MOLLEMA NON MOLLA: LE FOGLIE DEL LOMBARDIA SONO D’ALLORO ANCHE PER GLI SCONFITTI

ottobre 13, 2019
Categoria: News

Il giro di Lombardia presenta per l’ennesima volta in anni recenti una startlist di fenomeni in gran forma. Alla fine trionfa il sempre solido ma di rado vincente Mollema con un gesto di intuito e coraggio. Valverde secondo, tutti marcano Roglic.

Il Giro di Lombardia è gara in grandissima ascesa negli ultimi anni, soprattutto in termini di quello spessore internazionale che finalmente gli conferisce il lustro corrispondente al ruolo di classica Monumento: un concetto, quest’ultimo, che pur sempre presente nei fatti, è maturato in ambito soprattutto anglosassone nell’ultimo quarto di secolo, e ha via via contribuito a fare del Lombardia un obiettivo fra i più prestigiosi in assoluto, appetito dal gotha del ciclismo mondiale nonostante la collocazione in calendario peculiare, di estrema chiusura, in simmetria con la Sanremo ma di fatto costituendo una soglia ancor più radicale. E tutto ciò a dispetto di un certo snobismo interno agli stessi organizzatori di RCS, che gli han sempre preferito la Sanremo stessa, per l’appunto, maltrattando il proprio secondo Monumento fin nel ridicolo battesimo di ILombardia (con una “L” sparita per crasi).
Cambi di percorso a tratti suicidi, inseguendo soldi e favori politici nella sponda lecchese, copertura televisiva talora insultante (specie a paragone delle interminabili ore di Sanremo), GPS ai limiti dell’ubriachezza, come accaduto oggi stesso: tanta approssimazione, a volte sconfinante nella pochezza, non è bastata a frenare un percorso di crescita che ha condotto dall’appannamento qualitativo degli anni Novanta al fulgore attuale, passando prima per vittorie italiane di peso, pur su un campo partenti non eccelso (Bartoli e Di Luca), poi per un’epoca di vincitori sempre nazionali ma a fronte di una concorrenza più ampia geograficamente (gli anni di Cunego e Bettini), e infine giungendo alla maturità di una gara contesa da campioni plurivincitori di Grandi Giri e Classiche Monumento. Con l’eccezione dello svizzero Zaugg, un podio al Tour de France, o almeno in un altro GT, è divenuto il requisito minimo per ambire alla vittoria sulle sponde lariane se già non si era campioni col sigillo di qualità di una Liegi nel palmarés. Possiamo anzi dire tranquillamente che nell’ultima dozzina di edizioni o giù di lì il Giro di Lombardia ha consolidato un albo d’oro perfino più robusto di quello della Doyenne e forse perfino del Fiandre. L’altra faccia della medaglia, o sintomo, di questa situazione è che dopo quasi trent’anni ci ritroviamo per la prima volta come nel 1990 senza italiani in top ten, a dimostrazione, certamente, della competitività globale della gara, ma anche di una difficile fase di transizione che il movimento italiano si trova ad affrontare.
Certo, se c’è un aspetto sul quale si è cominciato a lavorare davvero bene, dopo anni di insistenza da parte degli appassionati, è l’elaborazione di un calendario di avvicinamento e preparazione ben costruito. L’autunno italiano sta prendendo la forza di un vero e proprio polo della stagione, sfuttando la fionda gravitazionale della Vuelta e del Mondiale per condurre al Lombardia attraverso gare sempreverdi o rinverdite, tutte di enorme tradizione, come il Giro dell’Emilia (e contorno emiliano), la Tre Valli Varesine (e resti scorporati del Trittico Lombardo), la vera “Doyenne” o “Decana”, cioè la Milano-Torino ed anche il Giro del Piemonte, o Gran Piemonte che dir si voglia. Peccato che, siccome è destino non fare mai trentuno, al risveglio tardivo ma finalmente innegabile degli organizzatori italici, corrisponde in questo frangente un duro attacco da parte dell’UCI di matrice francese, che nel riorganizzare il calendario ha declassato la gran parte di queste corse in modo spudorato, per fare invece spazio all’ascesa in termini di categoria dei propri eventi nazionali fra cui garette in termini di albo d’oro quali Drôme Classic, GP Plumelec e simili, GP Fourmies. Spetterà al movimento italiano l’onore e l’onere di non perdere per strada la potente rivalorizzazione vissuta dal bel blocco autunnale di classiche e semiclassiche nonché dal Lombardia stesso a cui conducono.
