BJERG METTE LE ALI A BELMONT-DE-LA-LOIRE. TAPPA E MAGLIA PER IL DANESE
Mikkel Bjerg (UAE Team Emirates) sorprende tutti nell’attesa cronometro individuale della quarta tappa e vince davanti al favorito Jonas Vingegaard (Team Jumbo Visma). Adesso arrivano le montagne che decideranno le sorti della breve corsa francese
Dopo le prime tre tappe abbastanza scialbe, tutte terminate con una volata di gruppo più o meno compatto, il Criterium del Delfinato entra nel vivo con la cronometro individuale da Cours a Belmont-de-la-Loire. Lunga 31 km, questa prova contro il tempo ha un percorso abbastanza impegnativo che si può suddividere in tre parti: una salita iniziale di circa 3 km, 16 km centrali prevalentemente in leggera discesa e 12 km conclusivi in leggera salita. I ciclisti dovranno dosare bene le proprie energie in uno sforzo che si avvicinerà ai 40 minuti. Oggi inizierà la battaglia vera e propria tra i big di classifica per emergere dalla massa e puntare alla maglia gialla. Tutti gli occhi erano puntati su Jonas Vingegaard (Team Jumbo Visma) ma a prendersi le luci della ribalta è stato un altro danese, Mikkel Bjerg (UAE Team Emirates). Partito in sordina e soltanto ottavo al primo intertempo, 20 secondi dietro un ottimo Vingegaard, Bjerg aumentava decisamente il ritmo nella parte centrale della cronometro, facendo segnare al secondo intertempo lo stesso tempo di Remi Cavagna (Team Soudal Quick Step). Il danese manteneva un ritmo impressionante anche nella terza ed ultima parte e chiudeva con il tempo di 37 minuti e 28 secondi, mentre Vingegaard che nel frattempo aveva perso qualcosa si piazzava in seconda posizione a 12 secondi di ritardo. Terzo era Cavagna con il tempo di 37 minuti e 55 secondi, a 27 secondi di ritardo da Bjerg. Chiudevano la top five Fred Wright (Team Bahrain Victorious) in quarta posizione e Ben O’Connor in quinta posizione, rispettivamente a 34 e 41 secondi di ritardo da Bjerg, che ottiene la prima vittoria stagionale e con questo exploit si candida ad essere uomo di classifica al prossimo Tour de France in caso venisse meno il capitano designato Tadej Pogacar, nell’attesa di capire quale sarà il ruolo dell’altra punta Adam Yates. Sarà interessante vedere come Bjerg si comporterà nelle prossime tappe in salita, visto che adesso è proprio lui la nuova maglia gialla con 12 secondi di vantaggio su Vingegaard e 34 secondi di vantaggio su Wright. Domani è in programma la quinta tappa da Cormoranche-sur-Saône a Salins-les-Bains di 191 km. La prima metà del percorso è completamente pianeggiante e sarà la seconda parte quella più spettacolare con tre gmp concentrati nel giro di 80 km. Si inizia con Côte de Château-Chalon (4.4 km al 4.1%), si prosegue con la Côte d’Ivory (2.2 al 5.7%) e si finisce con la Côte de Thèsy (3.7 km all’8.2 %). Proprio su quest’ultima, avendo le pendenze più arcigne con picchi che sfiorano l’11%, potrebbe essere il teatro del primo vero scontro tra i big di classifica. Dallo scollinamento dell’ultimo gpm mancheranno 14 km all’arrivo, per la maggior parte in discesa, quindi la vera selezione si farà necessariamente prima.
Antonio Scarfone

Mikkel Bjerg vince la cronometro di Belmont-de-la-Loire (foto: Getty Images)
LAPORTE CONCEDE IL BIS A LE COTEAU E RAFFORZA IL PRIMATO IN CLASSIFICA GENERALE
Il ciclista francese della Jumbo Visma si impone in una volata combattutissima davanti a Sam Bennett (Team BORA Hansgrohe) e Dylan Groenewegen (Team Jayco AlUla), successivamente entrambi declassati per sprint non corretto, e mantiene con autorevolezza la maglia gialla, aumentando il vantaggio sugli avversari diretti. Domani l’attesa cronometro da da Cours a Belmont-de-la-Loire che dirà molto in ottica classifica generale
La terza tappa del Criterium del Delfinato parte da Monistrol-sur-Loire e termina a Le Coteau e, altimetria alla mano, sembra l’unica in grado di garantire l’arrivo in volata di un gruppo compatto. Le volate delle due prime tappe hanno visto la vittoria di Christophe Laporte (Team Jumbo Visma) e Julian Alaphilippe (Team Soudal Quick Step), ciclisti con un ottimo spunto veloce ma non propriamente velocisti puri. Vedremo se oggi Sam Bennett (Team BORA Hansgrohe) e Dylan Groenewegen (Team Jayco AlUla), due tra i più forti velocisti presenti al Delfinato, riusciranno a sprintare per la vittoria, visto che il finale non sembra eccessivamente duro. La fuga di giornata partiva dopo pochi km dal via grazie all’azione di Mathieu Burgaudeau (Team TotalEnergies) e Lorenzo Milesi (Team DSM). Al km 10 la coppia di testa aveva già 3 minuti e mezzo di vantaggio sul gruppo maglia gialla. Dopo circa 30 km Milesi si fermava ed attendeva il gruppo inseguitore, lasciando in avanscoperta il solo Burgaudeau. Il francese scollinava sulla Côte de Bellevue-la-Montagne, posta al km 40.9, con oltre 3 minuti di vantaggio sul gruppo maglia gialla. Il gruppo maglia gialla accelerava e riprendeva Burgaudeau intorno al km 80. Poco più avanti il gruppo incontrava sulla sua strada la protesta di un gruppo di lavoratori ed era costretto a fermarsi salvo poi ripartire attraversando una leggera deviazione. Laporte si aggiudicava il traguardo volante di Sainte-Foy-Saint-Sulpice posto al km 139.5. A 50 km dall’arrivo una caduta nel gruppo coinvolgeva una decina di ciclisti tra cui Alaphilippe, Mauri Vansevenant (Team Soudal Quick Step), Mikel Landa (Team Bahrain Victorious), Matteo Jorgenson (Team Movistar), Lenny Martinez (Team Groupama FDJ) e Daniel Martinez (Team INEOS Grenadiers). Tutti i ciclisti coinvolti rientravano successivamente, insieme alla seconda parte del gruppo che si era spezzato a causa della caduta stessa. Qualche problema lo accusava però Alaphilippe, che doveva fermarsi una prima volta a bordo strada a causa di una foratura. Dylan van Barle era il primo a scollinare sul secondo ed ultimo gpm della Côte de Pinay posto al km 175.6. Ormai si attendeva soltanto la volata finale con le squadre dei velocisti – in particolar modo Team BORA Hansgrohe e Team Jayco AlUla – pronte a lanciare i propri capitani. Alaphilippe intanto a 7 km dalla conclusione si fermava nuovamente a causa di un’altra foratura ma rientrava nel giro di un paio di km ben scortato dalla propria ammiraglia. Nella volata conclusiva Sam Bennett veniva lanciato alla perfezione dai propri compagni di squadra ma proprio sulla linea del traguardo lo scatto di reni consentiva a Christophe Laporte di mettere la sua ruota davanti a quella dell’irlandese, che aveva anche provato a fare il furbo cambiando traiettoria. In terza posizione si piazzava Groenewegen, anche lui piuttosto ‘zigzagante’ in volata, mentre chiudevano la top five Matteo Trentin (UAE Team Emirates) in quarta posizione e Milan Menten (Team Lotto Dstny) in quinta posizione. Proprio Bennett e Groenewegen venivano successivamente declassati dai giudici dopo aver visionato le immagini della volata. Laporte resta in maglia gialla e allunga sugli immediati inseguitori, visto che grazie agli abbuoni complessivamente raccolti può vantare adesso un vantaggio di 11 secondi su Alaphilippe e di 17 secondi su Richard Carapaz (Team EF Education EasyPost). Domani è in programma la quarta tappa, l’attesa prova a cronometro di 31 km da Cours a Belmont-de-la-Loire. Si parte subito con tre km in salita verso il Col de la Croix, dopodichè una strada complessivamente in leggera discesa porterà agli intertempi di Mars e di Saint Denis de Cabanne. Gli ultimi 10 km salgono leggermente ma in modo progressivo, quindi i ciclisti dovranno dosare bene gli sforzi anche perché i migliori resteranno in sella quasi 40 minuti e la classifica generale inizierà ad assumere una fisionomia precisa in vista delle salite della seconda parte della corsa francese.
