1990-1991 a.P.: IL MORTIROLO AVANTI PANTANI

maggio 28, 2010
Categoria: Approfondimenti

L’impresa del “pirata” al Giro del 1994 ha quasi cancellato il ricordo delle prime due scalate in rosa al Mortirolo, ascesa che debuttò un po’ in sordina nell’edizione del 1990. A far parlare tifosi e corridori, in occasione del battesimo del passo valtellinese, furono le tremende condizioni della discesa, perché la prima volta si salì dal versante più facile, per poi scendere su Mazzo. Non ci furono lamentele, invece, dodici mesi più tardi, quando il Mortirolo fu inserito girato dal verso giusto: mancava letteralmente il fiato al termine d’una tappa breve ma devastante, dominata da un grande Franco Chioccioli, talmente esaltante da far letteralmente “impazzire” un uomo tutto d’un pezzo come Alfredo Martini.

Foto copertina: Chioccioli in azione sul Mortirolo, Giro del 1991

Si dice Mortirolo e si pensa a Pantani, a quel 5 giugno del ‘94 quando il giovane romagnolo appassionò l’Italia del pedale in una tappa destinata a essere annoverata tra le più avvincenti della storia del ciclismo recente.
Fu sulle rampe del Mortirolo, infatti, che l’allora elefantino di Cesenatico diede battaglia alla maglia rosa Berzin e a Sua Maestà Indurain: da quel giorno quella salita ripida e stretta trovò la collocazione tra le vette sacre del Giro d’Italia.
Molti la scoprirono così, in una domenica pomeriggio di tarda primavera, e parve che quella giornata memorabile andasse equiparata ad altre “prime volte” ugualmente importanti, come lo Stelvio di Coppi nel 1953, il Gavia di Massignan nel 1960 o, in tempi più recenti, il Colle delle Finestre.

Solo per chi aveva la memoria corta, in verità, il Mortirolo costituiva una novità per la corsa rosa e, a distanza di alcuni lustri, sembrano passate nel dimenticatoio le scalate che precedettero quella – pur memorabile – del 94.
Perché il Mortirolo aveva fatto la sua comparsa sulla scena del Giro quattro anni prima, nell’edizione del trionfo di Gianni Bugno.
Erano gli anni – quelli a cavallo tra la fine degli anni 80 e l’inizio del nuovo decennio – in cui i percorsi del Giro avevano subito una trasformazione rispetto a quelli che avevano caratterizzato la maggior parte delle edizioni immediatamente precedenti.
Finita l’epoca di Moser e Saronni, gli organizzatori riscoprivano vecchie salite (il Gavia nell’88, l’Etna e le Tre Cime di Lavaredo l’anno successivo) andando alla ricerca di nuove, come il Passo del Rombo e il San Pellegrino in Alpe, ad esempio.
Come il Mortirolo, la cui scoperta si inseriva in questo rinnovato contesto.
L’inedita salita lombarda fu presentata a Torriani da un suo amico della Valtellina, tale sig. Gozzi, il quale, dopo un piatto di pizzoccheri, illustrò al patron del Giro quell’ascesa.
Mai avrebbe pensato che il Mortirolo sarebbe diventato uno dei Santuari del ciclismo, destinato ad affiancarsi ai colli della leggenda di questo sport.

L’esordio del Mortirolo avvenne dunque nel Giro del ‘90.
Inserito nel percorso della diciassettesima frazione (la Moena – Aprica di 223 chilometri) e affrontato dal versante più facile, costituiva la penultima asperità di giornata, dopo il Passo di Costalunga, la Mendola e il Tonale e prima dell’arrivo all’Aprica.
Quella domenica d’inizio giugno, inondata di sole, si aspettò il Mortirolo con la curiosità che accompagna i debutti: si sapeva che la salita da Monno era ostica, ma che lo era ancora di più la discesa verso la Valtellina. Una picchiata pericolosa al punto che l’organizzazione dispose un servizio di “nettezza urbana con compressori” per spazzar via dalla strada gli aghi dei pini che, se sollevati dalla velocità delle biciclette lanciate in discesa, avrebbero potuto finire negli occhi di tifosi e degli stessi corridori.
Bugno aveva il Giro in tasca e non volle strafare. Lasciò partire una fuga di quattordici corridori prima del Tonale e, sul Mortirolo, fu il venezuelano Leonardo Sierra a rendersi protagonista di un assolo che lo portò a scollinare per primo.
Tutto qui, il Mortirolo? Ascesa seria, per carità, ma nulla di più di altri e ben più severi passi del Giro e del Tour. I primi in classifica lo avevano scalato con tranquillità. Il solo Sierra aveva raccolto la sfida con la nuova montagna e si guardò con simpatia a quel ragazzo con la faccia scura, figlio di contadini – e contadino lui stesso prima di correre in bicicletta – che l’anno prima era stato scoperto al Giro del suo Paese da Gianni Savio, che lo aveva portato in Italia in cambio di ventidue biciclette.