Un altro sintomo di questa rivalorizzazione e del concomitante cambiamento di tempi, tutto positivo, a cui assistiamo è che per la prima volta dal lontano, udite udite, 1987 (se per la fretta non inciampo nelle statistiche sbagliate), ebbene, un vincitore del Tour de France conquista nella medesima stagione anche il podio di una Monumento. Naturalmente Nibali – ed è lui stesso una bella eccezione, più unico che raro – ha vinto il Tour e un tris di Monumenti, ma non nello stesso anno. E finalmente c’è voluto un Egan Bernal, con la freschezza dei suoi 22 anni, non appagato da un nonnulla come la maglia gialla, per ripresentarsi in forma e gasato al via delle classiche d’autunno. Lo si era visto pimpante al Toscana, ma la startlist non eccelsa giocava un ruolo in quel secondo posto, poi tanta fatica e km di corsa fra Peccioli e il Pantani, nono all’Emilia, sesto su Superga alla Mi-To, infine vincente a Oropa per il Gran Piemonte, supportato da un gran Ivan Ramiro Sosa. La coppia colombiana di casa Ineos torna a carburare nel triangolo lariano, in una gara vera, tattica, difficile, e nonostante tanti umanissimi stenti in gara, arriva questo terzo posto che sa davvero di statistica storica.
D’altronde non è cosa da poco vedere al via, e tirati a lucido, non solo il già nominato vincitore del Tour, ma anche quello della Vuelta, Roglic, che sarà faro della corsa, nonché il trionfatore della Liegi Fuglsang. Anche se non altrettanto brillanti ci sono pure il secondo del Giro, Nibali, e il vincitore della Roubaix, Gilbert. Insomma, diciamo che mancano giusto Alaphilippe (scusabilissimo) e il vincitore del Giro Carapaz, fuori causa per un presunto infortunio ma sopratutto per pesanti giochi di potere, nella fattispecie per il conflitto fra il gruppo dei suoi procuratori e la Movistar, uscita sconfitta, con gran parte dei propri talenti, tra cui lo stesso Carapaz, dirottati in massa alla Ineos. Forse la fine di una delle eminenze grigie di trent’anni di ciclismo, Unzué, e il segnale definitivo dei cambi di equilibri in questo sport.
Ma veniamo finalmente alle note di cronaca, che sono quasi il meno, a fronte di questo scenario complessivo e di ciò che rappresenta per il ciclismo a venire, italiano e non solo.
Della solida fuga del mattino segnaliamo solo Masnada, caparbio nel valicare per primo il Ghisallo, e Skuijns, che lo insegue, prima pedina di un importante gioco di squadra della Trek-Segafredo. L’avventura degli evasi del giorno si estingue fra Ghisallo e Muro di Sormano, capolinea per i due superstiti testé nominati, anche se non senza che Skujins dia il suo piccolo contributo all’allungo di Ciccone, seconda pedina importante in chiave tattica, sulle pendenze impossibili del Muro. La robustezza della fuga iniziale così come un tracciato non privo di asperità sono stati elementi funzionali al debilitamento delle due squadre faro, la Ineos devastante nel Gran Piemonte e la Movistar di Valverde, già secondo a Superga. Avventizio, fra Ghisallo e Muro, un allungo senza conseguenze di Jungels, salvo il fatto di scoppiare e lasciare poi isolato Enric Mas.
Sul Muro gli attacchi ripetuti di Ciccone generano una situazione fluida in cui mettono il naso davanti i vari Woods (strepitoso vincitore della Mi-To), Latour, Kuss (ottimo scalatore gregario di Roglic), Majka, Fuglsang, Gaudu e altri specialisti della salita. È però una scrollata di Nibali a far drizzare le antenne a Roglic prima e poi, definitivamente, a Valverde, che con una sparata conclusiva delle sue riporta tutti assieme in vista del Gpm. Discesa tesa ma asciutta, per fortuna senza i soliti incidenti, e poi fase tattica nel piano che costeggia il lago verso Como, fra infiniti mangia e bevi. Se ne vanno Buchmann (quarto in CG al Tour de France!) e il sempre valoroso Tim Wellens, mettendo in luce il fatto che a Valverde resta solo Rubén Fernández e a Bernal il fedelissimo Sosa. Meglio va a Roglic, che deve però spremere a fondo Kuss e Bennett, non fenomenali in pianura. Il gruppo giù dalla Colma si era ridotto a meno di venti unità, ma si va rimpolpando per la poca veemenza della caccia in questo tratto di transizione.
Poco cambia, perché il Civiglio è un vero castigamatti: anzitutto, però, è Nibali a essere castigato dalla sfortuna, quasi casca per una borraccia vagante e scivola in fondo al gruppo nel momento esatto in cui si scatena un forcing davanti. A Vincenzo scende la catena, almeno in termini morali, e dopo un accenno di inseguimento molla botta per passeggiare sereno fino all’arrivo.