Antonio Scarfone

Christophe Laporte vince a Le Coteau (foto: Getty Images Sport)
ALAPHILIPPE VINCE A LA CHAISE-DIEU. LAPORTE RESTA IN GIALLO
Nella volata in salita de La Chaise-Dieu Julian Alaphilippe (Team Soudal Quick Step) torna a vincere dopo quasi quattro mesi ed avverte gli avversari che al prossimo Tour de France potrà recitare un ruolo da protagonista dopo i problemi fisici con cui ha dovuto confrontarsi negli ultimi tempi. Christophe Laporte (Team Jumbo Visma) conserva la maglia gialla
La seconda tappa del Giro del Delfinato parte da Brassac-les-Mines e arriva a La Chaise-Dieu dopo poco più di 167 km. Dopo un centinaio di km, caratterizzati dai due semplici gpm del Col de Toutée e del Col des Fourches, si entra nel circuito finale da ripetere due volte e nel quale la difficoltà maggiore sarà la doppia scalata della Côte des Guêtes, breve ma abbastanza ripida. Christophe Laporte parte da Brassac-les-Mines in maglia gialla e dovrebbe riuscire a conservarla anche oggi a meno di imprevisti, in attesa di tappe ben più impegnative dove usciranno fuori i big di classifica. Erano tre i non partenti Antwan Tolhoek (Team Trek Segafredo), Ethan Hayter (Team INEOS Grenadiers) ed Hugo Page (Team Intermarchè Circus Wanty). I primi km dopo la partenza erano molto concitati, sia per i numerosi tentativi di fuga sia per una caduta che coinvolgeva tra gli altri Carlos Rodriguez (Team INEOS Grenadiers), Steven Kruijswijk (Team Jumbo Visma) e Louis Meintjes (Team Intermarchè Circus Wanty). L’olandese della Jumbo Visma era costretto al ritiro ed insieme a lui condividevano lo stesso destino Steff Cras (Team TotalEnergies) e Romain Combaud (Team DSM). Dopo una ventina di km si formava la fuga di giornata di cui facevano parte sei ciclisti: Nans Peters (Team AG2R Citroen), Andrea Piccolo (Team EF Education EasyPost), Kenny Elissonde (Team Trek Segafredo), Jonas Gregaard (Uno X Pro Cycling Team), Victor Campenaerts (Team Lotto Dstny), Pierre Latour (Team Total Energies) e Donovan Grondin (Team Arkéa Samsic). Grondin scollinava in prima posizione sul Col de Toutée posto al km 46.7. Il francese si ripeteva sul successivo gpm del Col des Fourches posto al km 53.8. Le squadre più attive all’inseguimento della fuga erano il Team Jumbo Visma ed il Team Lotto Soudal. Grondis si rialzava e veniva ripreso dal gruppo a 70 km dall’arrivo. Nans Peters si aggiudicava il primo traguardo volante de La Chaise-Dieu posto al km 97.1. Latour scollinava in prima posizione al primo passaggio sulla Côte des Guêtes, quando ormai il vantaggio dei fuggitivi sul gruppo maglia gialla si aggirava sui 40 secondi. Anche Pierre Latour si staccava dal gruppetto di testa quando mancavano 40 km alla conclusione. Il gruppo infine rientrava sulla testa della corsa quando mancavano 11 km al termine. Gli ultimi ad arrendersi al ritorno del gruppo erano Elissonde e Campenaerts. Era Tomas Bayer (Team Alpecin Deceuninck) il primo a scollinare sul secondo passaggio del gpm della Côte des Guêtes posto al km 157.6. Sotto la spinta della Jumbo Visma, in particolar modo con Attila Valter e Tiesj Benoot, il gruppo principale giungeva ad 1 km dalla conclusione forte di una sessantina di unità. La volata, in leggera salita, era vinta da Julian Alaphilippe (Team Lotto Soudal) che aveva la meglio su Richard Carapaz (Team EF Education EasyPost) e Natnael Tesfatsion (Team Trek Segafredo). Chiudevano la top five Christophe Laporte in quarta posizione e Maxim van Gils (Team Lotto Dstny) in quinta posizione. Alaphilippe coglie la seconda vittoria stagionale, la prima di tappa, dopo quella dello scorso febbraio nella Faun Ardeche Classic. In classifica generale Laporte resta in maglia gialla davanti con lo stesso tempo di Alaphilippe mentre Carapaz è terzo a 4 secondi di ritardo. Domani è in programma la terza tappa da Monistrol-sur-Loire a Le Coteau di oltre 194 km. La Côte de Bellevue-la-montagne, dopo 41 km, potrebbe fare da trampolino di lancio per la fuga di giornata, anche se il finale è favorevole al recupero delle squadre dei velocisti. Unica insidia altimetrica è il secondo gpm della Côte de Pinay, la cui vetta si trova a 19 km dalla conclusione. Se la fuga verrà nuovamente ripresa, a contendersi la vittoria di tappa sarà ancora una volta un gruppo di una sessantina di ciclisti.
Antonio Scarfone

Julian Alaphilippe vince a La Chaise-Dieu (foto: Getty Images)
BRUSSELS CYCLING CLASSIC, LA SPUNTA DEMARE
Arnaud Demare vince al photofinish la classica belga su Andresen e Meeus
Clima piacevole quest’oggi in Belgio in occasione della classica di un giorno intorno alla capitale. La fuga da lontano è composta da un manipolo di quattro unità fra cui Ludovic Robeet (Bingoal-WB), Jens Reynders (Israel-PremierTech), Paul Lapeira (Ag2r Citroen) e Jonas Abrahmansen (Uno-X). Vantaggio massimo intorno ai 4 minuti sfiorato all’altezza del Geraardsbergen: il gruppo dimostra fin da subito che oggi non c’è spazio per capitani di ventura alla ricerca di gloria personale tanto è vero che sul cote di Bosberg il plotone si spezza a causa del ritmo sostenuto, e a farne le spese attardato nel secondo troncone è un pezzo grosso di oggi come Tim Merlier (Soudal-QuickStep).
Il vantaggio dei battistrada è ridotto ormai nell’ordine dei secondi grazie anche all’occasione ghiotta per le squadre dei migliori di tagliare fuori dalla contesa una discreta parte del gruppo e di pesci grossi, come il capitano della Soudal-QuickStep prima menzionato e ancora attardato.
È in occasione del nuovo passaggio sul Bosberg che il gruppo principale chiude definitivamente il gap con i 4 al comando, grazie principalmente allo sforzo di Intermarché-Circus-Wanty e Groupama-FDJ. Nulla da fare invece per Merlier: nonostante il secondo plotoncino si sia presentato ai piedi della cote con appena 10″ sul primo gruppo alle spalle della testa della corsa, le pendenze arcigne hanno definitivamente respinto al mittente i tentativi di rincorsa: entrati nei 30 chilometri finali il divario è allargato a nuovamente 35 secondi.
Giunti in vista del traguardo a provarci è una delle migliori sorprese di questo inizio di 2023, Derek Gee (Israel-Premier Tech), che costringe i Groupama a stare all’erta e piazzarsi in testa al gruppo per chiudere. Tentativo che riesce, ma a costo di spezzare il treno per Arnaud Demare: parte così la volata del Team DSM per Tobias Andresen che si lancia verso la bandiera a scacchi in prima posizione.
Il danese non ha fatto i conti però con la grande rimonta del capitano della Groupama, il quale con il colpo di reni finale riesce a tagliare il traguardo davanti a tutti e festeggiare la recentissima nascita del figlio. Completa il podio Jordi Meeus della Bora – Hansgrohe.
