova di tre quarti d’ora nonché comprensiva di strappi e salitelle, cioè un terreno tecnico e ascendente rispetto al quale Dennis avrebbe dimostrato nelle tappe a seguire di essere, semplicemente, il più forte fra i quasi duecento atleti in gara.
È stato un vero piacere vedere Ganna sì disponibile ad assolvere i doveri di squadra ma al contempo, specie nell’interim precedente all’identificazione di Tao come nuovo capitano, libero di inventare con la fuga calabra o di spremersi a fondo contro le lancette, senza la zavorra nelle gambe di tutte quelle ore a far da mulo in testa al gruppo. C’è da sperare, dicendolo assai sottovoce, che questo andazzo continui e risparmi al buon Ganna le involuzioni patite da altri fenomeni di classe immensa ridotti a modesti vagoncini, come Boasson Hagen o Kwiatkowski e magari buon ultimo anche il nostro Moscon (al di là di quel che ci possa aver messo di suo).
Insomma, il team Ineos vince in un rovescio taoista, da yin e yang, della propria incarnazione pregressa in quanto team Sky. Invece che vestire di gran carriera la maglia per poi assopire la corsa blindandola in processioni interminabili, qui il vincitore finale non indossa la maglia rosa nemmeno per un giorno! E la vittoria in classifica generale, pur autenticamente di squadra perché servita su un piatto d’argento da un compagno, il fenomenale Dennis, arriva in un contesto nel quale gli squadroni ad alto rendimento collettivo sono parsi altri, almeno da un punto di vista squisitamente visuale: la Quickstep anzitutto, ma naturalmente anche la Sunweb (altro discorso è la gestione strategica del potenziale atletico) e perfino il team Bahrain. Poi va detto che, numeri alla mano, la classifica per squadre l’han vinta pure quella gli Ineos con una discreta mezzora proprio sulle altre tre formazioni testé citate. Ma la sensazione, ed è tutt’altro che scontato quando si parla del team inglese, è che tale eccellenza sia stata raggiunta con un’effettiva profusione di classe a tutto tondo, più che con picchi prestazionali inattesi rispetto al profilo degli atleti: resta negli occhi anche la bella prova di Narváez nella massacrante Nove Colli sotto la pioggia battente.
Più in generale, in questo Giro è stata la corsa a stimolare o certificare la grandezza dello spettacolo, più che l’iniziativa atletica dei campioni, e ancor più quando si guarda la classifica. Un vero gioiello il trionfo di Sagan nella tappa dei muri abruzzesi, fra l’altro impreziosito dalla prestazione parallela dello stesso Ganna nella fuga decisiva: il Sagan velocista o scattista appare appannato, annichilito da Ulissi sugli strappi duri ma perfino da Démare (è davvero l’Italia a far grande il transalpino) su pendenze più morbide come quelle di Matera, oltreché in volate pure. Ma grazie a un percorso splendido, e alle bizze complici di un meteo capriccioso, la qualità del purosangue ha lasciato il segno con una giornata di ciclismo indimenticabile.
È nella natura delle cose che non tutte le tappe vengano corse al fulmicotone, anche se magari per la legge del lustro qualcuno se lo sarebbe aspettato, a fare trittico col 2010 e il 2015. Tuttavia anche le tappe trappola un po’ sprecate, placidamente in pasto alla fuga, sono funzionali alla distribuzione collettiva delle risorse in termini di sponsor da soddisfare, e nella lotta fra i fuggitivi offrono spesso guizzi di grande intensità, anche se magari maggiormente apprezzabile in chiave tecnica più che da un pubblico generale avido solo di grandi nomi. Se Roccaraso, Vieste, Cesenatico o San Daniele del Friuli si sono avviate a quel copione, con in lizza presunti comprimari, Camigliatello, Tortoteto o Monselice hanno invece espresso notevoli vertici di qualità.
