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GRANDI PROTAGONISTI, MA PICCOLI COMPRIMARI: UN GIRO PER POCHI

Menchov e Di Luca fan sprizzare faville da un percorso disegnato con la pialla, e le rispettive squadre pur non brillando certo di luce propria offrono ai capitani un sostegno più che degno. Benissimo anche i team che si sono divisi il palco durante gli interludi concessi dal duello in grande stile, ma il fatto che solo cinque diciamo cinque delle ventidue squadre iscritte abbiano vinto ben diciannove tappe su ventuno pesa come una plumbea denuncia su molti dei passeggeri trascinati a Roma come vagoni da questo Giro. Iniziamo da un’analisi dettagliata dei – pochi – che han fatto bene. In calce, la seconda parte.

.nella foto Bettini, i duellanti Di Luca e Menchov

I DUELLANTI

Denis Menchov e Danilo Di Luca, protagonisti di una sfida che resterà nella memoria soprattutto per l’icasticità ripetuta fino all’ossessione dello scontro tra yin e yang, tra l’ombra fredda cui non si può sfuggire e la fiamma instancabilmente guizzante verso l’alto ma fatalmente incapace di librarsi libera dal focolare che la sprigiona. L’imperturbabilità contro l’argento vivo.
Entrambi gli atleti hanno giustamente dosato la forma in modo da essere al massimo nella prima metà di Giro, perché per corretti che possano essere stati i tatticismi è difficile credere che i due abbiano sempre lasciato fuggire senza reagire Sastre e Pellizotti per pura aritmetica, anche perché lo stesso Menchov – come ha dimostrato la caduta – non poteva certo considerarsi in una botte di ferro, e accrescere il proprio vantaggio su Di Luca nel finale di un arrivo in salita avrebbe potuto solo giovargli. Ciò detto, è naturale che Menchov si sia valso delle proprie doti di fondista per risultare comunque più brillante nel lungo periodo.
Davvero eccellenti entrambi nel mostrarsi determinati e inattaccabili, impermeabili al resto della classifica, che – dapprima ricca sia per numero che sontuosità (il gruppo ristretto ma non troppo che dominava Siusi e reggeva a Pinerolo) – si è sfaldata come una sfoglia proprio nel periodo in cui forse i due dominatori sarebbero stati più attaccabili. Ma è stato in primis l’atteggiamento dei due atleti di punta a escludere mentalmente gli altri, involuti nelle proprie ambasce o idiosincrasie.
Le rispettive squadre, pur non essendo delle corazzate ma dei buonissimi collettivi, hanno risposto con il cuore alle richieste dei capitani, la LPR con una prestazione fatta soprattutto di dedizione prolungata e insistita fino allo stremo, dando ogni goccia di sudore quasi in ogni tappa; la Rabobank soprattutto con una prestazione eccezionale, a orologeria, nella cruciale tappa del Monte Petrano, e più in generale senza esibire cedimenti.
Si è molto discusso sugli errori tattici di Di Luca e della sua squadra. In realtà il principale sbaglio imputato al team è legato alla tappa di Bologna, dove la squadra si è spremuta in un inseguimento lungo e difficilmente fruttuoso: francamente però l’obiezione che imputa di aver lasciato troppo spazio alla fuga nei primi chilometri è poco consistente, perché è impensabile che una sola squadra riesca a contenere la sequela di tentativi che animano gli avvii di tappa, quando tutti i fuggitivi sono freschi, motivati, e lanciati a tutta, specie se numerosi. È chiaro dunque che semmai la LPR avrebbe dovuto banalmente “rinunciare” alla tappa, ma questo atteggiamento contrasta con lo stile cui si è improntato il loro Giro, il provarci sempre e comunque, l’“essere lì” a vedere se capiti qualche imprevisto. D’altro canto le tappe successive hanno dimostrato ex post che quel dispendio non è stato poi tanto decisivo, proprio perché – come logica imponeva – il controllo di gara nelle tappe romagnole e marchigiana sarebbe ricaduto sulle spalle degli arancioni.
È proprio l’atteggiamento individuale di Danilo ad essere passibile di critiche, nel momento in cui da metà scalata al Petrano ha deciso di privilegiare la difesa del proprio secondo posto “collaborando” con Menchov. De facto questa critica è più fondata, anche se va tenuto presente che un Di Luca non esageratamente “extraterrestre” ha più da sperare per infliggere distacchi dagli abbuoni piuttosto che da tutte ipotetiche valanghe di secondi propinate sul campo: e questo è vero in special modo per una tappa come il Blockhaus dove la vittoria avrebbe avuto un sapore diverso. Infatti sul Vesuvio Di Luca ha corso come nella prima metà del Petrano, ovvero quasi fermandosi per vedere se Menchov avrebbe inseguito, ma la freddezza del russo ha avuto la meglio in questa sorta di tacito poker. Difficile perciò ipotizzare che uno stile di corsa diverso potesse giovare all’abruzzese, più facile invece che simili scelte “d’astuzia” finissero per nuocere sia alla sua classifica sia allo spettacolo, sia, in definitiva, alla memorabilità di questo confronto.

