NOTTE DA STREGHE SUL MONTE CALVO: FROOME VOLA SEDUTO, SI SALVA SOLO NAIRO

luglio 14, 2013
Categoria: News

Giornata da uomini in nero: nel biancore osseo del Ventoso brillano solo le divise scure della Movistar di Nairo Quintana e quelle della Sky, più di tutte quella girata in giallo di Chris Froome. Contador regge, incassa, si espone, crolla, contiene. Il resto è noia.

Foto copertina: Froome svetta sul Ventoux

Un altro sfregio al monte sacro del ciclismo francese, dopo la risibile scalata del 2009 con le schermaglie e le moine tra Andy e Contador, intenti a promuovere rispettivamente i terzi posti di Frank e Armstrong piuttosto che a fare gara vera. Oggi invece sì che la gara è stata vissuta e viscerale, anche se la “v” di “vera” si fatica a imporla alla tastiera, per quel che si è visto in corsa, e per i motivi che tra qualche riga andremo a delucidare.

Per lo meno, si è consumata la vendetta del Monte Calvo verso i due galletti che lo schernirono solo quattro anni fa: l’uno costretto allo sbando fin dai primi chilometri, ovvero quell’Andy Schleck che vediamo salire a zig zag prima che la motocamera malinconicamente lo sorpassi (ma è possibile un declino simile in un atleta che pure dovrebbe essere dotato di classe innata, e che poche settimane addietro aveva mostrato segni di una ritrovata competitività?); l’altro, Alberto Contador, oggi probabilmente tra i più forti del lotto, ancora una volta come già tante altre in carriera, ma comunque stroncato nel proprio orgoglio – e nel risultato di corsa – dall’impossibilità di lottare a un livello di parità sia pure vaga con il dominatore attuale.

La fuga del mattino ha poca storia, se non per le gigionerie di Sagan che si fa riprendere in impennata e per il velleitario tentativo di Chavanel di regalare al 14 luglio un vincitore francese, stante che il promettente Pinot, più tagliato per il traguardo odierno, è già disperso, e che la seconda giovinezza di Peraud non lo innalza ancora a questi allori.

Tirano alla grande Movistar e Sky, coerentemente con quello che sarà il protagonismo sull’ascesa finale, essenzialmente diviso tra due atleti, Nairo Quintana e Chris Froome. Il primo dei due esprime un barbaglio di ciclismo comunque piacevole per la capacità di uscire dagli schemi pedanti dei guru odierni: parte ben lontano dall’arrivo, con la prospettiva di affrontare in solitaria o quasi circa quaranta minuti di sforzo, non abiurando il lungo rapporto che su certe salite non cessa di avere un senso fisiologico. Lodi che vanno assegnate in parte anche a Mikel Nieve, che parte anche prima di Quintana e poi con lui condividerà, essenzialmente a ruota, una discreta parte dell’ascesa. Un ruolo che si vedrà ribaltato quando il basco dell’Euskaltel sarà raggiunto da Contador, a cui farà da valletto per gli ultimi km, i più esposti al vento, proteggendo il connazionale come già fecero i baschi nel tappone del Gardeccia al Giro 2011, frazione mostruosa poi conquistata proprio da Nieve.

Vale la pena di sottolineare questi due attacchi perché rappresentano, al negativo, la grande e principale colpa – per omissione – di tutti gli altri avversari di Froome e del Team Sky: la tappa di oggi sembrava fatta a misura per il “metodo Sky”, precalcolare al metro azioni, potenze, turni e tempi, in modo da esaltare la meccanicità delle strategie e l’incanalamento della gara su binari prestabiliti.
Specialmente le squadre con due uomini in classifica, leggasi Saxo e Belkin, avrebbero potuto impostare una diversa tattica, piuttosto che incolonnarsi dietro al trenino Sky, quindi estinguersi poco a poco, poi – una volta fatte a pezzi – ricompattarsi al fine di un triste e misero contenimento danni. Non che facendo altro la vittoria fosse a portata, stante la superiorità fisica di Froome, ma almeno ci si sarebbe provato.