È il Giro nel suo complesso ad aver vinto, in questo 2020: aver potuto scalare lo Stelvio dal lato più nobile è un trionfo in sé, e lo Stelvio ha ripagato con immagini di corsa epiche, ben al di sopra della caratura, in senso stretto, di chi lo stava percorrendo. La beffa del veto francese al transito che ha sfigurato il più bel tracciato di tappa visto da molti anni in qua (Agnello e Izoard protagonisti) si è vista aggravata da uno dei problemi cronici della gestione Vegni, l’assenza di validi piani B: ma il Giro ha trionfato lo stesso, scatenando sul circuito vagamente scialpinistico del Sestriere una bagarre memorabile, addirittura conclusasi nel modo più inedito, con due ciclisti che sbarcano all’ultima tappa con il medesimo tempo.
In questo senso, ben si comprende come il virus covid – gestito con efficacia sostanzialmente pari a quella del Tour, nonostante condizioni sanitarie peggiori – non fosse nemmeno il nemico più minaccioso in sé, il che è tutto dire: i pericoli più tremendi per il Giro venivano da altre viralità, ben più incontrollabili, quelle delle reti sociali e delle buone vecchie dinamiche sociali senza rete. Il controsenso della burocrazia francese che nega il passaggio a una “bolla” quotidianamente controllata e il cui tasso di infettività era assai inferiore a quello delle zone che avrebbe solcato è solo un esempio.
Ma che dire di quei temerari comunicati per iscritto rivolti all’UCI che, da oltreoceano, ventilavano pretestuosamente o comunque senza fondamento alcuno la necessità di ridurre il Giro a due settimane, “essendone ormai compromessa la tenuta sanitaria”? Senza che l’ineffabile team manager Vaughters che li vergava ne avesse discusso con il suo personale sul campo ovviamente. E senza che, a posteriori, siano mai arrivate scuse per affermazioni che i fatti successivi spingerebbero quasi a qualificare come proditorie. Farsi pubblicità o perseguire la propria agenda interna non dovrebbere essere lecito a qualsiasi costo, tirando in ballo a sproposito questioni davvero delicate come la salute delle persone. Tanto più se poi, lanciandosi in scia, figure di spicco nel gruppo si lasciano trascinare allo sproloquio social assecondando voci incontrollate o fake news. Il Giro, per fortuna, è abbastanza sano e solido da reggere a questo tipo di comportamenti tossici.
Un mix di tradizione e modernità anche per il classico pasticcio pseudosindacale dei corridori, stavolta condito in salsa Telegram, fino a imporre a forza la decurtazione della terzultima tappa. Una maratona quasi da Sanremo con finale leggermente insidioso fra i colli astigiani è stata tradotta in giorno di riposo causa pioggia e fresco. Con le solite cattive abitudini delle coalizioni di ciclisti: si vota, ma c’è chi non può votare e non conta; si sa tutto da mesi ma si decide sulla linea del via; le ragioni addotte puzzano di favoritismi a certi atleti o squadre. Dei grandi classici, suvvia: almeno, in questo caso, sarà servito “omeopaticamente” a suscitare la veemente reazione di un pubblico che, di contro alle mode, pare aver maturato la consapevolezza del valore aggiunto che per il ciclismo rappresentano le lunghe distanze, nei GT anche in funzione dell’interrelazione degli sforzi al di là della tappa in sé. Anni e anni di riflessione fra gli appassionati paiono aver in qualche modo distillato alcune chiavi su cui scommettere per il futuro della disciplina: speriamo che queste consapevolezze relative alla natura dei tracciati prendano poco a poco piede, e non soccombano a impulsi videoludici da cicloergometro che rispondono ad altri interessi.
Chiudiamo con un paio di considerazioni finali sui quattro massimi protagonisti della lotta per la rosa (non ce ne voglia Kelderman che era stato così propositivo sull’Etna – e poi mai più).
