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IL CICLISTA CHE
NON C'ERA: OMBRE E NEBBIA DI
UNO SPORT NOIR

Nella tormentata vigilia olimpica un altro meteorite si abbatte sul ciclismo, sollevando un fitto pulviscolo di voci da parte di quanti evocano (o indirettamente auspicano) l’estinzione del nostro sport. La positività di Sella - pure! - ai cosiddetti CERA - ancora! - è un duro colpo, anche se un colpo ampiamente pronosticabile dagli addetti ai lavori. Ma a noi il ciclismo più che un dinosauro tramortito dal doping, o dall’antidoping, sembra piuttosto un’idra con tante teste che si azzuffano tra loro. E a finire ingoiati sono sempre i corridori, vittime quanto corresponsabili, o i tifosi, ingenui quanto complici. Di Gabriele Bugada.

.: nella foto Bettini, Emanuele Sella in azione al Giro d'Italia 2008

Sella positivo. Un ennesimo caso, cascato in coincidenza con i pasticci olimpici - seppur distinto dall’ambito di Pechino.
Anzi, sono le Olimpiadi che sembrano avere quest’anno adottato massivamente il "metodo ciclismo", l’impiego dell’antidoping per bersagliare federazioni e nazioni con la fredda veemenza balistica delle testate atomiche: i casi confusi degli atleti russi, cinesi, mediorientali, e finanche dei nostri Baldini e Bastianelli, sembrano avere un retrogusto spionistico da intrigo internazionale (o nazionale) piuttosto che lasciare intravedere l’auspicio di uno sport professionistico "pulito".

Intanto, il ciclismo continua come sempre per la sua strada, senz’altro in salita, poi si vedrà se verso un passo alpino, un fondo chiuso o una voragine.

Ma, insomma, che cosa è successo?
Come dice Sella con maggiore sincerità di quanta lui stesso possa supporre: "non so niente, non è vero niente". Questa è più meno la situazione in cui si trovi a versare qualsiasi appassionato di ciclismo in quest’epoca fumosa. Non si sa nulla, se non che la verità, qualunque verità, è più che mai un’utopia.

Sella è risultato positivo ad un controllo a sorpresa fuori dalle competizioni in data 23 luglio: il controllo è stato richiesto dall’UCI, che ha inviato il campione da analizzare ad un laboratorio "parigino", espressione che lascia presumere ("presumere", a questo ci dobbiamo limitare) che fosse quello di cui si è servita l’AFLD durante il Tour. Il controllo, dice McQuaid, fa parte di un programma di verifiche "mirate" su determinati corridori, al proposito dei quali sono giunte all’UCI voci preoccupanti ma non meglio identificate.
La parola chiave del nuovo antidoping è "target": insomma, sappiamo chi andare a scovare, e - come affermano concordi sacri testi e saggezza popolare - "chi cerca trova".

Alla luce di quanto è seguito, risulta abbastanza chiaro come mai Sella avesse cambiato programmi rinunciando all’ultimo minuto al Matteotti, ufficialmente per una tendinite. Prendono un altro colore anche le agende ondivaghe di Savoldelli o Di Luca, e chissà quanti devono essere i casi non assurti alla notorietà: troppo facile supporre che si sia diffuso il panico, il fuggi-fuggi dalle competizioni e quindi dai controlli, appena intuito che un doping disponibile da anni e ritenuto non rintracciabile fosse invece nel menù dei laboratori di verifica; "troppo facile" - appunto - in una certa misura ingiusto, frutto di un clima opprimente di sospetto diffuso, di minaccia costante: che sia ingiusto, che sia facile, comunque tutto ciò è ormai pressoché inevitabile. Ma per far giustizia nell’ingiustizia, c’è altro di ormai inevitabile: il porsi delle domande anche sul come, sul quando e sul perché l’antidoping strategico del terzo millennio decida di puntare i propri mirini tanto infallibili quanto focalizzati su bersagli ristretti.