Non per niente, dietro agli avventurieri coraggiosi Nieve e Quintana, assisitiamo al solito trenino, con l’inseguitore su pista Kennaugh prima… a inseguire i fuggitivi per rampe impervie, e poi con Porte dedito ancora una volta a spremersi per scremare il gruppetto fino all’estremo (restano lui, Froome, Contador e Kreuziger, poi molla il ceco, poi attaccherà Froome), salvo poi ritrovare le necessarie energie per accompagnarsi con gli uomini da top ten in generale. Almeno non arriva secondo, anche se i su e giù di forma del tasmaniano sono ormai da mal di testa.
Gran merito alla Sky, comunque, per aver impostato le proprie manovre militari su misura del vero avversario di questo Tour, Contador, mutandole dunque parzialmente rispetto a quel che si vide l’anno passato. Infatti adesso si va a lavorare in controtendenza rispetto alle “esigenze” del madrileno, che in generale privilegia ritmi non altissimi fino alla propria sparata, non brevissima, ma estesa spesso sui 4-5km, non oltre. Ora invece a Contador sono stati imposti dei fuorigiri ai -6 o -7 chilometri dalla meta, abbandonandolo poi a gestirsi tra i marosi di un affanno fisico e psicologico. In questo senso, grandi complimenti alla lettura degli Sky, che hanno fatto contro l’avversario proprio quello che gli avversari troppo raramente applicano a loro, ovvero una tattica aggressiva e mirata.

Ecco quindi che quando Porte finisce di sfinire tutti quanti i contendenti meno uno, Froome si esibisce in un gesto che resterà senz’altro negli annali: un’accelerazione brutale tutta esclusivamente da seduto, epperò totalmente scomposto come è di solito chi danza sui pedali e non chi si acquatta in sella; con una agilità folle e frenetica, a cui Contador non può replicare nemmeno con una sparata al 110% in piedi sui pedali. L’azione di Cancellara sul Kaapelmuur contro Boonen, che a tanti sospetti diede adito pur nella sua bellezza, si vede sorpassata e staccata da questa vera e propria stregoneria di Froome.

Si mescolano le carte, Froome raggiunge Quintana che, di nuovo bravissimo, regge agli attacchi del kenyota senza collaborare più di tanto, con astuzia e senza sudditanza, ancora una volta quasi memore per istinto di un ciclismo antico e autentico, lontano dai favori ai re e dalle complicità pelose che ci siamo sorbiti per almeno un settennio recente e che abbiamo in parte rivisto proprio l’altroieri. Inevitabile, purtroppo, che alla fine vinca il più forte, quello che è partito dove diceva il manuale o l’ammiraglia, e che in piano o in salita ne ha sempre d’avanzo. Quintana però si prende la maglia bianca e un secondo posto che per certi versi vale più del primo.
Dietro Contador è in fuorigiri, cerca di seguire Froome, arranca, riprende Nieve, e poi si attacca alla sua scia finché può, cioè fino a quell’ultimo km dove, emergendo da un plotoncino di inseguitori, lo ripigliano e passano Joaquim Rodriguez e, per aiutarlo, il compagno Kreuziger. Poco dietro Mollema che vede ridursi, ma di pochissimo, il proprio margine per il secondo posto in generale.

Ma quel che c’è là dietro è una notte in cui tutte le vacche sono nere, una classifica cortissima dove c’è chi si stacca precocemente e poi rientra a tutta come Daniel Martin, chi stenta, si aggancia, risbanda come Valverde, chi tira per il compagno e poi non crolla come Ten Dam per Mollema, il quale a sua volta boccheggia come un pesce tutta la salita per poi chiudere in volata.

C’è poco, poco da dire e forse poco da fare in questo Tour: Contador che certo è ridimensionato, ma probabilmente molto meno di quanto non dicano le classifiche, se si pensa che è, con Quintana, l’unico a cercare di tenere a tiro il super “underdog” Froome. Anche oggi se Alberto avesse fatto la propria gara, avrebbe ripreso e consolidato quel primato tra gli umani che comunque non è impensabile (e dunque benissimo arrischiarlo per sfidare il rivale, benché questi sia così superiore da spedire ogni volta Contador all’inferno).
E poi, il solo e unico tema da discutere quando si parli di vittoria: Chris Froome e il suo ciclismo discutibile.