Per cominciare, questo Giro l’ha vinto chiaramente Rohan Dennis. Non nel senso che Dennis sia una sorta di “vincitore morale”: in classifica è 35esimo a un paio d’ore di distacco, che sicuramente l’hanno aiutato a brillare quando era in testa alla gara. Ne si può dire che Dennis sia stato l’atleta più travolgente visto in corsa: come valori atletici assoluti Ganna ha segnato picchi più eclatanti, e come sensazioni in gara ha impressionato molto Almeida. Però Dennis “ha vinto il Giro” nel senso che ha fatto ciò che era necessario per vincerlo, eseguendo quella che probabilmente era l’unica combinazione di azioni che potesse mettere al compagno Tao in condizioni di trionfare. Ed eseguendola oltre la perfezione. La scalata di Piancavallo, spianata dai vari gregari Sunweb e culminata da Hindley, ha segnato forse picchi numerici superiori, ma lo Stelvio di Dennis è stato il corrispettivo di un record dell’ora (l’australiano ne è stato detentore). In salita. Il vero capolavoro, tuttavia, è stato il falsopiano precedente alla salita dei Laghi di Cancano, dove Dennis ha demolito Kelderman, fin lì ancora vincitore finale in pectore. Parimenti, Dennis ha sgretolato il gruppo dei migliori verso il Sestriere: ma il suo nuovo capolavoro tattico è stato continuare a rientrare, insistente come un incubo ricorrente, sulla coppia dei due contendenti rimasti al comando, Hindley e Tao, ogniqualvolta il ritmo scemava dopo la salva di scatti del giovane scalatore australiano. Prestazioni maiuscole da parte di un atleta dal talento innegabile, dal carattere quasi impossibile, nato in quel magico anno 1990 che però sta mettendo davanti a una crisi d’identità quasi tutti i suoi figli ciclistici: e lo stesso Dennis, prima e dopo il tormentoso cambio di team autunnale del 2019, stava accumulando più secondi posti, controprestazioni e plateaux evolutivi che altro. Non sappiamo se questo Giro sarà una svolta o l’ennesima impennata di un cavallo pazzo: quel che sappiamo di sicuro è che l’alta montagna ha regalato il terreno per esibizioni che resteranno indimenticabili.
È emblematico delle dinamiche di questo Giro che, in alta classifica, si vinca per meriti altrui, e non solo parlando della maglia rosa finale giunta per cortesia di Dennis: quando un ciclista della GC vince una tappa o avanza verso il primato, salta fuori che ha passato le fasi calde della tappa sempre a ruota. La prima tappa vinta da Tao? Sempre in scia della coppia Sunweb sul Piancavallo fino al più puro sprint da succhiaruote. E la seconda? Dietro a Dennis, o reagendo agli assalti di Hindley. Hindley che a propria volta va in maglia perché Dennis ha smontato Kelderman, e che due giorni prima aveva vinto la tappa dei Laghi di Cancano stando sempre a ruota, replicando fin nei minimi dettagli, ma a squadre invertite, il copione di Piancavallo. Proprio nella tappa dello Stelvio a vestirsi di rosa era stato Kelderman, ma pur col merito proprio di un finale in solitario, va detto che lo sforzo di infliggere il colpo del KO ad Almeida l’aveva realizzato Dennis.