Tutt’altro che chiaro risulta infatti il motivo per cui l’UCI abbia deciso di inviare i prelievi ad un laboratorio con cui si era trovata a polemizzare fino a cinque giorni prima. Non solo: la WADA (Agenzia mondiale antidoping), che dopo la non-così-buona uscita dell’ex presidente Dick Pound è rientrata nei ranghi UCI/CIO, la WADA dicevamo ha espresso tutte le proprie perplessità sul metodo francese per rilevare i CERA.
Ma sarà lo stesso laboratorio? Sarà la stessa procedura?
La federazione francese, cui afferisce l’AFLD, è stata espulsa dall’UCI, ricordiamolo: e adesso l’UCI commissiona le analisi al laboratorio della federazione che ha espulso?
Anche perché ci era stato raccontato che per rilevare i CERA il nuovo e unico metodo, approntato per l’occasione, richiedesse di concentrare i materiali risultanti da numerosi test. E quindi? Sella è stato particolarmente sfortunato, colto dal controllo a sorpresa appena appena fatta l’iniezione? Sembra difficile, se per Riccò, che ha dichiarato di essersi somministrato il farmaco soli tre giorni prima della partenza del Tour, ci vollero ben dieci esami. Nel caso di Sella possiamo immaginare ("immaginare", è l’unica cosa che possiamo fare) che il vicentino si sia praticato la fatidica iniezione prima della positività di Riccò e abbia quindi deciso di rinunciare al calendario previsto per non incorrere in controlli, che ormai si sapeva essere sensibili alla "sostanza fantasma". Quindi i giorni di anticipo dovevano essere diversi, almeno quattro.
E quindi?

Il caso di Sella conferma peraltro che una volta compiuto il "misfatto", ovvero assunto il prodotto, la positività dovrebbe comunque emergere: l’efficacia del prodotto, la sua attività nell’organismo, dura un mese; anche sapendo di essere "nel mirino", come Sella - a quel punto - probabilmente sapeva, non si può tornare indietro. Come è possibile allora che al Tour, dei venti nomi sventolati in partenza, ne siano emersi solo tre? Che le "voci", a quanto pare tanto fondamentali per "mirare" l’antidoping, sbagliassero? Che siano state nascoste delle positività? E, sempre abbondando con i punti di domanda, non è strano che le due formazioni collettivamente più forti al Tour, autrici di prestazioni sorprendenti, fossero sponsorizzate dagli stessi sponsor principali della corsa transalpina, CSC e Ag2R? Come è possibile fidarsi che un’autorità antidoping, per quanto terza, faccia imparzialmente il proprio lavoro, nel momento in cui - soprattutto! - questo lavoro non richieda semplicemente di "controllare", ma piuttosto di "puntare" dei bersagli? Se già è "fin troppo facile" far sparire una positività, quanto sarà facile, banalmente, in modo pulito, evitare di puntare quello specialissimo mirino in certe direzioni?

Francamente, non ha neppure senso inoltrarsi in ipotesi sempre più immaginifiche e mirabolanti.
Che le imprese di Riccò, ma ancor più di Sella, presentassero delle possibili "anomalie" era già balzato agli occhi degli osservatori più attenti, fermo restando almeno il sacrosanto beneficio del dubbio, se proprio non vogliamo arrivare alla più nobile presunzione di innocenza. Ad ogni modo chi segue fedelmente il ciclismo non sarà rimasto più di tanto sconvolto da queste "sorprese".
Restano però interrogativi ben più pressanti di qualche caso "isolato" di doping, sebbene l’onda emotiva riverberi artatamente attorno a questi ultimi.
Domande che lasceremo rigorosamente aperte, anche perché pronunciarsi a così poca distanza dagli eventi è divenuto un compito da indovini, in un mondo sportivo sempre più scopertamente simile a quello "sporco" e "reale" che lo circonda, in cui i misteri restano tali per decenni quando non per sempre.