Il forcing in testa al selezionato gruppetto, che in breve si mangia i due evasi di cui sopra, lo porta l’ultima pedina di Valverde, un ritrovato Rubén Fernández, talentuoso spagnolo tormentato da infiniti infortuni e dolori cronici. Qui il suo ritmo in salita fa malissimo e in un niente si è all’uno contro uno fra capitani. Ai nomi piu grossi in assoluto, cioè lo stesso Valverde, più Roglic, Fuglsang e naturalmente Bernal, si sommano l’uomo in forma del momento, ovvero Woods della EF1, nonché dei giovani scalatori di belle promesse: Pierre Latour, l’uomo dei rapporti impossibili che fece sudare Contador e Quintana; Jack Haig, il gregario degli Yates che spesso e volentieri va più forte dei capitani (come oggi con Adam, steso dal Civiglio); gli ancor più giovani spauracchi per le grandi montagne, il francese David Gaudu e lo spagnolo Enric Mas. E l’intruso di turno… Bauke Mollema! L’olandese, un predestinato in gioventù, ha raggiunto la maturità collezionando top ten nei GT e in qualche grande classica dal tracciato impervio, anche se le vittorie sono state sporadiche, seppur talora di peso: una tappa alla Vuelta o al Tour, una Classica di San Sebástian. La squalifica del Bisonte Cobo nella Vuelta 2011, oltre a omaggiare il povero Froome nel suo letto d’ospedale, si è tradotta in un podio di GT per Bauke, che così – lo diciamo fra il serio e il faceto – ha ottenuto il passaporto che descrivevamo sopra per viaggiare verso una legittima vittoria del Lombardia. Non pochi i suoi podi, da uomo poco veloce nelle gare di un giorno e da solido contendente senza guizzi nelle gare a tappe più prestigiose, come Tirreno o Svizzera.
Mollema coglie l’attimo, subito dopo una sfuriata di Valverde volta a finalizzare il lavoro di Fernández. Ma mentre lo spagnolo è marcato a uomo, all’olandese si lascia spazio: clamoroso errore. Bauke indovina la scalata della vita, probabilmente stacca il record del Civiglio con i suoi rapportoni e l’andatura a pendolo, poi è una crono fino alle fine (d’altronde l’abbiamo visto campione del mondo pochi giorni fa, nella nuova specialità di crono a staffetta mista per nazioni, con la sua Olanda).
Dietro è Pierre Latour a picchiare duro, un altro che più che ballare dondola sui pedali con un cambio mostruoso. Due, tre, quattro attacchi, lo tallonano sempre, con conseguenti pause di respiro in cui si decide a chi tocchi tirare, e intanto Mollema va. Quando il francese ottiene un provvisorio via libera, è roba da niente: la discesa e il piano precedente il San Fermo riportano tutti assieme.
Ancora asfissia tattica, marcature a uomo, recriminazioni… fra Valverde e Roglic, il tasso di succhiaruotismo è in effetti stellare. Nessuno si prende la responsabilità finché lo sloveno si incavola pesante e piazza uno scatto in pianura mostruoso, seguito da accelerazione tipo manetta aperta. Pare di un altro pianeta, pare minacciare Mollema. Ma la molla di Roglic si scarica e tutti gli altri tornano sotto. Valverde ci prova sul serio, e screma la compagnia: come previsto, restano lui, Woods, Fuglsang, Roglic, e Bernal, fino ad ora poco appariscente. Ma è proprio Bernal che lancerà in fondo al San Fermo la sparata più violenta, seminando solo provvisoriamente gli altri, con Roglic in debito permanente di ossigeno dopo il numero in solitaria. Si rimescolano le carte, per la gioia di un Mollema ormai involato verso le lacrime di gioia, e Valverde ritenta in discesa. Allunga, lo riprendono Bernal e Fuglsang – che batterà in volata. La volata del secondo posto.
Bernal è sul podio, un podio davvero incredibilmente storico, come dicevamo più sopra. Valverde, che fra sei mesi fa quarant’anni, porta a casa il secondo posto di un Lombardia in cui era probabilmente il più forte – non forse il più sveglio – a fare pendant con l’altrettanto clamoroso secondo posto in classifica generale alla Vuelta, il tutto condito da secondi posti pure alla Mi-To, al Gp Beghelli, dietro a Nibali nell’ultima tappa alpina del Tour, nella generale dei giri a tappe di Valencia e Murcia e via dicendo (un paio di “corsette” le ha vinte comunque, una tappa alla Vuelta e il campionato nazionale più tappa e generale alla Route du Sud). Fuglsang, quarto, si conferma alla miglior stagione della carriera, 34enne, con Liegi e Delfinato, tappe a Vuelta e Tirreno, posti d’onore a Strade Bianche e Freccia. Roglic finisce settimo ma è stato il vero faro della corsa: poco aggressivo, forse, ma tutti guardavano lui. Se ne lamenterà a fine gara, però tocca abituarsi: chiude l’anno come il numero uno al mondo. Lui e Bernal portano allori a questo Lombardia, che a sua volta li glorifica come corridori a tutto tondo.
Giovanni Visconti è il miglior italiano, a stento nei venti. Peggior risultato di tutti i tempi per i corridori di casa in questa corsa. Adesso che (forse) abbiamo salvato, almeno in parte, il patrimonio delle gare italiane, ci sarà da salvare il movimento dei corridori. La strada da fare non è poca.

Gabriele Bugada

Lattacco di Mollema sulla salita di Civiglio (foto Bettini)

L'attacco di Mollema sulla salita di Civiglio (foto Bettini)

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