TROPPO POGACAR PER TUTTI: AGGREDISCE GREDOS, FA PODIO E TAPPA
La notizia del giorno è che Roglic, salvo scivoloni sulla passerella madrilena, ha vinto la Vuelta, il suo primo GT. Ma il nuovo arrivato che fa lustrare gli occhi è l’altro sloveno, il ventenne Pogacar.
Ultima tappa effettiva splendidamente disegnata fra i contrafforti della Sierra di Gredos, in una Spagna profonda fra Ávila e Salamanca incupita da folate gelide e pioggia: e la Vuelta si va riavvolgendo su se stessa, riassumendosi in una sintesi con retrogusto di eterno ritorno. Ancora una volta, una partenza a tutta birra con la fuga che stenta a partire perché i miliziani di Roglic sbarrano ogni scappatoia ai guerriglieri Astana, che a turno provano pressoché tutti a prendere il largo per erigere una testa di ponte al proprio capitano. Missione fallita e tappa già quasi blindata dal punto di vista strategico: intanto, però, le gambe si appesantiscono e il biglietto per la fuga diventa carissimo, oltre ad essere un biglietto di andata e ritorno, ritorno fra le grinfie del gruppo, s’intende. Fra i tanti, un quartetto si screma su uno strappo cementato incastrato nella campagna iberica: il francese Edet, già in top ten per qualche giorno e tignoso come pochi, un altro cagnaccio come Howson, gregarione di casa Mitchelton Scott, il giovane talento aragonese Samitier e infine il 25enne portoghese Ruben Guerreiro, il più attivo in salita, sempre molto aggressivo in questa seconda metà di Vuelta nonché, sostanzialmente, l’atleta che sta tenendo in piedi la compagine russo-svizzera in questa corsa. Come dicevamo, aleggia un senso di già visto, di facce ormai note; d’insistenza, purtroppo, non premiata. In questa chiave si inquadra pure il coraggioso e quasi scriteriato aggancio della fuga da parte dell’inglese dell’Ineos (ex Sky) Teo Geoghegan Hart, altro fenomeno in fieri che in più occasioni ha tentato disperatamente di raddrizzare la Vuelta clamorosamente insulsa del proprio superteam. Il londinese evade da solo dal gruppo e su terreno ondulato recupera, sempre in assolo, un paio di minuti alla testa della corsa, raggiungendola proprio mentre dietro la Jumbo del leader prende le redini del gruppo per ridurlo in breve a gregge pascolante. I quasi cinque minuti di vantaggio che la fuga ora di cinque uomini andrà accumulando serviranno tuttavia a poco: anticipiamo fin d’ora che gli ultimi due fuggitivi, proprio Guerreiro e Tao, verranno implacabilmente riassorbiti a una quarantina di km dal traguardo.
Così come è stravisto l’approccio soporifero – nonché assolutamente legittimo e sensato – della squadra del leader, è altresì un classico di questa Vuelta (e non solo) l’improvvisa ma non imprevista sfuriata Astana in vista dell’attacco del proprio capitano. Shefer, in ammiraglia, non è esattamente una cima: lo ricordiamo sempre sulle strade spagnole intento a far squalificare per traino Nibali, e in epoche anteriori dedito non si sa se consapevolmente a far decimare per doping il vivaio delle giovanili Astana.
Tanto coraggio, tanta grinta, tanta volontà, ma, francamente, un uso delle straripanti energie del team un po’ troppo schematico e dunque poco dirompente. Al ripresentarsi di qualche piccola asperità come aperitivo della principale ascesa di giornata, l’Astana s’innesca e piazza i propri gregari a martellare un ritmo via via più devastante in testa al gruppo, raggiungendo e imboccando la decisiva salita di Peña Negra a un passo assai sostenuto. Quando con l’ultima menata di Fuglsang si esaurisce il potenziale per tirare ulteriormente, Superman López piazza lo scatto secco. Che gli avversari sanno benissimo fosse in procinto di arrivare. Il conto alla rovescia può avere un impatto psicologico perché ansiogeno, ma l’effetto sorpresa ridotto a zero non aiuta. Ci vuole Roglic in persona per tappare il buco, e a reggere l’urto sono solo in quattro, vale a dire gli altri componenti di quella top five che questa Vuelta vede così ben definita nella propria composizione, sebbene poi alquanto altalenante nel proprio ordine gerarchico interno (fatto salvo il primato indiscutibile di Roglic). Ecco dunque la coppia Movistar con Valverde e Quintana, e la coppia slovena con la maglia rossa e il novellino Pogacar.
La Bora di Majka ricuce da dietro, López riprende fiato, e nel giro di quattro km la scena si ripete identica. Gruppo a pezzi sotto l’assalto all’arma bianca del capitano Astana, tutti gli altri che corrono in difesa, comprensibilmente nel caso di Roglic, meno per la coppia Movistar, che a ogni ricongiungimento diventa oltretutto una schiera di cinque o sei atleti in maglia blu.
Proprio quando lo spettatore è sul punto di rassegnarsi a vedere per il resto della salita la replica della scenetta con l’unica variante di un Superman sempre più spompato, com’è naturale, ecco lo sprazzo di novità, che poi tanto novità non è, dato che il protagonista ce ne ha offerti altri luminosi esempi in questa medesima Vuelta: Pogacar parte secco e lascia tutti a guardarsi perplessi. Mancano cinque km di salita e circa quaranta alla fine. Il terreno che manca all’arrivo è durissimo, un susseguirsi di salitelle insidiose: spazio per mantenere un vantaggio a fronte di un gruppo inseguitore, ma anche dov’è facile piantarsi di colpo.