Una menzione d’onore ad Alessandro Petacchi, che ha perso il proprio personale duello con Cavendish per mettersi al servizio del proprio capitano, all’opposto di quanto abbiano fatto gli uomini di classifica in giallo spesso ridotti a motrici dell’un po’ triste trenino Columbia. Addirittura commovente lo spezzino nella tappa di Anagni! E quanto al duello perso, c’è da chiedersi se una tappa vinta in più per l’inglese non sia in fondo dequalificata da un ritiro d’interesse (ma da quando in qua ai velocisti fare per intero Giro e Tour creerebbe i medesimi problemi, anche quelli tutti da soppesare, che agli uomini di classifica?), a fronte di un Giro completato senza nemmeno l’ambizione della maglia ciclamino.

Citando Cavendish, troviamo lo spazio per rendere merito al suo Team Columbia, apparso davvero “anabolizzato” (sia detto metaforicamente) nel profondere dimostrazioni di forza fin dalla primissima tappa, e poi con le azioni talentuose dei propri giovani, certo Siutsou, ma sopra tutti ovviamente un Boasson Hagen che ha impressionato gli addetti ai lavori forse ancora di più del proprio esplosivo leader – del quale si può al più dire che ha imparato a fare le volate anche partendo in testa –. Grande guida, spregiudicatezza, forza resistente quanto esplosiva: forse troppa grazia, ma una sicura promesse la cui precoce vittoria al Nord pare proprio l’incipit di un lungo romanzo. Imperdonabile però, per una formazione del genere, perdere per strada la classifica generale: gettando al vento una maglia bianca “già vinta”, con un Lovkvist letteralmente finito allo sbando, non valorizzando con qualche azione originale un Rogers che già dopo la crono era chiaro non avrebbe potuto ambire a piazze di rilievo semplicemente “salendo del suo passo”. E dire che proprio Rogers era il giovincello dei primi dieci classificati! Incredibile per un trentenne? Controllare per credere, per correttezza statistica ci fermiamo ai dieci e non ai dodici che includerebbero Lance: l’età media è di 33 anni (beneaugurante…) con ben quattro atleti over 34, per i quali una vittoria sarebbe stata in aria di record di longevità.

GLI AMICI E I NEMICI

C’è in questo Giro chi ha corso alleato anche se con casacca diversa, e chi si è corso contro, anche con la stessa casacca. O, a fronte di maglie avversarie, comunque con un occhio di speciale ostilità.

Gli specialisti di quest’ultima categoria sono i Liquigas, che già l’anno scorso fecero le prove generali di quanto “bene” faccia al morale e alla classifica (nonché alla crescita di un giovane) giostrare due capitani senza chiarezza, col risultato che spesso costoro paiono lottare l’uno contro l’altro per affermare il primato interno piuttosto che sostenersi. Va detto che Ivan Basso è stato encomiabile, addirittura a Siusi partì davanti a Pellizotti consentendo potenzialmente al compagno di tenere la ruota, se ne avesse avuto, così come sul Blockhaus è rimasto sempre in scia a mangiarsi le mani e ricordare il passato; il gesto del Vesuvio, pur bello perché simbolico, sa un po’ più di operazione di marketing. Il delfino di Bibione ha invece sguazzato un po’ più nel torbido, con i suoi scatti vesuviani la più parte dei quali servì a riavvicinare i grandi a Basso più che a liberare se stesso. Le responsabilità gravi, ad ogni modo, non sono dei singoli atleti ma della direzione di squadra, che può solo rimproverarsi di aver concluso un altro Giro raccogliendo molto meno di quanto le premesse potessero far sperare: se un bilancio con un podio e una tappa sarebbe di lusso per una Diquigiovanni, per il principale team italiano sa di sconfitta e di “debito” con Basso rimandato a settembre… e Pellizotti a luglio (tanto per guastare l’estate a Nibali e Kreuziger).
La Liquigas comunque si è molto dedicata anche a correre contro Di Luca, e viceversa, sia chiaro: ma in questi casi ha torto chi non cava un ragno dal buco, specie in termini di “figura” fatta. A proposito, se è Pellizotti a ottenere i risultati, Basso si fa preferire per le azioni di Siusi e del Casale.