Lorenzo Alessandri

Arnaud Demare esulta mimando il ciuccio per la nascita del figlio. Photo Credit: Getty Images
BONBON SUR LAC PER LAPORTE, IL TRANSALPINO VINCE LA PRIMA TAPPA DEL DELFINATO
Christophe Laporte (Jumbo – Visma) conquista la prima tappa del Giro del Delfinato grazie ad una progressione che negli ultimissimi metri gli consente di andare a riprendere Rune Herregodts terzo al traguardo, in fuga dalla prima ora, il transalpino respinge il tentativo di sorpasso di Matteo Trenitin (UAE Team Emirates) che deve accontentarsi della seconda posizione. Tra gli uomini di classifica perdono preziosi secondi Enric Mas (Movistar) e Mikel Landa (Bahrain-Victorious).
Piove sulla prima tappa del Giro del Delfinato 2023 in un profilo altimetrico mosso intorno a Chambon sur Lac con i suoi 158 Km, nonostante ciò è subito fuga con un drappello di cinque uomini che va a compattarsi formato da: Rune Herregodts (Intermarché-Circu-Wanty), Fabio Van Den Bossche (Alpecin-Deceuninck), Donovan Grodin (Arkéa-Samsic), Brent van Moer (Lotto-Dstny) e Dorian Gondon (Ag2r Citroen). Il vantaggio del quintetto supera subito il minuto quando dietro due squadre in particolar modo si mettono a tirare sono la Bora-Hansgrohe e la Jumbo-Visma. Il primi due GPM di giornata sono vinti da Grondin, con il gruppo che al chilometro 40 di corsa ha un ritardo di ben 2’. Il successivo traguardo volante invece è conquistato da Godon, la fuga riesce a mettere in cascina altri 30” ma la situazione di corsa si stabilizza quando in testa al gruppo inseguitore si mette anche il Team Jayco – AlUla. La corsa inizia ad accendersi nel circuito finale caratterizzato dalla salita verso La Côte du Rocher de L’Aigle dove già al primo passaggio il gruppo inizia a sfoltirsi, a farne le spese sono i velocisti puri tra cui Sam Bennett (Bora-Hansgrohe) e Dylan Groenewegen (Team Jayco – AlUla). Davanti la fuga inizia a perdere uomini durante il secondo passaggio i primi a staccarsi sono Grondin e Van Den Bossche, dietro la Jumbo – Visma fa la voce grossa, i “calabroni” prendono in mano le operazioni per ricucire ed alzano ulteriormente il ritmo, resta circa 1’ ai tre rimasti al comando. Prima dello scollinamento cede anche Van Moer , in testa i più forti sono Herregodts e Godon che però alza bandiera bianca proprio in vista del GPM. In discesa Herregodts mantiene una buona andatura, restano da percorrere 12 Km, alla fine della discesa il fiammingo conserva 15” con poco meno di 3 Km da percorrere. Al triangolo rosso dell’ultimo chilometro sono ancora 10 i secondi di vantaggio, sembra quasi fatta ma ciò che resta del gruppo dei migliori è tirato addirittura da Jonas Vingegaard (Jumbo – Visma) che si mette quindi a lavorare per Christophe Laporte, con l’aiuto di un compagno di squadra del genere è quasi impossibile non raggiungere l’obiettivo ed infatti Laporte supera negli ultimissimi metri dalla linea di arrivo Herregodts lanciandisi in una volta fantastica senza dare la possibilità a Matteo Trentin (UAE Team Emirates) di uscire dalla sua ruota, per Herregodts amara terza posizione. Tra gli uomini di classifica risultano attardati sia Enric Mas (Movistar) di 15” sia Mikel Landa (Bahrain Victorious) di 22”. La classifica generale invece vede Christophe Laporte indosare la prima maglia gialla seguito da Matteo Trentin a 4” e Rune Herregodts a 6”. Domani seconda tappa da Brassac-les-Mines a La Chaise-Dieu con un finale in costante ascesa.
Antonio Scarfone

Christophe Laporte agguanta la vittoria nel finale di tappa al Giro del Delfinato Image credit: Getty Images)
L’APPENNINO E’ DI MARC HIRSCHI
Marc Hirschi UAE Team Emirates fa suo il Giro dell’Appennino 2023, lo svizzero ha la meglio in uno sprint a due su Cristian Rodriguez (Arkéa-Samsic), terzo Henok Mulubrhan (Green Project – Bardiani CSF – Faizanè) che va a regolare il gruppetto degli immediati inseguitori.
Subito dopo il via va subito in porto la fuga di giornata composta da: Ansaloni (Technipes), Pablo Castrillo (Kern Pharma), Javier Serrano (Eolo-Kometa) e tre uomini della Nice Métropol Cote d’Azur, Damien Girard, Andréa Mifsud e Maxime Urruty. Il sestetto al comando riesce ad avere subito un vantaggio di 3’. Dietro in testa al gruppo si mettono a tirare le due squadre più forti al via ovvero la UAE Team Emirates e la Intermarché-Circus-Wanty. , Dopo il Passo della Castagnola e il Passo dei Giovi affrontati ad andatura regolare la salita della Crocetta d’Orero fa sì che l’accordo in testa si rompe, a lanciare il guanto di sfida è Castrillo, che stacca tutti gli altri compagni di fuga e scollina con un vantaggio di 35” su Ansaloni, Mifsud e Serrano. Anche il gruppo decide di accelerare ai piedi della penultima salita di giornata, quella di Pietralavizzara, portandosì così a 1’25” dal battistrada, inglobando via via tutti gli altri fuggitivi della prima ora. In salita sono sempre gli uomini di UAE e Intermarché a lavorare, facendo scendere ulteriormente il vantaggio di Castrillo e selezionando di molto il gruppo che ha assorbito, intanto, i cinque uomini che erano in fuga. Castrillo passa al GPM con 18” secondi di vantaggio, ma viene raggiunto definitivamente in discesa. Sono 20 i corridori che compongono ciò che resta del gruppo principale e restano da percorrere 40 Km, c’è da affrontare l’ultima salita di giornata quella della Madonna della Guardia. Qui è subito Cristián Rodríguez (Team Arkéa – Samsic) a scattare e portarsi dietro un drappello di uomini con dentro nomi interessanti come Louis Meintjes (Intermarché – Circus – Wanty) e Francesco Busatto (Intermarché – Circus – Wanty), Georg Zimmermann (Intermarché – Circus – Wanty), Lilian Calmejane (Intermarché – Circus – Wanty), Lorenzo Rota (Intermarché – Circus – Wanty), Marc Hirschi (UAE Team Emirates). Lo spagnolo resta solo al comando della corsa, da dietro prova a raggiungerlo inizialmente Lorenzo Rota con Gesbert e Hirschi ma l’azione degli inseguitori non dà i frutti sperati tanto che il corridore iberico riesce ad aumentare il vantaggio che sfiora i 30”. Dietro Rodriguez i primi a scollinare sono Hirschi e Gesbert che hanno da recuperare 35” al GPM. In discesa Hirschi stacca Gesbert lo svizzero è bravissimo a pennellare ogni curva tanta da guadagnare anche sulla testa della corsa che riprende a 5 km dall’arrivo. La coppia al comando ha 1’:15” di vantaggio e pregustano entrambi la vittoria finale perchè da dietro nessuno può rientrare. Nel rettilineo dopo le classiche fasi di studio Rodriguez parte lunghissimo ma Hirschi lo marca stretto per passarlo a doppia velocità, bella vittoria dello svizzero costruita soprattutto in discesa. ll gruppetto degli inseguitori viene regolato da Henok Mulubrhan (Green Project – Bardiani CSF – Faizanè) su Francesco Busatto (Intermarché-Circus-Wanty), al primo importante risultato tra i professionisti.
