TUTTO IL BOTTO IN MEZZORA: POGI FA F5-REFRESH SU UN TOUR IN CONSERVA

settembre 21, 2020
Categoria: News

Al Tour Pogačar vince quasi tutto, ribalta il mondo e fa la Storia. Ancora emozionati per questo finale col botto dopo mesi di astinenza ciclistica, speriamo di veder liquidato il modo di correre per la generale che ha dominato in venti tappe su ventuno.

Pogačar, Pogačar, Pogačar. Una media di una tappa a settimana: il più giovane dal dopoguerra a far tripletta al Tour. Tre maglie su quattro: e con una distribuzione dei punteggi meno focalizzata sugli sprint, come s’è vista talora al Giro, avrebbe vinto pure quella a punti. Il solo Merckx si è permesso questo lusso nella storia del ciclismo tutta. E già sappiamo a menadito che vediamo trionfare il più giovane vincitore dal dopoguerra: ma stavolta parliamo del primo dopoguerra, perché lo batte solo Cornet col Tour del 1904. E Cornet, quel Tour, non lo vinse nemmeno sulla strada, dove fu quinto, bensì mesi e mesi dopo, a seguito di un ribollire di scandali e accuse incrociate. La bellezza di 116 anni fa. Vincendo da debuttante, il giovanissimo sloveno va a far compagnia a Fignon, Hinault, Merckx, Gimondi, Anquetil e Coppi. Un Olimpo nel quale compaiono pochissimi fuochi di paglia, e tutti riconducibili all’epoca dei pionieri o, al massimo, agli anni Cinquanta, quando il Tour ancora veleggiava al di sotto del Giro d’Italia per competitività.
Il colpo di teatro con cui si è materializzata la vittoria, poi, ne amplifica la memorabilità già decretata dagli annali: una prova devastante in cui Pogačar ha distrutto non solo Roglič, ma anche, assai simbolicamente, i suoi due scherani più fedeli nel blindare la corsa, due uomini di classe immensa contro il tempo – ancor più su tracciati tecnici – come Tom Dumoulin e Wout Van Aert, quest’ultimo pure in forma strabordante. Dopo settimane di fatiche da muli e sacrificio delle proprie ambizioni, i due fissano stralunati il monitor su cui si consuma il finale di partita. La chiave, probabilmente, nell’approccio di un Roglič partito per consolidare quel che dava per acquisito, ma gradatamente andato in panico nel vederselo strappare di tra le dita da parte di un Pogačar che invece, contro ogni pronostico esterno, si è lanciato come una furia ad azzannare il primato dannandosi fin dal primo metro e dando il tutto per tutto in ogni singolo minuto di quell’ora interminabile.
La grande domanda di fondo è forse quanto sapesse ciascuno dei giocatori in campo, sulla strada o in ammiraglia. Se fra Pogačar e il suo staff tecnico c’era una pur vaga coscienza di avere del margine, specialmente contro il tempo, l’intero Tour assumerebbe le vesti di una colossale beffa strategica mossa dal team UAE Emirates ai danni della corazzata Jumbo Visma. In assenza di altre crono in cui doversi esporre, ed evidentemente apparendo più equilibrato il confronto in salita, anche per via di una miscela di fattori tattici, decidere di segnare il punto decisivo quando non esiste altro terreno per rispondere avrebbe un retrogusto di astuzia crudele e sublime, specialmente perché in casa Emirates dopo i forfait di Aru e Formolo, e stante la forma precaria dell’altro sloveno Polanc, per gestire la situazione nei tapponi di salita c’era solo il redivivo David de la Cruz. Un po’ poco. A maggior ragione perché questo Tour offriva, sorprendentemente, un percorso ricco di potenziali spunti tattici e strategici, per quanto tutti regolarmente sperperati o neutralizzati dalla monotonia dei trenini alpini, quasi sempre in giallonero. Così non solo i Jumbo Visma hanno giocato sulla difensiva evitando di infierire con manovre collettive su un avversario il cui punto debole era la squadra, ma addirittura hanno condotto il tipo di gara che andava alla perfezione anche per quest’ultimo.