Hanno corso invece da grandi amici i Diquigiovanni e i Cervélo, le due squadre che assieme alle tre citate in apertura hanno fatto man bassa di tappe. Solo una a testa, per far totale, a Liquigas e Silence Lotto.
Se qualcuno avesse dei dubbi, basti pensare all’accoppiata emiliano-romagnola, quando dapprima la Diquigiovanni lavora a pieno vapore per il successo dell’evasione che vedeva il successo nelle mani di Gerrans. Addirittura inesplicabile la trenata di Bertogliati, che aveva speranza di tappa (arriverà secondo), all’inizio del San Luca: dirà “temevo che rientrasse il gruppo”; eggià, come avrebbe fatto allora a vincere Gerrans? Giustamente il giorno dopo il povero Pauwels verrà opportunamente stoppato sottraendolo a indebite tentazioni nei confronti di Bertagnolli. D’altro canto non sarà forse Simoni a tirare per Sastre in difficoltà sul Blockhaus?
Complimenti alle due formazioni, anche per l’intuizione che con avversari di caratura superiore affamati di volate prima, di abbuoni poi, sarebbe stata necessaria una santa alleanza tra chi non è Pro Tour, ma se lo meriterebbe, per razziare quanto del bottino fosse disponibile.
A ciò si aggiungono poi i meriti di Sastre, che regala un Giro corso da vero protagonista con due trionfi sui due arrivi in salita più belli, nonché con un bel tentativo all’inizio del Blockhaus, costatogli il podio perché i più forti partiranno in contropiede dopo averlo inghiottito. Peccato che la regia RAI l’abbia perso per strada, ma ci fidiamo del racconto dello spagnolo.
La Cervélo si fa preferire ampiamente anche per questo (oltre che per una tappa vinta in più, ma a quella si fa la tara con la maggior qualità di partenza del gruppo in nero), per aver saputo curare pure la classifica: e il terzo posto della Diquigiovanni in quella a squadre non consola ma aumenta i rimpianti, oltre che qualche dubbio.

PICCOLI COMPRIMARI, POCHI RISULTATI:“PAGELLE” PARTE SECONDA

Le sedici squadre che non abbiamo citato nella prima parte si dividono essenzialmente in tre categorie: quelle che hanno raccattato qualche risultato, più o meno lodevoli a seconda dei propri mezzi – anche se si parla di esiti davvero modesti –; quelle che si sono collocata nel cosiddetto “livello Billings”, compreso tra lo zero e il minimo sindacale; quelle, infine, che guardano insù verso lo zero come un traguardo desiderabile. Dividiamole per simpatia verso la fatica di tutti in categorie più tolleranti.

ANGELI CADUTI
La Lampre, tanto brutta che non può essere vera (o che può essere vera?), ci prova con i propri generosissimi gregari, nell’ultima settimana soprattutto Tiralongo, ma anche con Marzano, e pure con i giovani Bono e Gavazzi. Perfino con Cunego, vogliamo dire. E non c’è altro da aggiungere.
Bruseghin, che sembra spesso in clamoroso rientro sulla linea del traguardo (il che è positivo, se indica capacità di salire del proprio passo e non andare in crisi, meno positivo quando lascia pensare che con un po’ di cattiveria in più si sarebbe potuto fare meglio), arriva faticosamente nei dieci in un Giro che sembrava disegnato per lui. Gli anni passano.
Bilancio gravemente insufficiente soprattutto per una dirigenza che negli ultimi anni sembra andare a tentoni. E se pensiamo che sono l’altro team Pro Tour italiano… con la Liquigas, c’è di che meditare.