Antonio Scarfone

Il podio del Giro dell'Appennino 2023 (Image credit: Studio Mev Genova)
CARAPAZ MERCAN IN FIERA. VITTORIA DELL’ECUADORIANO NELLA CORSA ALPINA
Richard Carapaz (Team EF Education EasyPost) vince la terza edizione del Mercan’Tour Classic Alpes-Maritimes grazie ad un attacco deciso a sette km dall’arrivo, nel tratto più duro della salita verso l’arrivo di Valberg
Per essere soltanto la terza edizione, il Mercan’Tour Classic Alpes-Maritimes può contare già due vincitori di un certo spessore come Guillaume Martin nel 2021 e Jakob Fuglsang nel 2022. Entrambi sono presenti anche alla partenza dell’edizione 2023, essendo i rispettivi capitani del Team Israel Premier Tech e del Team Cofidis. Il percorso è sostanzialmente invariato rispetto a quello dello scorso anno, visto che ci sono soltanto 2 km in più da percorrere. Si parte da Puget-Théniers e si arriva a Valberg dopo 169.2 km. Pur essendo corsa di un giorno, l’altimetria non può che far pensare a un vero e proprio tappone alpino, con tre colli da scalare tutti superiori ai 1500 metri. Dopo un’ottantina di km tra pianura e falsopiano, inizia la prima scalata verso Saint Martin-La Colmiane, 7.6 km al 6.9%. Dopo la discesa verso Saint Sauveur sur Tinée, si ricomincia a salire verso il colle hors categorie de la Couillole, 16 km al 7.3%. Al km 139.5 si transita per la prima volta sotto la linea del traguardo, ricomincia la discesa, si arriva nel fondovalle a Guillaumes e si risale l’ultima volata verso Valberg, una salita altrettanto dura di 12 km al 7.3%. Inutile dire che a primeggiare su queste salite e su queste pendenze non potranno essere che scalatori con una buona gamba. Dopo pochi km dalla partenza dal gruppo evadeva immediatamente la fuga di giornata. Erano otto i ciclisti che la componevano: Gleb Brussenskiy (Team Astana Qazaqstan), Xavier Canellas ed Alejandro Ropero (Team Electro Hiper Europa), Pascal Eenkhoorn (Team Lotto Dstny), Fabien Grellier (Team TotalEnergies), Mathis Le Berre (Team Arkéa Samsic), Jordi Lopez (Team Kern Pharma), Rasmus Søjberg Pedersen (Team CIC U Nantes Atlantique). All’inizio della salita verso Saint Martin-La Colmiane il vantaggio della fuga sul gruppo inseguitore era di 5 minuti e 40 secondi. Le squadre più attive all’inseguimento della fuga erano per adesso l’AG2R Citroen, la Cofidis, l’Israel Premier Tech e la Groupama FDJ. Ropero era il primo ciclista della fuga che si rialzava. Dopo di lui anche Brussenskiy metteva il piede a terra. Sia lo spagnolo che il kazako si ritiravano dalla corsa, mentre Canellas era il primo a scollinare dul gpm di Saint Martin-La Colmiane. La fuga scoppiava completamente sul successivo gpm del Col de la Couillole, quando Lopez restava da solo in testa alla corsa, dopo che gli ultimi a staccarsi erano stati Le Berre e Canellas. Lo spagnolo scollinava con circa 3 minuti di vantaggio sul gruppo principale, a sua volta ridottosi a circa 40 unità sotto il forcing dell’EF Education EasyPost che riponeva le sue speranze su Richard Carapaz. Il peggioramento delle condizioni meteo, con pioggia e grandine a circa 30 km dalla conclusione, indurivano ancora di più la corsa. Contemporaneamente Lopez concludeva la sua azione venendo ripreso dal gruppo prima dell’ultimo gpm verso l’arrivo di Valberg. Era sempre l’EF Education EasyPost a condurre le operazioni ed il gruppo si sfilacciava lungo l’ultima salita. A 7 km dalla conclusione Carapaz attaccava. Anche se il suo vantaggio sui diretti inseguitori non lievitava eccessivamente, l’ex campione olimpico riusciva a mantenere la testa fino al traguardo, che tagliava con 12 secondi di vantaggio su Felix Gall (Team AG2R Citroen). A 38 secondi di ritardo si piazzava Lennert van Eetvelt (Team Lotto Dstny), che vinceva la ‘volata’ per la terza posizione davanti a Lenny Martinez (Team Groupama FDJ) e Cristian Rodriguez (Team Arkéa Samsic). Da segnalare il crollo di Fuglsang, che non riusciva a ripetere la prestazione che gli permise di vincere nel 2022 e che tagliava il traguardo soltanto in diciannovesima posizione ad oltre 5 minuti e mezzo di ritardo da Carapaz, alla sua seconda vittoria stagionale ed alla prima sul suolo europeo, dopo essersi imposto a febbraio nei Campionati Nazionali su Strada.
Antonio Scarfone

Richard Carapaz vince il Mercan Tour
CAVE CAVEN: TRIONFO A ROMA, MA C’È ARIA DI CIRCO.
Finisce un Giro mesto con un altro colpo a effetto. Ma un paio di alzate d’ingegno da campioni, non si sa quanto studiate, non tengono in piedi tre settimane di stasi.
Tante volate, forse troppe volate, a questo Giro 2023, come già dissero alcuni in sede di presentazione del percorso, e alla fine con sei protagonisti diversi. Sostanzialmente, si scherzava alla vigilia, han vinto pressoché tutti i velocisti puri presentatisi al via: a Roma sarebbe dunque dovuto toccare a Cavendish o a Gaviria, ma quest’ultimo si affaccia al finale sempre più in vesti di finisseur, e quindi di fatto finisce spesso per lanciare lo sprint di qualche rivale. In questo caso un Cavendish imperiale non ne avrebbe avuto comunque bisogno perché c’è l’antico collega di Team Sky e di velodromi, Geraint Thomas, a fargli da apripista, benché oggi corrano in squadre diverse. Probabilmente già si erano ripromessi di proporre la scenetta quando ancora il gallese coltivava sogni rosa, solo l’altroieri, ricreando così il finale del peraltro osceno Tour de France 2012 al cui termine Bradley Wiggins in maglia gialla lanciò la volata vincente di Cav sui Campi Elisi. Suona tutto un po’ troppo bene, da sceneggiatura di una serie TV, magari redatta da un’intelligenza artificiale, e infatti il sospetto è che ci sia lo zampino di una complicità collettiva nel metter su un regalone d’addio per Cavendish giunto all’ultimo giro di pista della sua carriera agonistica, e giustamente commosso in più occasioni durante questo Giro, annunciando il ritiro prima e poi da vincente. Per una volta, non ce ne scandalizziamo (troppo). In fin dei conti stiamo parlando probabilmente del più forte velocista puro della storia dello sport, e dunque di una figura eccezionale che merita un addio eccezionale, anche se questa sottocategoria di iperspecializzati è un po’ troppo striminzita – perché ovviamente il buon Cav svanirebbe al cospetto dei veri imperatori, Rik I e II, tanto per fare un esempio. La grazia del tutto sta ovviamente nel dubbio: i ciclisti a volte sono bravi nel regalare (o vendere!) con sprezzatura sufficiente a non far crollare del tutto il senso, o il sentimento, di un’effettiva competizione, a maggior ragione perché in questo caso sul rettillineo d’arrivo concorre anche una maxicaduta colossale da peplum che comunque scompagina le carte. Ricordiamo anche che, ragionando statisticamente un po’ a braccio, sei vittorie di sei diversi protagonisti presuppongono un livello tecnico-atletico non eccelso degli stessi, soggetti a rotazione in una sostanziale parità di forze, chi per limiti tecnici a strozzarne il potenziale fisico strabordante come Milan, chi per imperscrutabili assurdità di squadra come Dainese. Nell’ambito di questo panorama ci sta anche che Cavendish si porti a casa la tappa – e un record!, quello, non a caso, di più anziano vincitore in una frazione della Corsa Rosa, battendo peraltro Tiralongo a cui pure la tappa era stata servita per riconoscenza da Contador.