In un mondo di ciclopokeristi dai nervi d’acciaio, il buon Roglic, ormai del tutto privo di compagni a supporto, si sarebbe trovato una bella patata bollente da gestire, obbligato a una crono solitaria in testa al gruppo per impedire a Pogacar di accumulare quattro o cinque minuti mentre il resto sogghigna alle sue spalle. Ma, come già accaduto più e più volte in questa Vuelta, ecco che qualcun altro gli leva le castagne dal fuoco. Un classico del ciclismo, sia chiaro: se il leader appare fin troppo solido, ci si scanna per i piazzamenti senza nemmeno sognarsi di sbancarlo.
Chi altri poteva assurgere a emblema del difensivismo se non la difensivissima Movistar? C’è un’eccezione aneddotica in uno scatto isolato di Valverde, che però dopo tre pedalate in croce si ferma, platealmente alludendo al fatto che la Bora, per Majka, si fosse messa a inseguirlo in maniera alquanto inspiegabile. Innegabile, ma magari qualche colpo di pedale in più si sarebbe anche potuto dare, invece che sbracciarsi subito in segno di protesta.
Ecco quindi in azione il trenino Movistar, fatto però di gregari ormai parecchio bolliti: Pogacar mantiene un vantaggio incredibilmente stabile tra il minuto e mezzo e il minuto e tre quarti. Gli ultimi km sono in salita, e Fuglsang dà una bella scrollata quasi più per mettere nei guai i Movistar, che si scoprono sfrondatissimi, che non per il proprio capitano: Superman si è speso fino in fondo e non solo non è più in grado di attaccare, ma finirà per scivolare indietro; d’altronde, come confermerà in fase d’intervista, il suo scopo era dare tutto per ribaltare la Vuelta, dopodiché perdere posti in classifica e perfino la maglia di miglior giovane lo turbava ben poco.
Finiamo con l’ultimo scampolo di telenovela Movistar: il terzo posto di Quintana in generale viene lasciato sfumare, mentre a propria volta il colombiano fa il minimo sindacale (o qualcosa in meno) per tirare in testa al gruppo ristretto e salvare così il secondo posto di Valverde. In breve Valverde capirà di dover fare da solo, avendo peraltro fatto i fatti propri in lungo e in largo: allunga veemente, portandosi dietro Roglic e Majka, e si dedica a un prolungato forcing mirato a contenere il vantaggio di Pogacar. Gli ultimi km si fanno interminabili, fra pietraie scoscese e muschiose, nel nulla più assoluto: Pogacar però regge bene e conquista d’un colpo la tappa (la terza in questa Vuelta, un record per un ventenne!), la maglia bianca di miglior giovane a spese di López e la terza piazza a spese di Quintana. Secondo fa Valverde, che blinda così il secondo posto pure in classifica generale; in leggero quanto insignificante affanno Roglic, giusto agli ultimi duecento metri, dove si lascia scappare pure Majka e Pernsteiner. Poi tutti gli altri. Va da sé che la Movistar, come ormai in tutti i GT dell’anno, si porti a casa la classifica a squadre, un premio particolarmente paradossale perché maturato in un contesto di plateale frattura del team nonché di profondo inefficacia tattica fra egoismi e difensivismo a oltranza.
Ciò non toglie che il risultato conquistato da Valverde sia fenomenale: è ora fra i tre corridori più anziani di sempre a salire sul podio di un GT, nonché primo in assoluto di tutti i tempi in termini di top ten raccolte nella generale finale dei grandi giri… diciannove (19!) su 26 GT cominciati e 22 finiti; tra esse, nove podi. Per dieci anni, dalla Vuelta 2006 compresa a quella 2016 esclusa, Valverde ha finito tutti i grandi giri cominciati, quindici in tutto, ed è sempre arrivato fra i primi dieci della classifica generale con l’unica eccezione del Tour 2012. Stiamo parlando di un atleta per cui la classifica generale è un vizietto quasi proibito, che ha anzi limitato la vera propensione di cacciatore di tappe e campione da Classiche. L’altra faccia della medaglia è che dei cinque GT che la squadra ha vinto durante tale lunghissima (e non conclusa) carriera, uno solo è arrivato per mano dell’uomo bandiera: anzi, negli altri casi o non era al via, o dovette ritirarsi dopo poche tappe, oppure si diede la coincidenza di uno di quei – rarissimi – casi in cui Alejandro finì fuori dai dieci, ben lontano dall’alta classifica. Forse sarà un caso o forse no, ma pare che l’avere un alfiere e di questa schiatta in lotta per l’alta classifica, invece che costituire un punto di forza, diventi un punto debole in termini di vittoria assoluta del GT di turno. Troppa forza, troppo peso, troppo carisma? Sicuramente chi non ha giovato della convivenza è Quintana, appassito all’ombra di Valverde (pur avendo vinto più del compagno in termini di grandi giri e gare a tappe), e decisosi ormai troppo tardi a cercare arie più salubri altrove.
In chiusura, tutti i meritati complimenti a Roglic, vincitore su un percorso complesso e ricco come capita di rado, lungo tre settimane di corsa vera e con pochissime tappe di transizione: ha retto a tutto quel che gli è piombato addosso, dai ventagli per 220 km ai muri al 22%, ha dominato a crono e in salita è apparso inattaccabile, permettendosi anzi qualche piccola stoccata all’uno o all’altro rivale in affanno. La squadra l’ha supportato meglio che non in passato, senza tuttavia apparire impeccabile, ma a ciò hanno supplito le generose concessioni, più o meno consapevoli, di Astana e Movistar che, chi per voler troppo credere alla propria vittoria, chi per non credervi affatto e volendo salvare la piazza d’onore, hanno protetto il primato del leader in tappe critiche ove era stato isolato.
Gabriele Bugada

Lo sloveno Pogacar vince l'ultima tappa di montagna della Vuelta 2019 (foto Bettini)