In questo senso, l’altro dato comunque clamoroso della prestazione di Pogačar viene, per lo meno, contestualizzato: il baby fenomeno ha polverizzato i record storici di ogni epoca quanto a velocità di scalata su ben sei salite del Tour, in ogni catena montuosa, ovvero in ogni momento della gara. I mitici Peyresourde e Marie-Blanque sui Pirenei, lo spettacolare Pas de Peyrol nel massiccio centrale, e sulle Alpi il Gran Colombier e la Planche des Belles Filles. Caduti dopo quasi vent’anni i temponi stabiliti dalle grosse cilindrate dei primi Duemila, così come vengono disintegrate le performance più recenti dei Pinot, Aru o Froome. In questo senso, impreziosisce il dato il fatto che nei colli precedenti di ciascuna tappa, a differenza che nell’era Sky, si pestasse sempre sodo: va però anche detto che il ritmo imposto dallo sciame Jumbo era estremamente regolare, per quanto esasperato, il che favorisce, per chi abbia le gambe di reggerlo, l’ottenimento del tempone con un’apnea finale di pochi minuti. Il ciclismo più autentico degli scatti e controscatti è per definizione meno efficace per la scalata rapida perché presuppone momenti di recupero e fasi di studio.
Questo elemento è altresì importantissimo per capire alcuni aspetti della nouvelle vague del ciclismo poco più che adolescente in travolgente ascesa: la disciplina si fa estremamente fisica, l’accento si sposta spesso su erogazioni focalizzate di potenza, il tutto in accordo con le qualità di atleti giovani. Ciò non vuol dire assolutamente che questi fenomeni appena ventenni manchino di visione di gara, anzi alcuni di loro hanno già dimostrato di averne in abbondanza: tuttavia una gara com’è stato questo Tour per tre settimane meno un giorno, non esige necessariamente di aver sviluppato chissà che fiuto o esperienza per discernere se e quando muoversi in funzione di giochi tattici più complessi. In un certo senso, potremmo dire che determinati aspetti della “fordizzazione” del ciclismo, specie al Tour, replicati massivamente dal Team Sky e ora importati in terra orange, vadano a rendere più plausibile l’affermazione di diversi atleti quasi imberbi ma fisicamente dotati, prima ancora che accumulino l’esperienza necessaria in altri periodi dello sport, quando l’età d’oro si situava a partire dai 27 o 28 anni proprio per questo fattore (unitamente ad altri).
Come hanno esplicitamente lamentato ai microfoni della stampa spagnola i vari Landa o Superman López durante il secondo giorno di riposo, si pensa a tener le ruote perché, quando si mette il naso al vento, è pressoché improduttivo farlo se non per il rush finale. L’han provato sulla propria pelle lo stesso Landa ma anche Adam Yates. Escursioni in avanscoperta “lontano” dall’arrivo durate pochi minuti e senza mai accumulare più di 30” di vantaggio. Al guinzaglio. In questo modo sparisce completamente il problema di come erogare o distribuire lo sforzo in modo articolato lungo una tappa e la questione si riduce a quanto gas si conservi dopo essersi attaccati al trenino per tutto il dì.
Certo che in questo modo, senza il gran botto della Planche, avevamo per le mani un Tour piuttosto monocorde, in cui un buon numero dei principali protagonisti previsti o prevedibili son saltati per disgrazie fisiche o incidenti più che per dinamiche di gara (Bernal, Quintana, Pinot, Bardet, ma anche su un altro piano Formolo o Mollema). Per il resto, gran parte dei distacchi seri andava maturando per cedimenti a turno nell’una o nell’altra tappa, magari ancor prima che partissero gli attacchi veri e propri, come capitò a Mas o López nella prima parte di gara, a Urán, Yates o Guillaume Martin nella seconda. Frequenti, nonostante gli affondi di Pogačar, le tappe di montagna in cui alla fin fine si arrivava assieme fra i migliori in sette o otto, seppur variabili. Tutto “very very Tour de France”, ma anche alquanto stantio. Gli arrivi in salita davvero emozionanti si sono ridotti a pochi minuti sulle pendenze caprine del Pas de Peyrol o del Col de la Loze, lasciando per strada le occasioni offerte da vere e proprie tappe trappola come l’ultima cavalcata alpina, l’escursione nel Vercors o quella nell’Auvergne. Mai, ma proprio mai, si è vista un’azione concertata da parte degli uomini di classifica se non su quella che di volta in volta fosse l’ultima ascesa. E, pure questo un classico del Tour, lo spettacolo viene semmai dai ventagli, oppure, come no, dalle fughe, ormai il piatto più appetibile che la gara transalpina possa offrire con una certa regolarità agli appassionati.