Come si può discutere chi vince e stravince su tutti i terreni? Il motivo è semplicissimo: ancora oggi lo si è visto in mondovisione, Froome passa il suo tempo consultando il maledetto ciclocomputer con le informazioni sulla potenza erogata, perfino quando scatta (e forse anche per questo non lo fa in piedi sui pedali; oppure, quando si alza, come prova a fare un paio di volte contro Quintana, non ottiene grandi risultati). Sarà solo un tic? Probabilmente no, ma anche così fosse, che tic rivelatore!
Quando qualche spettatore occasionale sproloquia sulla “mancanza di tecnica” del ciclismo che renderebbe questo sport tanto propenso al doping (tutto ciò nell’insensata vulgata di chi segue superficialmente lo sport in genere), ci si trova spesso a ricordare la grande abilità comunque tecnica che è richiesta dal percepire correttamente le sensazioni del proprio corpo, interpretarle al meglio, focalizzare e coordinare sforzo, respirazione, postura per ottenere il “massimo”, o qualcosa di più, e non il troppo.
Ebbene, tutto ciò viene pesantemente ridimensionato da un abuso sistematico del misuratore di potenza come quello a cui assistiamo ormai ogni giorno, tappe di trasferimento incluse. Se l’introduzione negli sport motoristici di servomeccanismi per controllare la trazione, evitare lo slittamento, dosare la frenata ha suscitato tanti dubbi e polemiche, qui ci troveremmo davanti al corrispettivo di un pilota automatico.
Il ciclismo sarebbe ridotto alla propria parodia, ovvero a un allenamento maniacale che assommato a una certa predisposizione genetica conduce un atleta a erogare determinati valori di potenza sotto date condizioni. Dopodiché si tratta solo di utilizzare i propri nove atleti in maniera che il finalizzatore eroghi i suoi watt quando deve, con la certezza che gli avversari non potranno superarlo (come candidamente confessò Wiggins l’anno scorso a proposito degli attacchi di Nibali).
Aggiungiamo a tutto ciò l’esiziale dipendenza dalla radiolina a cui Froome si è attaccato per gli ultimi km del Monte Ventoso come se bevesse dal seno materno… almeno si fosse goduto il paesaggio, se proprio non aveva altro da fare!
Questi fattori di dipendenza da una direzione esterna all’atleta sviliscono il ciclismo, tanto più quando il margine fisico di superiorità sembra essere tanto.
A proposito di margine di superiorità, un capitolo a parte lo meriterebbe la questione estetico-fisica: non parliamo solo di gradevolezza del gesto, ma della sua funzionalità. C’è da domandarsi quali valori di “motore” esistano nell’intimo di Froome, nel suo sistema cardiorespiratorio o nelle sue fibre muscolari, se essi, pur estrinsecati attraverso uno chassis sghembo e prono a mille dispersioni, risultano comunque tanto superiori a quelli di chiunque altro, in terreni di ogni tipo.
Non si tratta di avviarsi a futili sospetti, ma di comprendere, anche a vantaggio dell’evoluzione tecnica del ciclismo tutto: dinamiche dall’efficacia magari imprevista o inattesa, intraviste nell’originalità di un unico individuo, possono se capite essere utilmente diffuse e sistematizzate. La pazzesca agilità di Armstrong, anche ora che ha trovato “altre” spiegazioni, ha lasciato, magari parzialmente moderata per essere adeguata a fisiologie “meno modificate”, un’importante eredità tecnica. Capire Froome potrebbe essere fonte di sorprese tecniche, o almeno alleviare il senso di disagio di fronte a una pedalata che è difficile da rendere fruttuosa per tutti gli altri atleti, ancor più difficile da apprezzare per il palato degli spettatori .

Gabriele Bugada

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