La prima domanda riguarda la possibile estensione del fenomeno CERA nel ciclismo professionistico. Tutto lascia supporre che il prodotto sia subentrato a sostituire per diffusione e importanza l’ormai rilevabile EPO nei primi anni 2000: con la certezza dell’impunibilità, quanti atleti vi avranno fatto - vi staranno facendo - ricorso?
La seconda domanda, in un certo senso conseguente, è: quanta fiducia possiamo riporre nell’antidoping attuale? È adesso divenuto evidente che siano state diffuse sui media una trafila di menzogne, magari anche a fin di bene, sulle potenzialità e sulle tecniche di questo nuovo metodo di rilevazione. I risultati sono credibili, conducono effettivamente a riscontrare come positivo chi abbia assunto questo prodotto? La precondizione, necessaria finora, di aver deciso anticipatamente che l’atleta è "a rischio" non conduce in una discesa fin troppo scorrevole alla positività? E viceversa, non vengono create in questo modo delle zone di impunità, e - ancor più grave - impunità "consapevole", per chi è fuori dal mirino, o tale si ritiene?
Da qui la terza domanda: le dichiarazioni di Sella su Riccò, appena appena migliori ma per certi versi simili a quelle di Andy Schleck nella loro inutile gratuità, non sono il sintomo di un’ipocrisia radicata profondamente nei membri più giovani del gruppo, che lascia ben poco da sperare sul loro conto? Perché a quanto pare se ci si azzarda a mettere la faccia in queste faccende, pur sapendo di starci dentro fino al collo, e sapendo che chi ti ascolta sa che sai... se si arriva a tanto è perché si coltiva la fiducia nella propria "aderenza" al sistema. Atteggiamento di collusione e rassegnazione se possibile più fatale del doping stesso.
A proposito del "sistema", ecco la quarta domanda: Dueñas Nevado riuscirà nel suo ricorso? A quanto si sa, ci sono discrete possibilità che per le manchevolezze tecniche del metodo AFLD le controanalisi non siano possibili, il che equivarrebbe a negatività e assoluzione piena. Sarebbe paradossale che proprio il corridore al quale sono state fisicamente trovate in camera sostanze proibite guadagnasse in questo modo un’assoluzione (anche la perquisizione sarebbe a rischio, perché fu motivata dalla "positività"). Vorrebbe dire minare la credibilità dell’antidoping del Tour, ma vorrebbe anche dire che Riccò potrebbe aver confessato solo ed esclusivamente perché conscio che opponendosi alle istituzioni legate al Tour avrebbe avuto solo da perderci. Un’altra positività dopo poco, ad esempio, magari a uno stimolante qualunque, oppure l’esilio da tutte le manifestazioni che contano, che sono ormai vicinissime a veder applicato un modello di partecipazioni totalmente a invito, quindi arbitrario, quindi onnipotente sul fato di squadre e atleti. Non siamo più nel campo della morale, del dire la verità versus la bugia, bensì in quello della strategia, tribunalizia quando non quasi bellica.

La situazione è complicata all’inverosimile, tutto ciò che sembrava solido (dopo tutto, una positività è una positività: o no? Oppure, le imprese di un’atleta che a fine tappa risulta negativo, sono imprese DOC: o no?) si dissolve nell’aria.
In una simile condizione quello che il pubblico degli appassionati dovrebbe chiedere con la massima forza non è tanto l’onestà da parte degli atleti, che sono comunque l’ultimo tassello - anche solo in senso cronologico - di processi che li precedono e li scavalcano ampiamente: quello che va chiesto è la rettitudine assoluta e la trasparenza nell’apparato delle istituzioni, in primo luogo dei controlli. Non è possibile nemmeno INIZIARE a lottare contro il doping se non ci si pone in un atteggiamento di inappuntabile rigore, di equanimità assoluta, di fondatezza epistemologica, di sincerità nei confronti del pubblico (quest’ultima sostituibile per ragioni di inchiesta con il silenzio e il riserbo, non certo con roboanti menzogne a fini di marketing).

Ma la strada su cui il ciclismo indefesso pedala è un’altra, a quanto pare: le ripicche del Tour o dell’UCI contro il Giro e la federazione italiana (e viceversa), la pervicacia del CONI, purtroppo proprio del CONI, nel voler ridimensionare l’importanza della disciplina ciclistica sullo scenario nazionale, gli sponsor che spadroneggiano prima di ritirarsi inorriditi, i team manager che "tristi e delusi" licenziano i corridori nella certezza di salvare la barca buttando a mare il Giona di turno.
La strada continua a salire, e il passo non si vede.
Il Riccò o il Sella di turno in tutto questo sono solo due figurette che si staccano dal gruppo e vengono lasciate per strada. Su di loro, resta poco da dire: un profondo dispiacere umano per vicende che comunque rovinano ragazzi ben meno che trentenni. Oltre a questo: sappiamo di non sapere. Quello che han fatto di bello rimane e rimarrà intatto, quello che han fatto di incredibile, credibile non lo è mai stato. E purtroppo l’ "incredibile" non è certo sceso dalla bici col farne scendere loro due.

Gabriele Bugada

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