Esaurita la riflessione sulla giornata odierna in cui tutto ha un retrogusto teatrale, che sia l’allungo di Gee o qualche sferzata della INEOS, va riportato lo sguardo su quanto ci lasciamo indietro, con una chiave di lettura che proprio la volata ci ha fornito. Volata finale che si sarebbe voluta clone o analogia o anagogia di quella di Parigi 2012, e corsa a tappe intera che si pretende riproposizione del Tour 2020, con la redenzione in questo caso di Roglic stavolta riscattatosi per pochi secondi in una durissima cronoscalata, come invece nel 2020 Pogacar strappò a lui in una prova simile un Tour de France che pareva già in saccoccia. Ebbene, nonostante chi disegnava il Giro abbia conseguito l’esito voluto a tavolino, c’è da interrogarsi profondamente sul senso di questo “successo” che è semmai un fallimento a tutto tondo. Anzitutto, il Tour è il Tour: lapalissiano, ma non bisogna scordarlo. La corsa più importante al mondo sempre e comunque, bella o brutta che sia, dunque si può permettere strafalcioni e obbrobri che al Giro costerebbero, o costano, molto più cari. Il pasticcio del Ventoux 2016 con il tempo regalato inspiegabilmente a Froome, alla faccia dei precedenti (o alla faccia di Nibali quando patì una situazione simile sull’Alpe 2018); la farsa della partenza in griglia stile formula 1… questa sorta di episodi a stento incidono sulla grandeur della corsa transalpina. Per il Giro, nel momento in cui si affaccia di nuovo sul palcoscenico internazionale con piena dignità come sta pian piano avvenendo dopo la parentesi dei primi Duemila, non esiste lo stesso grado di tolleranza, anche perché viceversa, sul piano interno, si va affievolendo l’amore per la Corsa Rosa che invece sembrava ancora, appunto, “infinito” fino a un decennio scarso fa. Ricordiamo in questa edizione il sindaco di Vinovo negare il passaggio, e obbligare a un cambio di tracciato dell’ultimo secondo, seppur poco influente, in quanto “Vinovo non può restare paralizzata [cioè impedita nell’uso dell’automobile, NdR, per chi non lo avesse capito] per colpa di una corsa di biciclette”. Vinovo, non Milano, che pure fa pena. Invece che rendersi conto che Vinovo si dà una mossa precisamente se il Giro passa, e in quanto passa il Giro, come pure avevano ben capito i valdostani a cui invece il Giro ha negato il proprio transito per mere manfrine di cui già abbiamo conto. Insomma, viviamo un’epoca di transizioni e tensioni, un’epoca che esige pertanto il massimo slancio e la massima coerenza.
Ecco, un Giro che si traduce in uno sciopero bianco per l’80% del gruppo nella stragrande maggioranza delle tappe non è un Giro che susciti o rifletta chissà che slanci. Al Tour questa sorta di 0-0 tattico può reggere in virtù di ciò che si considera in gioco, e in virtù di un pubblico che venera la propria corsa sempre e comunque. Da notare che perfino al Tour, comunque, situazioni simili negli anni del Team Sky erano costate un’emorragia di spettatori. Ma per il Giro si tratta di un autentico suicidio. Purtroppo i dati televisivi sono lì a darne testimonianza. Dati da prendere con le pinze, perché si iscrivono comunque in un calo generale nei consumi del prodotto televisivo, per cui lo share, ad esempio, rimane piuttosto buono, anche al netto di novità nella msiurazione. I numeri assoluti però sono in picchiata, e risulta in special modo deludente il fatto che meno di due milioni di persone abbiano seguito l’emozionante cronoscalata che, per gli appassionati e fedelissimi, ha riscattato almeno in parte la gara di quest’anno. L’ultimo sabato, giornata invece di picchi in condizioni normali. Tuttavia è probabile che un certo sforzo gli spettatori, appassionati e non solo, l’avessero fatto il giorno prima, quando in giorno feriale due milioni e mezzo di persone avevano seguito l’indigeribile processione verso le Tre Cime. Dopo cotanta sofferenza (del pubblico non dei ciclisti), i più han deciso di dedicare ad altro il pomeriggio successivo, col risultato che la migliore ed unica autopromozione che questo Giro avrebbe potuto darsi… l’han vista relativamente in pochi. I superstiti. I già convertiti. Va detto che si è consolidato, in questo Giro, un nocciolo duro: a giudicare dai numeri, se è pur tristemente vero che i picchi sono sfumati completamente, in compenso si sono ridotte le differenze fra tappe di transizione – alcune guardatissime – e tappe decisive; fra l’ora finale di tappa, e tappa intera (con a volte oltre un milione e mezzo di persone a seguire ore e ore di svolgimento!, certamente ad accompagnamento di altre attività, ma comunque con apparecchio acceso e sintonizzato sul Giro); fra fine settimana e giorni feriale; fra prima e terza settimana. La sensazione è che il pubblico sia sempre più un pubblico da un lato in età da pensione, dall’altro lato comunque radicalmente appassionato. Un pubblico molto specifico, sempre più legato a una certa fascia d’età, da un lato, alla specificità dello sport ciclistico, dall’altro. Questo tipo di andamento, tuttavia, potrebbe senz’altro premiare le Classiche (e così sta accadendo in termini di audience), ma per quanto concerne il Giro rischia di essere una scommessa molto penalizzante, visto che la forza del Giro è da sempre il suo potenziale popolare, la capacità di trascendere il confine degli appassionati delle due ruote.
Anche perché, e qui chiudiamo il cerchio, questo pubblico ridotto ma vorace è anche un pubblico via via più esigente, che da un lato può magari consentire al Giro di reggere l’urto tremendo che rappresenta, di rimbalzo, il declino del movimento italiano (il pubblico popolare è spesso nazionalpopolare e vuole l’eroe locale, l’appassionato di ciclismo tout court è più cosmopolita nelle sue preferenza da tifoso), ma, dall’altro lato, non si accontenta di belle riprese di paeselli dall’elicottero. Peraltro assai benvenute. Vuole ciclismo.
Nel caso di questo Giro 2023 fin troppe volte si è avuta la sensazione di una collusione trasversale fra le squadre giganti dei big per inscenare un no contest in cui far razzolare i fugaioli di turno. Ma questo finisce per essere più circo che sport. E non il Circo Massimo, dato che oltretutto i ciclisti, non proprio a torto, si negano ad essere fino in fondo gladiatori. Più un circo di numeri musicali e acrobatici anche divertenti, a volte – molte poche volte, in questo caso! – ma in cui è proibito chiedersi se il gesto a cui si assiste sia perizia o messinscena concordata. Si tratta di una questione che va molto al di là di trite riflessioni su un doping effettivo o presunto: si tratta invece della conseguenze nefaste di una diseguaglianza non minimamente gestita dallo sport, le cui ricadute nei Grandi Giri sono specialmente distruttive.