Fu la discesa su Mazzo la vera sorpresa. Pendenze incredibili, curve, strada stretta e cadute resero avvincente quel tuffo verso il fondovalle.
Per poco non si rischiò il dramma: Sierra cadde due volte e per due volte si rialzò; il francese Dante Rezze finì contro una roccia.
Per nulla intimorito, dopo aver percorso alcuni tratti bici alla mano Sierra proseguì caparbio verso la vittoria di tappa, tra l’entusiasmo dei radiocronisti venezuelani. Nonostante le cadute conservò un vantaggio rassicurante: Volpi fu secondo a 52”, Boyer colse la terza piazza a 1’26” e Bugno, a 2’10” superò Chiappucci nella volata per il quarto posto.

La pur bella impresa del venezuelano passò quasi sotto silenzio, a fronte delle discussioni che caratterizzarono il dopo corsa.
Incredibilmente, infatti, il Mortirolo entrò nella storia del ciclismo per la discesa, di una difficoltà che mai si era vista in una corsa a tappe.
Alcuni si chiesero se non fosse stato un azzardo piazzarla nel percorso.
Bugno (di cui un pirata dell’etere aveva annunciato la caduta, inserendosi nelle frequenze di radiocorsa) disse che la strada era orribile e pericolosa e che al Tour, probabilmente, non avrebbero osato tanto. Cipollini e Di Basco, giunti al traguardo dopo trentasei minuti dal vincitore, si erano chinati a baciare l’asfalto, quasi a voler ringraziare il Cielo di essere riusciti a rimanere in piedi.
Cesare Sangalli, il cartografo ufficiale del Giro e corresponsabile – insieme a Torriani – di avere scelto il Mortirolo, difese la nuova creatura dalle critiche, osservando che il ciclismo aveva bisogno di tali percorsi. Ricordava i tempi di Coppi e Bartali: le discese sterrate, i ciottoli grandi come uova. Il ciclismo era una sfida continua contro l’impossibile e il Mortirolo rappresentava la nuova frontiera.

La discesa del Mortirolo impressionò, ma forse sarebbe stato meglio percorrerla nel senso contrario. Battere il ferro finchè è caldo, dunque, e così il Mortirolo fu riproposto l’anno successivo.
Meritava un posto da protagonista, quella salita. E la sua collocazione nel tracciato della quindicesima tappa, la Morbegno – Aprica (a una cinquantina di chilometri dal traguardo, prima del valico di Santa Cristina e dell’ascesa finale, in una frazione breve, di appena 132 chilometri) voleva sottolineare che il protagonista di quella tappa doveva essere lui.
Un vero e proprio esame di maturità, con il quale erano chiamati a confrontarsi i primi attori della corsa rosa.
Franco Chioccoli vestiva il simbolo del primato, ma la classifica generale era quanto mai aperta.
Lo spagnolo Lejarreta, secondo a 26”, e Chiappucci, terzo a 1’23”, erano gli avversari più pericolosi. Ma anche il giovane Lelli (che aveva colto il successo a sorpresa sul Monviso ed era quarto a 1’29”) era capace di sorprendere e neppure Bugno, che aveva deluso sulle montagne piemontesi, era tagliato fuori dai giochi, considerato il distacco di 2’37”.
Il Mortirolo era il terreno ideale per verificare le condizioni e le ambizioni degli uomini di classifica: ci si aspettava battaglia e battaglia fu.
Chioccoli, Chiapucci, Lelli, Lejarreta e Sierra scandirono il ritmo nella prima parte della salita. Poi, quando mancavano sei chilometri alla vetta, Chioccioli aumentò il ritmo: Lejarreta e Sierra furono i primi a cedere.
Il terzetto di testa sembrò proseguire di buon accordo, con cambi regolari.
Poi cedette Chiappucci e, da ultimo, Lelli. Il toscano si trovò da solo e, con un rapporto che oggi parrebbe inadeguato alla durezza di quelle rampe (montava un 42 x 24) insistette nell’azione scollinando per primo in vetta, con un vantaggio di 1’10” su Chiappucci, Lelli, Gaston, Lejarreta e Bugno, autore di un ottimo recupero.
Fu l’inizio di una cavalcata memorabile, alla quale neppure lui credeva fino in fondo.
Al termine della discesa, però, il vantaggio era addirittura raddoppiato e, a quel punto, il volo della maglia rosa proseguì.
Nonostante il vento contrario e un cedimento sul Santa Cristina (affrontato dal versante più facile), Chioccioli arrivò a braccia alzate all’Aprica, tra l’entusiasmo generale. Bernard e Boyer si piazzarono ai posti d’onore, staccati di poco più di trenta secondi, precedendo Jaskula e Chiappucci, il quale non mancò di polemizzare con Bugno, colpevole a suo dire di scarsa collaborazione nell’inseguimento.
Non fu un colpo da KO, ma quel volo in rosa sul Mortirolo entusiasmò gli sportivi italiani e Chioccioli, il corridore che solo tre anni prima aveva perso la maglia rosa nella tormenta del Gavia, gettò le basi del successo finale proprio su quella nuova, terribile ascesa.
Tra le immagini indimenticabili di quella giornata, una su tutte: Alfredo Martini che, come un qualsiasi tifoso, corre in salita accanto a Chioccioli e lo incita a squarciagola.
Il Mortirolo superò l’esame a pieni voti e su quell’ascesa impervia, che fu subito definita la più dura d’Europa, fu scritto solo il primo capitolo di una lunga storia che Pantani, tre anni dopo, avrebbe arricchito con ulteriori, irripetibili emozioni.

Mario Silvano

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