18 MAGGIO 1909: ARRIVANO LE MONTAGNE, VINCE ROSSIGNOLI, GALETTI LEADER

maggio 24, 2020
Categoria: News

Quarta puntata della storia del primo Giro d’Italia. Il 18 maggio debuttano le salite, inaugurando un centinaio d’anni d’imprese solitarie. Il primo uomo solo al comando è il milanese Carlo Galetti, ma il suo tentativo sfuma sulle polverose e “sgarrupate” strade della Campania: raggiunto dalle parti di Caserta, al traguardo di Napoli sarà preceduto di una manciata di secondi da Giovanni Rossignoli, ma coronerà questa giornata con la conquista della testa della classifica. Fioccano le prime squalifiche, i “furbi” sono già all’opera.

Il 18 maggio è il giorno della prima frazione di montagna della corsa rosa. Si va da Chieti a Napoli attraversando per 242 Km gli Appennini. In programma le tre ascese a Rocca Pia (più celebre come Altopiano delle Cinque Miglia), a Rionero Sannitico ed al valico del Macerone. Le prime due sono piuttosto lunghe ma pedalabili, mentre molto temuti sono i 3.7 Km del Macerone, dove ai disagi per il fondo sterrato si sommano quelli dovuti a una pendenza media del 7%. Non s’incontrano ulteriori asperità negli ultimi 100 Km, comunque non meno disagevoli dei precedenti a causa del pessimo stato nel quale versano le strade campane, scavate da solchi profondi e ricoperte d’uno spesso strato di polvere.
Il raduno di partenza è fissato a Chieti alta ma, per questioni di sicurezza, l’organizzazione stabilisce di neutralizzare la pericolosa discesa iniziale. Il via ufficiale è così dato presso la stazione ferroviaria, nel quartiere di Chieti Scalo. Sono le 6.40 dal mattino e dalcuni minuti tre corridori hanno saputo d’esser stati messi fuori classifica. Sono Vincenzo Granata, Guglielmo Lodesani e Andrea Provinciali, gli autori del primo tentativo di doping. Un doping “amministrativo”, definiamolo così, accaduto nella precedente tappa, quando i tre avevano percorso un tratto in treno, tra le stazioni di Ancona e Grottammare, alla quale erano scesi solo perché in quel comune era previsto il secondo punto di controllo. Per loro immensa sfortuna, però, erano stati notati da alcuni giudici che, non avendo incombenze direttamente relative allo sviluppo della tappa, si stavano velocemente trasferendo da Bologna a Chieti. Mentre Provinciali riprende il treno, stavolta per far rientro a Milano, gli altri due continuano la corsa poiché il regolamento dell’epoca consente ai ritirati, anche a quelli estromessi dalla giuria, di portare a termine il Giro, se lo avessero voluto.
A pochi chilometri dalla partenza si affronta un breve e facile strappetto su strade pesanti, antipasto di quello che si dovrà superare più avanti. Già basta per selezionare le retrovie e c’è chi medita di volgere la bicicletta e tornare a Chieti, chiudendo lì la sua corsa. Si rischia l’incidente quando il varesino Domenico Ferrari, nel tentativo di recuperare la pompa che gli scossoni avevano fatto volar via, scarta improvvisamente e quasi va a sbattere contro un muro.
Ai piedi dell’altopiano delle Cinquemiglia il gruppo di testa è composto di 30 corridori, che diventano 35 sulla salita a morbidi tornanti verso Rocca Pia. Tra i primi non sembra esserci grande selezione e questo permette al capoclassifica Luigi Ganna di recuperare dopo una foratura. Ci si stacca, ma si rientra con facilità. Dietro, invece, si fa molta fatica e in particolare la subisce il torinese Mario Pesce, secondo piazzato nella tappa d’apertura, che sviene nell’affrontare la salita verso Rionero. Nella successiva discesa si verifica anche un errore di percorso quando, all’altezza di un bivio non segnalato, alcuni corridori prendono la via sbagliata, una strada che fortunamente si ricongiunge poco più avanti con la strada “maestra”.
Il Macerone si rivela essere un monte cattivo, forse abitato da un dio terribile, che punisce chi osa sfidarlo, com’era capitato ai Giganti che avevano tentato la scalata all’Olimpo. Quasi nessuno riesce ad affrontarlo in sella, Ganna piange disperato perché la sfortuna gli ha riservato l’ennesima foratura (alla fine saranno quattro), Giovanni Cuniolo è messo ko: a Isernia, secondo posto di controllo, il piemontese è steso sopra un tavolo, mentre indica il piede destro. Il tendine è partito, il Giro è finito anche per lui.
All’uscita del tratto montano c’è un uomo solo al comando, il milanese Carlo Galetti. In un polveroso nuvolone lo inseguono il pavese Giovanni Rossignoli e, più staccati, un altro pavese, Clemente Canepari, e il romano Ottorino Celli.
Il tifo delle genti del sud è caloroso, quasi eccessivo. Per frenare gli entusiasmi del pubblico il direttore di corsa Armando Cougnet è, infatti, costretto a ricorrere a minacce verbali prima e fisiche poi, quando lo si vedrà scuotere una lunga frusta, attrezzo normalmente inserito nell’armamentario dell’organizzatore dell’epoca. Galetti è ancora in testa all’imbocco del vialone che dalla Reggia di Caserta porta verso Napoli; in fondo al lungo rettilineo non è più solo, poiché l’hanno nel frattempo raggiunto Rossignoli ed il compagno di squadra Canepari, mentre Celli non ce l’ha fatta.
Avvicinandosi alla città partenopea alla presenza umana si affianca quella canina. Le strade di Caivano e Casoria, in particolare, pullulano di ragazzi e cani che scorrazzano da tutte le parti. Miracolosamente non avvengono incidenti, mentre il fondo stradale migliora progressivamente.
L’arrivo è a Capodichino. A 300 metri dalla meta Rossignoli guadagna un breve margine di vantaggio, che mantiene fin sul traguardo nonostante l’estremo e disperato tentativo di Galetti, vincitore morale di questa frazione e nuovo capoclassifica.

4 – continua

Mauro Facoltosi

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