In breve, poca competizione autentica, perché “chi puote” preferisce che a competere siano in pochi. Ma poca competizione equivale a poco ciclismo. Il dato emblematico di questo Giro è che – come mai o quasi mai a memoria di tifoso – non si è vista in nessuna tappa alcuna seria azione dalla media o lunga gittata volta a smuovere la classifica generale. Ciò che più vi si avvicinava è stato l’allungo in discesa di Caruso con un paio di compagni sotto gli acquazzoni dell’Appennino. Movimento di durata peraltro limitata e di effetto nullo. Al Tour, in quanto è il Tour, si sopravvive a un 50% buono di edizioni in cui i protagonisti non attaccano mai prima dei finali. Il Giro non era mai stato così, o quasi mai. In ogni Giro c’è almeno un tentativo di dare uno scossone alla generale provando prima della fine. Spesso anzi di tappe così ce ne sono diverse in una singola edizione… magari non addirittura quattro o cinque come nel 2015 o nel 2016, però un paio suole essere il minimo sindacale anche in Giri vissuti di tensioni più che di assalti alla sciabola come furono il 2017 o il 2020. Una, almeno una. Come la Torino del Giro 2022 già bollato come il più brutto del 21º secolo e probabilmente scalzato dal 2023 (se così non fosse, “salvato” in extremis, e proprio per modo di dire, da questa famosa cronoscalata, oltreché dai tanti bravi fugaioli, Healy, Dee, Pinot, Zana su tutti, senza scordare i Rubio, Buitrago, McNulty, Cort, e poi Bais, Denz, Paret-Peintre…). Il Giro 2020 era stato decisamente discutibile, poi il 2021 era parso di nuovo all’altezza, ma 2022 e 2023 rischiano di delineare una tendenza le cui cicatrici di medio periodo potrebbero essere irrecuperabili. E purtroppo non sembrano esistere soluzioni facili, visto che da molti punti di vista il lavoro di RCS, va detto, non è di mediocre qualità, tutt’altro (grandi inviti, buoni percorsi, anche se in peggioramento rispetto a 7-8 anni fa). Tuttavia fra “sfortune” più o meno incontrollabili e reazioni sistemiche, le cose stanno andando un po’ storte, e con un po’ troppa frequenza, come quei corridori (Roglic e Thomas, per dirne due) che cascano piuttosto spesso, certamente a volte per pura sfortuna o colpe altrui, ma… altre volte ce ne mettono del proprio; per far sì che la tendenza prenda corpo come tale, qualcosa di fondo c’è. Forse la parola chiave, nel caso del Giro, potrebbe essere “disaffezione”, nel sistema Paese da un lato, in un peloton che mitizza sempre meno l’Italia, dall’altro. È anche un serpente che si morde la coda: il che è un vero paradosso per una corsa che ha come slogan “amore infinito” e come trofeo una spirale che avvolgendosi apparentemente su se stessa, in realtà cresce e cresce. Il pubblico inteso come somma di persone e vite individuali è ancora a bordo strada, non ha smesso di seguire il Giro o aspettarlo. La struttura socio-economico-politica italiana e quella del ciclismo internazionale sembrano invece guardare dall’altra parte.
Gabriele Bugada

Cavendish vince ai Fori Imperiali l'ultima tappa del Giro (Getty Images)
UN’APOTEOSI IMPERIALE
Atto finale della Corsa Rosa sulle strade della capitale italiana. Dopo il “pasticciaccio brutto” del 2018 si è preferito proporre un circuito diverso da quello sul quale si concluse l’edizione vinta da Froome limitando al minimo i tratti da percorrere sui traballanti sampietrini. Epilogo sempre in Via dei Fori Imperiali, dopo un tuffo nella grande bellezza di Roma.
Sarà Roma a chiudere i battenti del Giro 2023 e lo farà cinque anni dopo la conclusione sulle strade della capitale dell’edizione vinta da Chris Froome, una pagina che si vuole dimenticare vista la magra figura fatta dall’amministrazione capitolina, con la giuria che si vide costretta a neutralizzare parecchi giri del circuito romano a causa delle buche presenti sulle strade. Per il ritorno del gran finale della Corsa Rosa a Roma si è corso ai ripari, disegnando un circuito che non si limiterà alla zona dei fori e ha limitato all’osso i tratti da percorrere sui “sampietrini”, com’è tradizionalmente chiamato il pavé nella capitale in ricordo dell’epoca dello Stato Pontificio, quando gli operai preposti alla manutenzione delle strade venivano così soprannominati per rimarcare il fatto che fossero dipendenti della Santa Sede. Così dei 13.6 Km dell’ultimo circuito, che complessivamente dovrà essere inanellato sei volte, soli 1500 metri si dovranno percorrere sulle “pietre”, spezzati in cinque breve bocconcini sparsi qua e là lungo il percorso, per il resto totalmente pianeggiante. In realtà ci sarà lo spazio per un’ultima salita perché a quasi 7 Km dal via, che avverrà nel quartiere dell’EUR con l’ultimo raduno di partenza fissato presso il Palazzo della Civiltà Italiana (il cosiddetto “Colosseo Quadrato”), si affronterà un’ascesa di 900 metri al 5.8% che si concluderà presso i cancelli della Tenuta di Castelporziano, dal 1872 di proprietà dello Stato Italiano, inizialmente acquistata per farne una riserva di caccia a uso di re Vittorio Emanuele II e utilizzata a tale scopo anche dai Presidenti della Repubblica dopo la fine della monarchia, attività venatoria cessata nel 1977: dal 1999 è una riserva naturale statale, nonché una delle tre residenze ufficiali del capo dello stato dopo il Quirinale e la napoletana Villa Rosebery. Una decina di chilometri più avanti i “girini” raggiungeranno il mare, ma avranno appena il tempo per respirarne la salsedine perché arrivati a Lido di Castel Fusano gireranno i tacchi per riprendere nella direzione opposta la strada appena percorsa e far ritorno all’EUR. Sfilato accanto al circolare Palazzo dello Sport progettato per le Olimpiadi del 1960, il gruppo attraverserà il Parco Centrale del Lago, sorto attorno al laghetto pensato – come il resto del quartiere – per l’Esposizione Universale che si doveva svolgere nel 1942 e che sarà definitivamente annullata a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Prima di lasciare l’EUR si giungerà quindi nel cuore del quartiere dove svetta dall’alto dei suoi 45 metri quello che fino al 2004 era l’obelisco più recente di Roma, eretto nel 1959 in ricordo di Guglielmo Marconi e il cui primato è stato battuto nove anni fa da quello realizzato da Arnaldo Pomodoro e collocato presso il Palazzo dello Sport.
Pedalando sulla Cristoforo Colombo in direzione del centro della capitale il gruppo andrà a lambire i confini della Garbatella, uno dei quartieri popolari più noti di Roma, realizzato a partire dal 18 febbraio del 1920, giorno della posa della prima pietra presso l’odierna Piazza Benedetto Prim, cerimonia presieduta personalmente dall’allora re Vittorio Emanuele III. Varcata la cinta delle Mura Aureliane attraverso Porta Ardeatina, la corsa farà quindi l’ingresso sul circuito quando mancheranno poco più di 3 Km al primo passaggio dal traguardo, come nel 2018 previsto in Via dei Fori Imperiali, strada tracciata in epoca fascista su progetto dell’ingegner Barnaba Gozzi per collegare in linea retta il Colosseo con Piazza Venezia, opera che fu compiuta demolendo il “quartiere Alessandrino”, realizzato alla fine del XVI secolo. Il circuito inizierà con il passaggio nella centralissima Piazza Venezia, dove il gruppo transiterà lasciando alle spalle l’Altare della Patria, cuore del monumento detto Vittoriano perché realizzato in onore del primo sovrano del Regno d’Italia Vittorio Emanuele II, per progettare il quale si racconta che l’architetto marchigiano Giuseppe Sacconi si sia ispirato alle scenografie naturali delle Dolomiti. Subito dopo si percorrerà proprio la strada intitolata al primo re d’Italia, sulla quale si affacciano le imponenti facciate delle chiese del Gesù, di Sant’Andrea della Valle e di Santa Maria in Vallicella, presso la quale si trova quella che da molti è stata definita come la più bella e monumentale sacrestia della capitale. All’altro capo del corso inizierà il primo dei tre tratti previsti lungo il Tevere, un chilometro e mezzo in direzione del quartiere Flaminio e la prima delle cinque porzioni di sampietrini, giusto 100 metri all’altezza del moderno “sarcofago” che dal 2006 cela al suo interno uno dei monumenti