L’Astana con tanti buoni e bravi complimenti a un Armstrong in crescita ma mai trascendentale (anche tenendo presente tutto quel che c’è da tenere presente), un Armstrong la cui cosa migliore è stata la faccia svuotata dall’interno dalla fatica… l’Astana, ecco, vince anzi stravince la classifica a squadre. Per il resto, un’ecatombe. I gerontofili apprezzeranno il quasi 36enne Leipheimer che si barcamena con la propria tipica prestazione anonima, i palati raffinati noteranno con piacere qualche bel numero sporadico di Popovych, ma…? Come si fa a dimostrare una tale superiorità fisica media, e a non ottenere nulla di nulla, dal punto di vista prettamente sportivo almeno? L’inettitudine tattica dei DS Astana consola un po’ del panorama italiano, ci si chiede se la squadra più vincente nei GT degli ultimi anni possa combinare qualcosa quando proprio non ha, che so io, il corridore più forte e specializzato in assoluto in una determinata competizione. Prima era Lance, lo diventerà Contador? Comunque non lasciare traccia alcuna nel Giro del Centenario è il giusto guiderdone per costoro.

Con una squadra giovanissima nel giro dei vecchioni la Silence era destinata a non sbancare… A parte le ironie, a differenza di anni scorsi stavolta il team belga non pesca il jolly e svanisce dalla classifica, nonché, vista l’età dei propri “protagonisti”, dalla corsa tout court. Viene pagato lo scotto di una strategia graziosa ma non generosa. Un pezzo da novanta comunque in gara c’è, ed è Gilbert. Il Giro non presenta molte occasioni per il talentuoso vallone, perché uno come lui in fuga non è gradito. Tolte quindi le mete da fuga, gli resterebbero Valdobbiadene, Bergamo e Anagni: sfumate le prime due un altro sarebbe tornato a casa. E un altro è tornato a casa, infatti, il suo gemello Pozzato. Gilbert invece si sorbisce caldo e salite, e va a prendersi la sua tappa. Chapeau. Meriterebbero di essere inclusi comunque nella prossima categoria (“Briciole”), ma la storia del team ce li fa preferire qui, soprattutto includendo nella valutazione una prima parte di stagione che sarebbe un eufemismo definire fallimentare.

FATTORE X, OVVERO DESPERADOS
Xacobeo Galicia: piccola squadra spagnola, giustamente invitata per internazionalizzare il Giro senza adeguarsi alle logiche di un Pro Tour che sembra non funzionare proprio. Quindi anche (non “solo”, ma “anche”) team piccoli e quindi magari con motivazioni più forti, desiderosi di sfruttare il palcoscenico, di fare scintille provando il tutto per tutto; però compagini non italiane ma straniere per sfuggire alla logica protezionista che convoca un ISD (con rispetto parlando) prova di esperienza e spessore tecnico, ma con amici di amici che contano. Una scelta coraggiosa e che dovrebbe avere seguito, peccato che l’unico asso nella mano dei galiziani, quel Mosquera da podio in più Vuelte, si fratturi cadendo in casa, e che simile sorte capiti al suo sostituto, un Garcia Dapena apparso propositivo nel paio di tappe che ha potuto correre. Comunque ci dan dentro con le fughe grazie a Isaichev e Vorganov, con chance proporzionali alla qualità degli atleti. Non valutabili, soprattutto per la bontà del progetto che li ha chiamati, pur con tutti i rischi che ciò implicava, rischi poi espressisi nel modo più crudo.

BRICIOLE DI PANE (PIÙ O MENO SECCO)
L’Acqua & sapone si porta a casa la maglia verde con Garzelli, e vanta con il varesino buona classifica e tanta visibilità nonché la ingiustamente poco promossa classifica della combattività. Dare il meglio di sé alla vigilia dei 36 anni è un vero exploit, però senza porci troppe domande scomode preferiamo ricordare una curiosità: Garzelli passa solitario a conquistare il souvenir Desgrange sul Galibier nel Tour Centenario, e fa lo stesso con la (ben più insulsa, ahi ahi Zomegnan) Cima Coppi e del Giro, il Sestriere. Questo si chiama studiare storia! La squadra lotta senza successo per la bianca con l’esordiente Masciarelli junior. Niente male, ma poco è stato fatto per valorizzare gli sforzi di questi atleti con un lavoro collettivo, o per puntare a obiettivi collaterali con gli altri sette atleti. Comunque i migliori dei peggiori. O i peggiori dei migliori.

