RISPUNTA LA LIBERALIZZAZIONE

gennaio 26, 2014
Categoria: News

Priva di vere rivelazioni sulla questione doping, la tanto discussa intervista di Danilo Di Luca a “Le Iene” è servita a rendere di nuovo attuale il tema della liberalizzazione del doping, ciclicamente proposta da più parti negli ultimi anni. Una non-soluzione che equivarrebbe ad una dichiarazione di impotenza.

L’intervista rilasciata da Danilo Di Luca a “Le Iene” ha riportato alla ribalta il tema della liberalizzazione del doping, suggerita dall’abruzzese come migliore soluzione per rendere più equa una situazione che vede i corridori dividersi non fra onesti e disonesti, bensì fra bari puniti e bari impuniti. Una proposta non nuova, avanzata negli anni – tra gli altri – da figure quali Francesco Moser e Umberto Veronesi, quest’ultimo dell’idea di bandire soltanto i prodotti in grado di nuocere alla salute degli atleti (discriminante che renderebbe però consentite, di fatto, solo pochissime sostanze – checché ne dica lo stesso Di Luca – e che introdurrebbe comunque dei paletti che alcuni potrebbero tentare di aggirare).
Il ragionamento a sostegno della tesi è semplice: se non è possibile debellare la piaga del doping, meglio renderlo lecito, così che tutti possano farne uso, ripristinando gli stessi valori riscontrabili nell’utopico scenario di corse pulite al cento percento. Per quanto riguarda eventuali effetti collaterali, si attribuisce al corridore la facoltà di disporre come crede del proprio fisico, eventualmente anche danneggiandolo scientemente.
Al di là di ogni considerazione etica su quest’ultimo punto, già le premesse su cui poggiano le proposte del partito pro-liberalizzazione si prestano a più di una obiezione.
Anche nel caso in cui a chiunque fosse consentita l’assunzione di qualsiasi farmaco, si è davvero certi che tutti avrebbero uguale accesso a tali prodotti? Improbabile: già ora, come affermato dallo stesso Di Luca, non è raro che alcuni atleti entrino in possesso di sostanze sconosciute ai colleghi, traendo per un certo periodo dei vantaggi dall’esclusiva su aiuti di ultima generazione. La liberalizzazione enfatizzerebbe con ogni probabilità la corsa alla pozione magica più recente, creando dunque sbilanciamenti comparabili a quelli attualmente esistenti fra puliti e non. Il tutto senza considerare – giacché ci si riallaccerebbe alla teoria secondo cui il corridore è libero di mettere a repentaglio la propria integrità come meglio crede – l’eventualità che qualcuno, preso dalla febbre dell’ultima novità di laboratorio, decida di spingersi troppo oltre e consumare prodotti eccessivamente estremi.
Sempre a detta dello stesso Di Luca, inoltre, il doping non è pratica per poveri: il prezzo di una fiala di eritropoietina è dell’ordine delle centinaia di euro, costo tale da offrire un palese vantaggio ai corridori e alle squadre con maggiori risorse economiche.
Anche ammettendo poi che tutti abbiano identiche opportunità di accesso ad identici prodotti, resta comunque da appurare che identici farmaci abbiano identici effetti su fisici diversi. Per i comuni medicinali non è così, e appare piuttosto ardito teorizzare che avvenga il contrario per i prodotti in questione. Anche in un mondo in cui tutti si dopassero alla stessa maniera, insomma, il risultato non sarebbe lo stesso di un ciclismo in cui tutti corressero a pane e acqua.
Mettendo da parte le considerazioni di natura tecnica, occorre per di più considerare le ripercussioni che una liberalizzazione avrebbe nel lungo periodo sull’intero movimento e sulla sua percezione da parte del pubblico.
La fama di sport-patria del doping per eccellenza, immeritatamente guadagnata combattendo duramente le pratiche illecite, come avviene per il resto nella sola atletica leggera, diventerebbe a questo punto pienamente legittima e certificata dalle stesse autorità ciclistiche. Per uno sport che si alimenta storicamente soprattutto di entusiasmo popolare, si tratterebbe con ogni probabilità di una condanna a morte, a meno di non credere che le masse possano infiammarsi per gesta dichiaratamente drogate da aiuti chimici.
Appare inoltre ovvio che una simile decisione porterebbe in breve ad un tracollo del numero di praticanti, a partire dai giovanissimi. Ben pochi ragazzi con la passione della bicicletta si avvierebbero ad una carriera preclusa – perlomeno ad alti livelli – a chi non sia disposto a danneggiare la propria salute con farmaci attualmente vietati, e ancora meno famiglie sarebbero disposte ad assecondare le voglie dei giovani più inossidabili. Il ciclismo diverrebbe di fatto uno sport con data di scadenza, destinato a vedersi ben presto prosciugato di talenti, e ad estinguersi contemporaneamente alla fine agonistica delle generazioni adesso in attività.
Legalizzare un reato per la sola incapacità di prevenirlo non rappresenterebbe soltanto uno schiaffo a principi che sarebbe bello credere (illudendosi) universalmente condivisi, ma costituirebbe anche un harakiri da un punto di vista prettamente materiale. L’unico, a quanto pare di capire, che interessi a Di Luca e compagni.

Matteo Novarini

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