E, via, possiamo dirlo: meritava anche la lotta per la maglia verde in cui Sagan è uscito per la prima volta davvero sconfitto, sul campo e non immeritatamente e ingiustamente per un errore della giuria come in passato. Unica maglia non vinta da Pogačar, fra parentesi. Bravissimo l’irlandese Bennett, che, e qui andiamo in cronaca, vince anche la tappa finale dei Campi Elisi, coronando la devozione della sua squadra, la schiacciasassi Quickstep, a questa causa, nonostante la combattività dei Bora di Peter. La lotta fra lo sprinter puro, anche per stare in tempo massimo, l’ex tricampione mondiale e, nel suo piccolo, il nostro Trentin (che domina negli sprint intermedi ma paga troppo dazio in quelli finali di tappa), ha regalato grandi momenti tattici. Oltre a questo dato pur minore che concerne Trentin, l’Italia che pedala annovera fra gli elementi positivi il decimo posto di Caruso, agguantato con una splendida crono conclusiva. Già top ten a Giro e Vuelta, qui al Tour il piazzamento ha ben altro peso e sembra un bel regalo per chi di solito sgobba in funzione dei capitani. Per il resto poco da segnalare in casa Italia, se non un po’ di onesto gregariato “mercenario” qui e là, i patimenti di Aru, l’infortunio di Formolo, e, ancor piu triste, una certa abulia di Cataldo, De Marchi e Bettiol, proprio in una corsa improntata alle fughe.
Gli affanni di Aru e Sagan (ben più seri quelli del primo, sia chiaro) inducono a qualche pensiero finale sui nati nel magico anno 1990, perché la loro parabola di fenomeni tutti precocissimi potrebbe costituire – speriamo di no – una sorta di anticipazione rispetto a questa tendenza attuale all’esplosione giovanile. Oltre ai due suddetti in quell’anno ciclisticamente stellare nacquero anche Quintana, Dumoulin, Bardet, Pinot, Esteban Chaves, Kwiatkowski. Alla faccia, tutti in un anno. Orbene, anche se è stata globalmente significativa la messe di grandi giri, classiche monumento, mondiali in linea o contro il tempo, podi in CG, e via dicendo, colpisce assai che in molti se non tutti i casi l’evoluzione tecnica dell’atleta non sia andata molto oltre le premesse già stabilite solidamente attorno ai 25 anni, anno più anno meno. Proprio presso l’atteso salto verso il picco classico dei 27-28 si è anzi riscontrato spesso un plateau, se non un accumularsi di difficoltà svariate che si traducono – di caso in caso – in occasioni perse, sconfitte brucianti, cambi di squadra al ribasso, gregariato, ritiri, crolli e chi più ne ha più ne metta. Tutti loro paiono, ora come ora, schiantarsi su una crisi dei trent’anni che soleva appartenere più al cinema generazionale che al ciclismo. Tutto nei limiti della casualità? Forse sì, se non fosse che, a un livello minore di qualità, sembra riscontrarsi una parabola affine anche fra certe promesse del 1989 come Majka, Zakarin o lo stesso Landa. E, viceversa, i loro predecessori di lungo corso nati nel decennio precedente, addirittura nella prima parte dello stesso, hanno continuato fino a una o due stagioni fa, se non perfino in questa, a dar filo da torcere pur stagionatissimi: pensiamo a Nibali e Valverde, ma pure a nomi meno altisonanti come Urán o Fuglsang, e fino al 2016 anche a Purito Rodríguez.
I numeri aggregati di tutto il peloton paiono confermarlo: l’età di massima resa è passata dai 28 anni per i nati nei Settanta ai 27 susseguenti, e ora slitta sui rispettivi 26. Quel che è più sconcertante, però, è che il declino in termini di risultati – ripeto, a livello aggregato – è rapidissimo per i nati dopo l’86 come mai lo è stato nell’ultimo quarto di secolo, con una fascia di trentenni che rende come i trentaquattrenni che furono.
C’è ora da capire se i virgulti straordinari che stiamo vedendo sbocciare siano un’ulteriore e più veemente manifestazione della medesima tendenza, il che comincerebbe a essere preoccupante, oppure se – ferma restando la regola generale del ciclismo (dotata di belle eccezioni) per cui chi presto inizia presto finisce – sapranno confermarsi al massimo livello anche nei prossimi otto o nove anni, sopportando il peso del carico crescente in notorietà e sacrifici.
Ma intanto godiamoci la freschezza con cui in un solo giorno, in una sola ora, in un solo quarto d’ora, questo Pogačar con la faccia da studente ha spazzato via come una brezza l’aria pesante di un Tour, al solito, troppo ingessato e poco spumeggiante, benché finalmente eccitante nel tracciato e, quantomeno, a tutto tondo nell’intensità del passo.

Gabriele Bugada

Il podio del Tour de France 2020 (Getty Images Sport)

Il podio del Tour de France 2020 (Getty Images Sport)

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