della Roma antica più celebri, l’Ara Pacis, altare che l’imperatore Augusto aveva fatto innalzare in onore della pace, un bene al quale si anela oggi così come nel remoto anno 9 avanti Cristo. Transitando sul Ponte Regina Margherita ci si porterà sulla sponda opposta del fiume, seguendola in direzione del Vaticano per un chilometro esatto, costeggiano il quartiere Prati fino ad arrivare al cospetto del monumentale Palazzaccio, la sede del Palazzo di Giustizia della capitale, preceduto dal passaggio davanti alla neogotica facciata del Chiesa del Sacro Cuore del Suffragio, soprannominata “il piccolo duomo di Milano” e presso la quale è possibile visitare il curioso Museo delle Anime del Purgatorio, nel quale sono esposti reperti tangibili dei contatti con l’aldilà. Il chilometro successivo vedrà il gruppo allontanarsi delle sponde del fiume per effettuare il periplo di Castel Sant’Angelo, in antichità mausoleo dell’imperatore Adriano successivamente trasformato in fortezza per dare ospitalità ai pontefici durante gli assedi. Il Vaticano è alle porte e la Basilica di San Pietro farà la sua comparsa agli occhi dei “girini” quando imboccheranno Via della Conciliazione, altra strada realizzata all’epoca del regime, anche in questo caso operando una serie di demolizioni che cancellarono il rione della Spina di Borgo. Ritrovato il pavé per 200 metri i corridori percorreranno solo il tratto iniziale del monumentale viale per poi svoltare nuovamente in direzione del Tevere e iniziare l’ultimo e più lungo dei tre tratti tracciati lungo le sponde del “biondo fiume”, quasi 2 Km percorrendo i quali si andrà a transitare tra l’Isola Tiberina e il Tempio Maggiore di Roma, sinagoga costruita all’inizio del XX secolo in stile orientale assiro-babilonese e cuore del quartiere del Ghetto. Salutato il Tevere si sfreccerà a due passi della Basilica di Santa Maria in Cosmedin, chiesa tra le più gettonate dai turisti per la presenza sotto il porticato d’accesso della celebre Bocca della Verità, toccatissimo mascherone che in epoca antica era lo sportello di un tombino destinato a raccogliere le acque del Tevere in occasione delle piene più disastrose. Subito dopo si percorrerà la strada che corre tra le prime pendici dell’Aventino e la cavea del Circo Massimo, luogo dove avvenne il mitico episodio del “ratto delle Sabine”, con il quale il fondatore della città Romolo intese fondere il popolo romano con quello sabino. Un’altra breve porzione sul lastricato, 100 metri appena, porterà il gruppo su strade ben note a molti corridori, quelle del circuito delle Terme di Caracalla, che dal 1946 ospita il 25 aprile di ogni anni il Gran Premio della Liberazione, una delle principali corse del calendario riservato ai dilettanti, gara che nell’albo d’oro vanta nomi come quelli dell’ex campione europeo Matteo Trentin e del vincitore del Giro del 1990 Gianni Bugno, mentre ad aprire le danze nella prima edizione fu proprio un corridore originario di Roma, Gustavo Guglielmetti. Girando attorno alle celebri terme – che perse da secoli la loro funzione oggi ospitano le rappresentazioni della stagione estiva del Teatro dell’Opera di Roma, mentre nel 1960 furono “prestate” allo sport per accogliere le gare di ginnastica dell’olimpiade – si ritornerà a pedalare in direzione del Circo Massimo per poi infilarsi in Via di San Gregorio, strada con 300 metri in sampietrini tracciata tra il Palatino e il colle sul quale troneggia la barocca chiesa di San Gregorio al Celio, realizzata accanto a un complesso di tre piccoli oratori, due dei quali risalenti al XII secolo. L’apparizione della mole del Colosseo sullo sfondo avrà quasi lo stesso “rumore” della campana che annuncia l’ultimo giro di circuito. L’epilogo è oramai prossimo, dopo l’ultima svolta s’imboccherà l’ultima e più lunga porzione “ballerina” (800 metri a cavallo dal passaggio del traguardo) per un finale davvero imperiale, che incoronerà l’imperatore del Giro 2023.
Mauro Facoltosi

Via dei Fori Imperiali e l’altimetria dell’ultima tappa del Giro 2023 (www.virgoletteblog.it)
CIAK SI GIRO
“Solo preti qui regneranno”. Così l’irriverente poeta romano interpretò la sigla SPQR che da sempre è l’emblema di Roma e che nella realtà era l’abbreviazione della frase latina “Senatvs PopvlvsQve Romanvs” che significava semplicemente “il Senato e il Popolo Romano”. Non aveva tutti i torti il Belli perché la Chiesa ebbe un ruolo predominante nella storia della capitale e anche per questo vogliamo concludere la nostra rassegna con un sacerdote e uno dei più celebri: Don Camillo. Vi starete chiedendo cosa possa c’entrare il sanguigno prete emiliano partorito dalla fantasia di Giovannino Guareschi e da sempre protagonista in quel di Brescello? Ebbene, Roma ebbe un ruolo anche in quei film perché la Cineriz, casa produttrice dei sei episodi della saga, aveva la sua principale sede a Roma e per tutte le scene da girare in interni si preferirono gli studi di Cinecittà, dove fu costruita appositamente la chiesa nella quale Don Camillo era parroco (solo gli esterni furono girati a Brescello) e che in uno degli episodi sarà invasa dalle acque straripate nel Po. Qua e là location romane e laziali fanno capolino e così ne “Il ritorno di Don Camillo”, girato anche in Abruzzo, si possono ammirare il romano Palazzo Capizucchi (nella finzione il collegio di Parma frequentato dal figlio di Peppone), scorci di Fiano Romano e Riano e lo scomparso Ponte Sfondato di Montopoli di Sabina, crollato otto anni dopo la fine delle riprese. In “Don Camillo monsignore ma non troppo” il sacerdote viene promosso e viene trasferito nella capitale, dove ha l’ufficio nel Palazzo del Commendatore, non distante dal Vaticano. Infine ne “Il compagno Don Camillo”, il penultimo della saga e l’ultimo interpretato da Fernandel, lo schiocco del ciac tornò a farsi sentire nel Lazio, dove il borgo viterbese di Monterosi prestò la propria chiesa per interpretare quella del villaggio russo di Brezwyscewski. Una delle ultime riprese con il celebre attore francese, che successivamente sarà sostituito da Gastone Moschin, vide Fernandel in azione in uno dei luoghi toccati dal percorso dell’ultima tappa, la spettacolare sacrestia di Santa Maria in Vallicella, che il sacerdote attraversa per recarsi in udienza dal vescovo di Reggio Emilia.

Don Camillo esce da Palazzo Capizucchi ne “Il ritorno di Don Camillo” (www.davinotti)

Il Palazzo del Governatore ufficio di Don Camillo in “Don Camillo monsignore ma non troppo” (www.davinotti)

Don Camillo si congeda dal personaggio che ha interpreto per 12 anni percorrendo la sacrestia della chiesa di Santa Maria in Vallicella nel finale de “Il compagno Don Camillo” (www.davinotti)
Qui trovate le location dei tre film citati
https://www.davinotti.com/forum/location-verificate/il-ritorno-di-don-camillo/50000172
https://www.davinotti.com/forum/location-verificate/don-camillo-monsignore-ma-non-troppo/50005417
https://www.davinotti.com/forum/location-verificate/il-compagno-don-camillo/50005418
FOTOGALLERY
EUR, Palazzo della Civiltà Italiana
Tenuta presidenziale di Castel Porziano
Il Palazzo dello Sport all’EUR
Parco Centrale dell’EUR
L’obelisco dedicato a Guglielmo Marconi
Piazza Damiano Sauli, cuore del quartiere della Garbatella
Porta Ardeatina
Vittoriano
Santa Maria in Vallicella
L’Ara Pacis e il primo tratto in sampietrini
Chiesa del Sacro Cuore del Suffragio
Castel Sant’Angelo visto dalla stessa prospettiva dei corridori
Il Tempo Maggiore di Roma visto dal lungotevere
Santa Maria in Cosmedin con la fila di turisti in attesa di vedere la Bocca della Verità
Terme di Caracalla
San Gregorio al Celio
Il Colosseo fa capolino dietro la strada che percorreranno i corridori
ROGLIC VINCE IL GIRO COME AVEVA PERSO IL TOUR
Nella terribile cronoscalata al Monte Lussari Primoz Roglic con una prova davvero straordinaria ribalta le sorti del Giro d’Italia, infliggendo un distacco di 40 secondi al rivale gallese Thomas e andansodi a prendere la maglia rosa alla vigilia della passerella romana. Neppure un incidente meccanico su un tratto estremamente ripido riesce a fermare lo sloveno, che vince anche la tappa.
