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GRANDE ESCLUSIVA
COME SI PRESENTAVA
IL PLAN DE CORONES QUESTA MATTINA

Federico Petroni ha percorso il Plan de Corones incontrando lungo il tragitto la maglia rosa in ricognizione e cercando di carpirne i segreti nel gran giorno della cronoscalata. La salita non spiana mai ed il tratto in sterrato rappresenterà una vera e propria agonia. Gambe messe a dura prova: chi ne avrà di più, vincerà. L’articolo e, in serata, la photogallery.

di  Federico PETRONI

Persino Nosferatu l’avrebbe definita crudele. Un timido raggio di sole penetra al terzo piano dell’Hotel Sonnenhof, San Vigilio di Marebbe. È l’ora della scalata, dei ramponi e della piccozza. Ancora il paese è immerso nella fervente attesa della cronometro del Plan de Corones, quando la fedele bicicletta da corsa si adagia timorosa sull’asfalto. Il cielo è velato, tempo di pane, marmellata e un succo di frutta e anche il sole gliel’ha data su. L’aria frizzante divarica i polmoni e arrossa le narici. Undici gradi a 1200m s.l.m. sono pochi per cominciare un’ascesa da mille metri di dislivello ma la voglia di sudore e fatica è tanta. Già a decine i rampichini affollano le prime rampe del Passo Furcia; solo pochi arditi quelle sterrate del Plan de Corones. Lasciata la partenza, l’Igloo di San Vigilio, già si vede di tutto: bikers, cicloamatori, cicloturisti, ciclosuonati (come me). Chi con la casa appresso, chi nudo a sfidare il gelo, chi imbatuffolato in tutto quello che è riuscito a raccattare (come me).

Una cosa, tutti hanno in comune. Il passo. Lento, pacato, saggio, quello di colui che sa a cosa va incontro. Dopo un approccio ingannatore, lieve discesa persino, una secca svolta a destra lascia la strada per la Pieve di Marebbe in vista del Passo Furcia, le rampe dove Damiano Cunego si involò verso la vittoria del Giro d’Italia. Dopo 3km melliflui, si apre uno scenario mitologico. Il Passo Furcia è il filo delle Norne, le divine tessitrici che leggevano il destino dell’uomo. Per circa 2km, duri come un macigno sul groppone, il ciclista può vedere il proprio destino. Persino i grilli smettono di frinire. Quattro tornanti, secchi come il Sahara e, dopo il paesino di Costamesana, altri 2km, costantemente sopra il 10%, a volte spinto fino al parossismo del 16%. La catena è già da un pezzo sul 39e30. Accartocciato sul manubrio, tengo stretta la speranza di giungere in cima, già con la schiena a pezzi e l’esistenziale domanda del ciclista a tempo perso: “Ma chi me l’ha fatto fare?” E, soprattutto: “Perché ho nelle gambe solo 500km da inizio anno?” Questione di scelte.

Il bosco si fa sempre più minaccioso o è la fatica a renderlo tale. Il cinguettio degli uccellini rapisce la mia attenzione o forse fa comodo distrarsi. Come Sigfrido nel bosco, prima di entrare nella tana del drago. In fondo al falsissimo-piano del Passo Furcia, 1738m, 7.6km coperti in 50’ (non faccio la media per rispetto a chi legge), la bocca del drago. Comincia lo sterrato. Ultimi 5.3km. Subito pedanti addetti ai lavori frenano gli impeti (moribondi i più) dei ciclisti e dei viandanti, sentenziano che “di qui, non si passa”. Rabbia e delusione fanno il paio con sollievo e riposo. Ma nessuno si arrende e, elusa la sorveglianza dei pigri controllori, un piccolo manipolo di ostinati, continua ad inerpicarsi.

