UN QUARTO D’ORA PER RESTARE IN QUATTRO: E UN INFINITO VALVERDE INFILA TUTTI

agosto 31, 2019
Categoria: News

Il muro tremendo di Mas de la Costa, dominato da Quintana, riduce a quattro i pretendenti per questa Vuelta, dopo meno di una settimana. Valverde finalizza vincendo la tappa. Ma la tragicommedia Movistar inanella un’altra puntata.

Quasi dodici mesi fa alla Vuelta l’emblematica ascesa ai Lagos de Covadonga concludeva la seconda settimana con quattro contendenti per la classifica generale racchiusi in meno di un minuto: in ordine sparso, tre di essi sono gli stessi che fanno a spallate sulla lingua di cemento del modernissimo muro di Mas de la Costa, mentre il resto del gruppo arranca distanziato.
Oggi, alla tappa numero sette, il quartetto che si accalca in cima alla classifica generale è compresso in meno di mezzo minuto, mentre il resto del mondo è ancora più lontano: a due o tre minuti i rivali più prossimi. Una Vuelta dal tracciato più creativo e finora assai vivace ha scremato molto prima dell’abituale le figure di spicco.
I corsi e ricorsi storici non si fermano qui: nella sezione più dura dei Lagos, la Huesera, fu Quintana a forzare la selezione riportandosi su un pimpante Superman López, allentando però il ritmo nel prosieguo per consentire il rientro a un Valverde in affanno. E oggi, per l’ennesima volta, assistiamo a un Quintana che appare il più forte in salita ma che al dunque decide di rispettare il compagno in momentanea difficoltà, nonostante il ben diverso trattamento che – a parti invertite – gli è stato riservato giusto l’altroieri.
Rispetto all’anno scorso, manca l’infine vincente Simon Yates, sostituito da Roglic nel ruolo di contendente non ispanofono: Roglic non veste ancora il rosso del leader, riconquistato ora per la terza (sì, la terza!) volta in appena una settimana da Miguel Ángel López, ma già guarda alla crono di martedì prossimo come a un buono pesante per riscuotere minuti di vantaggio. Quel che viene da chiedersi è se la Movistar riuscirà anche questa volta nella poco invidiabile impresa di far uscire dal podio entrambi i propri atleti come fece nel 2018.
Quest’anno i dubbi su tattica e forma vengono acuiti da una gestione della comunicazione a dir poco scellerata: dopo un Tour de France grottesco per disunione e relativa povertà di risultati, ci troviamo con Valverde che, alla quinta tappa, attacca sfacciatamente il compagno Quintana, per poi indicarlo in sede di intervista come il capitano designato, mentre questi replica a mezzo stampa un paio di giorni dopo che il team manager Unzué ha incoronato proprio Valverde come leader nella tipica riunione sul bus di squadra.
Con queste succose premesse, si direbbe che la telenovela Movistar sia eterna, interminabile, infinita almeno quanto il proprio uomo simbolo, etichettiamolo così, quell’Alejandro Valverde che, in maglia da campione del mondo all’alba dei trentanove anni, sigla oggi il record assoluto di longevità fra la prima e l’ultima tappa vinta in un Grande Giro: sedici anni intercorrono fra la sua prima frazione conquistata alla Vuelta 2003 e l’affondo odierno, scavalcando di un colpo Coppi e Bartali – dici poco! – che prima guidavano appaiati questa speciale graduatoria avendo vinto tappe a quindici anni di distanza. Tanto per capirci, rimanere più o meno sulla cresta dell’onda per dieci anni, come un Contador, è già uno standard notevole per un professionista, e perfino un atleta sportivamente assai longevo come il da poco scomparso Felice Gimondi vede le proprie prima e ultima vittorie di tappa separate da una forchetta di “appena” undici anni. E non è detto che Valverde si fermi qui…
Venendo alla cronaca di giornata, va sottolineato che il tracciato era ben diverso da un biliardo con rampa di garage finale: la presenza di altre salitelle e di segmenti assai tortuosi ha stimolato la formazione di una fuga di grande spessore, con una decina di uomini fra cui spiccavano collaudati cacciatori di tappe come Marczyinski o Brambilla, un potenziale uomo da generale come Henao o un fenomeno a tutto tondo come Philippe Gilbert. Saranno questi ultimi a emergere, per poi vedersi travolti dal gruppo lanciato come un missile sull’ascesa finale. Gilbert, va detto, sembra dedito a preparare il Mondiale, più che altro, con fucilate sugli strappi e progressioni da manuale dell’allenamento d’intensità.
Tutto ciò non resta però senza conseguenze più globali: il gruppo, interessato a contendersi la tappa, deve imporsi un passo devastante, ancor più letale fra atleti tartassati dalle cadute di ieri (Formolo abbandona prima del via, Van Garderen a tappa in corso), e in men che non si dica arriva a contare una trentina scarsa di unità. Astana e Movistar si alternano alla frusta, con qualche puntuale apparizione dei Jumbo-Visma. La velocità impressa su stradine spaccagambe fa schizzare la tensione e la fatica alle stelle. La maglia rossa di Dylan Teuns, pure specialista di muri impossibili, evapora già sul penultimo Gpm.