Geraint Thomas (INEOS Grenadiers) era l’unico corridore tra i tre che saliranno sul podio domani a non aver avuto ancora una vera giornata di crisi, se non consideriamo la crono iniziale nella quale Remco Evenepoel (Soudal – Quick Step) aveva dato enormi distacchi a tutti.
Joao Almeida (UAE Team Emirates), come si poteva immaginare, ha patito sia sulla salita di Coi che sulle Tre Cime di Lavaredo le severe pendenze, Primoz Roglic (Jumbo-Visma) aveva sofferto un passaggio a vuoto sul Monte Bondone, riuscendo comunque a non naufragare grazie anche ad un ottimo Sepp Kuss.
Thomas ha avuto oggi la sua giornata di difficoltà che gli è costata la maglia rosa.
Una prova come quella di oggi, piuttosto breve e con una salita ripidissima, indubbiamente sorrideva più ad un corridore esplosivo come Roglic, piuttosto che ad un regolarista solido come Thomas.
Il gallese in effetti sembra aver patito le severe pendenze della salita verso il Monte Santo di Lussari, anche forse a causa del rapporto piuttosto duro che ha spinto. Ora il gallese indubbiamente non si trova a proprio agio a spingere i rapportini che sarebbero stati impensabili negli anni 90, ma su pendenze come quelle di oggi, che restano tali per molti chilometri, si rischia alla lunga di pagare.
In effetti Thomas ha accumulato la maggior parte del ritardo con il quale ha tagliato il traguardo nell’ultima parte della cronometro, visto che al secondo intermedio accusava solo una quindicina di secondi dei quaranta patiti all’arrivo.
Le scelte sono state diverse non solo nei rapporti scelti, che comunque riflettono le caratteristiche dei corridori, ma anche per esempio sulla questione casco che Thomas ha preferito cambiare al momento del cambio di bicicletta.
In quel passaggio Thomas ha impiegato circa 8 secondi in più rispetto a Roglic, ma ha iniziato la salita con soli 2 secondi di ritardo, segno che nel tratto pianeggiante Thomas è andato nel complesso un po’ meglio.
Il secondo episodio significativo è stata la posizione delle mani adottata da Roglic in un tratto in cui aveva già cambiato la bicicletta, salendo su quella da tradizionale dopo aver abbandonato quella speciale per le prove contro il tempo.
La posizione con gli avambracci sul manubrio senza le protesi da afferrare con le mani è stata vietata da qualche anno dai regolamenti UCI con una decisione che lascia abbastanza perplessi.
Ora il divieto riguarda le prove in linea e non quelle a cronometro, tuttavia appare abbastanza evidente che la ratio di questa decisione vada ricercata in ragione di maggior sicurezza.
E’ ovvio, quindi, che queste ragioni sono sussistenti ogniqualvolta si usi una bicicletta priva delle protesi che caratterizzano quelle usate nelle prove contro il tempo.
La colpa di questa situazione non è ovviamente di Roglic, che ha rispettato alla lettera la norma, bensì di chi quella norma l’ha scritta. Si tratta di una regola non solo insensata dal punto di vista del merito, ma anche di una norma scritta male.
Il terzo episodio da segnalare è l’incidente meccanico patito da Roglic, che è stato costretto a scendere dalla bicicletta e rimettere la catena perdendo almeno dieci secondi.
In quel momento il capitano del team Jumbo ha davvero corso il rischio di perdere il Giro, ma ormai la crisi per Thomas era arrivata, la pedalata era sempre più legnosa e il ritardo saliva vertiginosamente.
Negli ultimi 800 metri (ossia tra il terzo intertempo e il traguardo) Thomas ha perso 11 secondi, passando dai 29 di ritardo (che avrebbero lasciato il Giro contendibile con gli abbuoni) ai 40 definitivi, segno che il gallese non ne aveva davvero più.
Per il resto la cronometro ha confermato i valori emersi sinora e per esempio Almeida e Damiano Caruso (Bahrain – Victorious), terzo e quarto della classifica, sono arrivati terzo e quarto anche nell’ordine d’arrivo della tappa.
Dietro questi corridori ha terminato un ottimo Thibaut Pinot (Groupama – FDJ), che ha dato tutto per onorare la maglia azzurra di miglior scalatore, e successivamente si sono piazzati i migliori ultimi uomini dei primi tre della classifica Kuss, Brandon McNulty (UAE Team Emirates) e Thymen Aresman (INEOS Grenadiers), gregari di lusso che sono stati vicini ai capitani sino agli ultimissimi chilometri nelle tappe di montagna.
Ottima prova anche per Andreas Leknessund (Team DSM), che ha dimostrato, con un nono posto di tappa e un ottavo in generale, che la maglia rosa conquistata a Lago Laceno era pienamente meritata.
Per il resto, l’unica cosa che si può dire è che chi vince ha sempre ragione quindi, benché la condotta esasperatamente attendista di gara di Roglic sia criticabile e sia la stessa che gli aveva fatto perdere il Tour del 2020, ciascuno avrebbe da contrapporre a questa osservazione il dato oggettivo della vittoria. Però, se questo è vero, è anche vero che chi perde ha torto e non si può non notare che la sconfitta di Thomas è stata conseguenza di una tattica altrettanto attendista di Thomas che, ben sapendo che la prova odierna sorrideva più a Roglic che a lui, avrebbe dovuto cercare di attaccare per guadagnare secondi sul rivale, anche magari al termine della prima settimana sul Gran Sasso quando Roglic non sembrava al 100% (si parlava addirittura di covid) e sul Bondone, dove le pendenze erano certamente più adatte a Thomas.
Ora si potrebbe dire che con il senno di poi è facile parlare, tuttavia si è sempre detto che se non si prova a attaccare, neppure si capisce se un avversario sia o meno in crisi.
Tutti i big avrebbero dovuto provare i loro attacchi da più lontano per vedere se gli avversari riuscivano a rispondere, oppure se erano in crisi.
Questo porta alla riflessione oggettiva che il finale al cardiopalma indubbiamente emozionante vissuto oggi non può far dimenticare un Giro corso in maniera molto deludente dai protagonisti, nonostante offrisse un percorso ricco di occasioni per dare spettacolo.
Neppure l’ultima settimana ha modificato la situazione, con le tappe di montagna hanno visto i big muoversi solo negli ultimissimi chilometri. Nel tappone delle Tre Cime di Lavaredo hanno scollinato il Giau davvero in troppi e l’attacco dei big è partito solo a 1,6 km dalla conclusione.
In questi giorni sono tornte alla mente le parole, in questo senso profetiche, del compianto Marco Pantani. “Siamo ridotti a sprintare anche in salita”.
Proprio oggi su un quotidiano nazionale era riportata un’intervista ad un grande campione di quell’epoca, Miguel Indurain, che ha sottolineato come la tecnologia esasperata di questi anni e la mania dei corridori di portarsi dietro anche “il materasso” siano elementi che hanno fatto diventare il ciclismo meno romantico di quello spettacolare che i protagonisti di quegli anni ci offrivano.
Ora è vero che mancano i Pogacar ed i Vingegaard, ma l’Olano e il Tonkov del 96, il Gotti e il Tonkov del 97 e i protagonisti dei giri degli anni successivi non erano certo i campioni del Tour de France, ma davano spettacolo e se le davano di santa ragione sulle montagne. Il Gotti del 97 conquistò la rosa in una tappa di montagna della seconda settimana (Cervinia) come aveva fatto l’anno prima Tonkov (Pratonevoso), mentre in questa edizione nella seconda settimana i big sono arrivati al traguardo in un foltissimo gruppo di corridori sia a Crans Montana (ove pure c’era la durissima Croix de Coeur con discesa insidiosa), sia a Bergamo.
Non resta, quindi, che sperare che siano i nuovi giovani, che sembrano più inclini a dar battaglia da lontano, a riproporci un Giro che ci faccia rivivere le antiche emozioni.
Benedetto Ciccarone

Roglic punta a testa bassa verso la maglia rosa (Getty Images)