Una girandola che ci parla di corridori in qualche modo incerti: i più completi a livello fisico non c’è dubbio che siano stati i primi due della GC finale. Ma a livello di iniziativa hanno espresso poco, com’è forse normale per chi ha passato i primi anni da professionista, pur con le stigmate del talento e della precocità, a navigare fra esperimenti di classifica poco riusciti o compiti di gregariato. Tanto Hindley quanto Geoghegan Hart cominciano questo Giro da gregari puri, senza ambiguità di ruolo alcuna, non dimentichiamolo. Ma non dimentichiamo nemmeno che nel 2016 seguivano dappresso Egan Bernal, quarto quell’anno nella classifica del Tour de l’Avenir, e si portavano a casa, una ciascuno, due gare cruciali del panorama giovanile italiano. Tao conquistava anche la tappa regina del Giro della Savoia davanti a un Enric Mas coetaneo (ora già capitano per la generale da alcuni anni, eppure il primo a vincere un GT è Tao). Altri nomi in quelle classifiche? Più su c’è Gaudu, che cresce bene ma con calma, e più sotto Guerreiro, O’Connor e Narváez, vincitori di tappa in questo Giro, il nostro Fabbro, poi talenti sbocciati definitivamente in questo Tour 2020 come Kamna, Peters, Dani Martínez, altri ancora vincitori di brevi corse a tappe come Sivakov o Schachmann; assieme a storie incredibili come quella di Adrien Costa o tragiche come quella di Bjorg Lambrecht. Insomma: il percorso dai 20 ai 25 anni nel ciclismo, specie se si passa presto pro, è incredibilmente imprevedibile e non sempre correlato con quanto si è intravisto prima o si vedrà dopo. Su Jai e Tao stava prendendo forma il dubbio che le strutture in cui stavano crescendo potessero farli crescere protetti o, viceversa, fagocitarli. Che cosa stia effettivamente accadendo, in realtà, lo scopriremo solo in stagioni venture: entrambi sono apparsi abbastanza al limite da non far gridare al miracolo, ma al contempo entrambi emergono in vetta legittimati da un percorso completo come pochi e di durezza degna delle migliori ere dello sport.
Chi ha impressionato davvero, e forse ancor più nella sconfitta, è il portoghese Almeida. Ancor più giovane dei rivali (fra i più giovani in assoluto, con un alto personaggio da seguire, McNulty) e dunque con un futuro ancor più misterioso, ha goduto fin da subito del supporto di uno squadrone (seppur col gregario più recalcitrante: Masnada sullo Stelvio!). Potente a cronometro, sulle salite più dure ha patito, ma ha anche sfoderato una grinta fenomenale, come già aveva fatto artigliando ogni scampolo di secondo residuo sprintando a destra e a manca. Se non si sperpera per eccesso di voglia e se non si brucia per eccesso di tenacia, questo Giro gli ha regalato un gran battesimo del fuoco.
Fra le note di cronaca, il tramonto più o meno sereno di Nibali e Fuglsang, certificato oggi da una prova a cronometro lontana dai tempi migliori, e il guizzo d’orgoglio dell’altro veterano Pozzovivo, cui una gran crono non basta ad artigliare una top ten che sarebbe stata giusto premio al recupero dal tremendo scontro con un’auto della scorsa stagione. Kelderman (n. 1991), battuto oggi da Almeida e avvicinato moltissimo da Tao, conferma con una prova discreta ma opaca i suoi limiti nella terza settimana, non solo in salita, e corrobora la sensazione di un talento che ne fa un ottimo comprimario ma nulla più, complici le relativamente frequenti cadute con fratture negli ultimi tre anni. Pello Bilbao (n. 1990) si fa apprezzare decisamente di più per atteggiamento, ma chiude affaticato con anche l’intero Tour sulla groppa: la crono non è il suo forte e Almeida se lo mangia, però anche per il basco possiamo dire che una top 5 sia la sua dimensione di onorevolissimo contendente. Decisamente più anonimi i due austriaci Konrad (n. 1989) e Pernsteiner (n. 1990): pure loro consolidano la loro dimensione di contorno. In questo senso chiudiamo con un atleta più giovane, l’unico ad essere effettivamente sulla soglia della maturità atletica, con i suoi 27 anni in arrivo fra un paio di settimane, circondato altrimenti in top 20 della generale o da atleti precocissimi di 25 anni o meno, oppure da figure fra la tarda maturità e lo sfiorito, dai 29 in su diciamo. Parliamo del bergamasco Fausto Masnada: bell’esperimento, questo di fare classifica in un GT, e inevitabilmente condizionato dalla presenza di Almeida nel team; ma tutto sommato ne rimpiangiamo molto di più la dimensione arrembante di attaccante col coltello fra i denti, forse foriera anche per lui di maggiori soddisfazioni.

Gabriele Bugada

È Tao Geoghegan Hart il vincitore delledizione 2020 del Giro dItalia (foto Bettini)

È Tao Geoghegan Hart il vincitore dell'edizione 2020 del Giro d'Italia (foto Bettini)

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