Chi mostra di aver poca paura è Roglic, che comanda al suo Sepp Kuss, il giovanissimo e promettente statunitense che finalmente rivediamo ad alto livello, un approccio furioso al muro: in un attimo il gruppo dei migliori nonché ormai gruppo di testa si riduce a una decina di unità, peraltro accaparrate da pochissimi team. Roglic con Kuss e Bennett per la Jumbo, Valverde, Quintana e Soler per la Movistar, Superman López e Izagirre per la Astana, Majka da “isolato” per la Bora, quindi il baby fenomeno Pogacar per la UAE Emirates, squadra che vedrà pure il successivo rientro di Aru, dapprima subito in apnea, poi in agonizzante recupero. Chi qui non c’è, perderà minimo minimo un minuto e venti, come il forte scalatore Óscar Rodríguez della piccola Euskadi-Murias (nel 2018 aveva conquistato La Camperona, altro muro infernale). Un Chaves, capitano della Mitchelton-Scott, regolandosi anche grazie all’aiuto di Nieve, perderà “solo” un minuto e quaranta, poi i distacchi degli altri viaggiano sui due minuti e via via oltre: meno di venticinque atleti staranno sotto ai cinque minuti di distacco, un’enormità per una ascesa che ne dura quindici.
Il merito, come detto, è del resto del tracciato, oltreché dell’attitudine in corsa di alcune squadre e in particolare di alcuni atleti: prima i fuggitivi, poi, al dunque, Nairo Quintana, che aspetta seicento metri scarsi e poi apre il gas. E la gara è finita per (quasi) tutti: come anticipato, di dieci ne restano quattro. Tanti saluti ai gregari e ai virgulti (per questioni di esperienza e peso specifico, non contiamo come tale Superman López, anche se tecnicamente è ancora in lizza in quanto “miglior giovane”!).
Quintana accelera, poi spinge, scatta, spunta, allunga, insomma da l’impressione di voler torturare a morte tutti i rivali, compreso quello in famiglia, Valverde. Ma quando il murciano è il primo a mollare botta a tutti gli effetti, Nairo sospende le ostilità. Negli ultimi anni ne ha passate di tutti i colori in casa Movistar, non ultime le vicende dell’ultimo Tour, con il fallimentare tridente riproposto contro le sue espresse richieste e con bisticci insensati al termine dei quali, stringi stringi, l’unico a portare a casa la pagnotta è stato il colombiano con la sua brava tappa (la classifica a squadre lasciamola pur lì, l’effetto mediatico delle liti in casa ne svuota ogni senso promozionale e sportivo). Ce ne sarebbe di che farsi gli affari propri, a maggior ragione con un contratto altrove per l’anno a venire già virtualmente in pugno. Però Quintana proprio non ce la fa: sarà questa freddezza ad averlo privato di tanti trionfi, però in termini di professionalità, dopo i tentennamenti del Tour, stavolta non fa una grinza, a differenza di quanto si possa dire del management Movistar o in generale del giornalismo spagnolo, entrambi del tutto succubi al fascino innegabile del proprio fenomeno nazionale, ma parimenti ciechi o assurdamente severi verso il sudamericano che ha tenuto in piedi la baracca nelle corse a tappe da sette anni in qua.
Da qui il game over è definitivo: il ritmo si fa costante con Quintana sempre in testa, lo stesso Quintana chiude su un timido per quanto apprezzabile sforzo di Roglic, poi in volata Valverde, il re indiscusso di ogni epoca sul muro di Huy, ricordiamolo, annichila ogni parvenza di concorrenza. Quintana, come è ovvio, chiude il drappello, ma i distacchi sono insignificanti, tant’è che la maglia rossa è, come premesso in apertura, di nuovo per Miguel Ángel López. Si fa segnalare il record di ascesa: poche le edizioni, ma rispetto al record precedente di Contador, Froome, Chaves e lo stesso Quintana, stavolta sono volati di colpo 30” secchi, tanti su un quarto d’ora di sforzo, e veramente pazzeschi se consideriamo la maggior durezza della corsa odierna e l’individualità dello sforzo in questo caso.
Domani tappa insidiosa, da agguati, ancora promettente per Valverde, poi domenica l’ormai canonica minitappa di 100 km infarcita di salite in quel di Andorra: ma, per quest’edizione, bisogna ancora complimentarsi con i tracciatori, perché si tratterà dell’unica frazione siffatta, e in questo senso ci può perfettamente stare, anzi stimolerà, ci auguriamo, dei begli azzardi, specie da parte degli svariati ciclisti in top ten della generale ma già alquanto attardati. Sarà pure l’unica tappa che flirta a ripetizione con quota duemila, pur non stracciandola, un fattore che come abbiamo visto nello scorso Tour o al Giro 2016 non è da sottovalutare.

Gabriele Bugada

Alejandro Valverde svetta in cima al muro del Mas de la Costa (foto Bettini)

Alejandro Valverde svetta in cima al muro del Mas de la Costa (foto Bettini)

Commenta la notizia