È uno sterrato duro, battuto più volte, parecchio aguzzo ma decisamente scorrevole. Il problema è la pendenza. Appena si prende l’ascensore del Plan de Corones, un dolce 20% fa quello che gli addetti ai lavori non hanno fatto: decretare il non plus ultra. Chi si ferma è perduto. Neanche con il 30 si riesce a ripartire. Mi capotto. Da fermo, praticamente. Sporco di fango sul lato sinistro e inferocito con la montagna, mi avvio a piedi con la vergogna del ladro. Un tratto in falso(vero)piano, permette di rimontare in sella. Il problema ora è il fango. Meno male che ogni tornate, oltre agli alpini che incitano, è adornato della memoria di un grande campione: Girardengo, Gaul, Anquetil, Coppi e chi più ne ha più ne metta. Sarà molto problematico per i girini concentrarsi sulla potenza da imprimere nel tratto pedalabile nel bosco, non più dell’8%. Il fango fa mancare l’aderenza della ruota e alzarsi in piedi è problematico.

Immerso in queste elucubrazioni, mi affianca Contador, bardato come un nomade del deserto, per il freddo e per scalare in incognito. Più che affiancarmi, mi sfreccia sulla sinistra, a dire il vero. I miei 9km/h non permettono di più. La ricognizione è importante, per un ciclista, soprattutto per il madrileno, abituato a spingere da seduto agili rapporti. Passa anche un CSC ma la lucidità è al lumicino. Ed ecco che, poco meno di 3km all’arrivo, si apre il magnifico panorama e, grazie al cielo, la strada spiana. La neve si sta sciogliendo e il bordo del sentiero è solcato da gorgoglianti ruscelletti. Il terreno è molle dall’inverno e riarso dai gelidi freddi. Il panorama mozza, più della salita, il fiato. Si apre la Val Punteria, siamo al confine delle terre ladine. Si potrebbe mettere il 50, i corridori lo faranno, chi avrà lucidità potrà guadagnare molto, ma il muscolo chiede pietà e la catena solidarizza con lui: il 39 resiste tenacemente. Che strano effetto solcare con il destriero in alluminio le piste affrontare sin da bambino, stavolta in su.

Ultimo tornante, quello del 24%. Non avendo ripassato l’altimetria, mi affido ai consigli di Guillaume Prebois, il giornalista che corre il Giro in solitaria, e prendo lo slancio per affrontare quella che sembra essere l’ultima ostilità nei 1100m conclusivi. Niente di più sbagliato. Le gambe sono vuote e, passato il primo strappo, ce ne sarebbero altri tre. Il condizionale svela la mia defezione. Morto, annichilito e, sì, sconfitto, chiedo alla bicicletta comprensione e smonto di sella. A 500m dalla vetta, gli addetti ai lavori mi forniscono la scusa buona. Non si può passare, è tutto transennato. L’ultimo chilometro sale al 14% medio, con vistose spianate. L’impressione è che i corridori arriveranno qui tutti stravolti, non riusciranno a fare le differenze auspicate da tanti. Certo è che se qualcuno giungerà alla seggiovia Marchner obnubilato dalla salita, potrebbe pagare anche una trentina di secondi.

Fango, neve, nembi, vento gelido sono il premio per chi, questo supplizio di 12.8km, se lo sorbirà più velocemente. La fatica e il sudore sono il premio per il magnifico pubblico giunto fin quassù. Una fiumana, già alle dieci e venti del mattino. C’è chi indossa le orecchie d’asino di Bruseghin, chi già s’azzuffa per Di Luca e Riccò, chi semplicemente ha scalato la Montagna delle Corone per gustarsi l’evento. Il Giro d’Italia è un evento che, per qualche ora, giorno o settimana, ti cambia la vita, introduce un cuneo nelle esistenze di tutti noi e le mette in comune con migliaia di altre persone perfettamente sconosciute ma, per qualche ora, giorno o settimana, parte dello stesso sogno itinerante. Bisogna venire fin quassù, 2273m, per assaporare ancora ciclismo antico. O il ciclismo che resta sempre lo stesso.

Federico Petroni

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