Maglia bianca con Seeldreyers, molto lontano però dai primi (non tutti si chiamano Riccò o Schleck, ma almeno a ridosso dei dieci piuttosto che stretto tra Popovych e Serpa…), primato del Fair play, primato nella classifica degli uomini più fuggitivi con Facci, anche secondo per i traguardi volanti, grinta e piazzamenti per Davis. Complimenti a questa giovane squadra uzbeka con wild card! Ah, no: è la Quickstep. Il più potente team al mondo. A-hem, hem, hemmm.

PULVISCOLO IMPALPABILE
Barloworld: un paio di secondi posti con Hunter (deludente) e Cardenas (tante fughe, in terza settimana: bravissimo), lo zigzag di Froome a San Luca, la bella azione di Soler a Siusi, ma francamente, appunto, è pulviscolo, una volta finito per terra l’uomo grosso, ovvero proprio il colombiano di 190 centimetri che gli creano qualche problemino nello stare in bici. Ancora per terra, ancora demoralizzato e in calando. Non sembra uno scappato di casa alla Rujano, ma deve ritrovare sicurezze.

Qui ci sono pure i francesi volenterosi. Due belle squadre Pro Tour come Ag2R e Bbox, che si impegnano molto e ottengono i loro bei risultati: entrare nei dieci con Valjavec, fare tante belle belle belle fughe con Bonnefond e Krivtsov; oppure guadagnarsi il titolo di squadra simpatia con un T-Blanc Voeckler che scoppietta in cima e in fondo al Giro, sbagliando a far la volata su un Gpm che Gpm non è, e poi facendosi staccare da Gilbert di cui pure era in scia… e poi la maglia nera (due corridori nella worst ten, c’è anche Haddou; come la Milram, d’altronde). Coooomplimenti.

Una squadra il cui principale successo è la classifica delle volate (nei traguardi volanti) e la cui caratteristica distintiva è fare fughe costruite come un trenino, da chi mai sarà instradata se non da Mario Cipollini? L’ISD si fa vedere e anima il Giro grazie al demenziale siparietto con uno Sgarbozza mai così ubriaco. Amenità come la follia di Grabovsky presso Anagni o le gag di Gatto non fanno che insaporire il piatto. Bene Grivko, malissimo Visconti sempre più fragile e distratto: o forse ci appare tale, ma è concentratissimo sui “T.V.”. Squadretta certo, giovane e senza pretese, almeno si fa vedere (grazie anche a maglie orripilanti). Ma siamo appunto su un livello da Processo alla Tappa e dintorni.

VUOTO COSMICO
Team Katusha, Team Saxo bank, Fuji-Servetto, Garmin-Slipstream, Team Milram, Caisse d’Epargne. Squadre Pro Tour. Non c’erano a questo Giro. Sembra una banalità dire così, il solito “chi le ha viste”, ma vorrei che fosse chiara una cosa: queste squadre sono al fondo della speciale (non) classifica di questa pagina fatta di polvere, buchi, battute a vuoto. Queste squadre hanno appena ridefinito il concetto centenario di comparsata al foglio firma, e sono squadre ricche e potenti, l’“elite” del ciclismo mondiale perché pagano stipendi sostanziosi a fior di campioni (?), danno garanzie tecniche (?) e soprattutto hanno stretti legami con i poteri che contano. I quali in caso di necessità ne impongono la presenza (?) al Giro, consentendo al Tour di fare ciò che gli aggrada. Vergogna, non ci sono altre parole. Potrebbe apparire ingeneroso inserire in lista la Garmin che si è fatta vedere con Farrar o la Caisse di Arroyo, ma è un fatto che per un velocista non vincere nemmeno una tappa e per un uomo da primi dieci arrivare undicesimo siano delle sconfitte, e pure abbastanza secche. Può essere spietato non ricordare che Cancellara è bolso, che Capecchi era pimpante ma ha dovuto mollare ai due terzi del Giro, che Rodriguez era dolorante al ginocchio, che la Caisse sia infarcita di inguardabili francesi imposti dallo sponsor. E bla bla bla. Sono scuse patetiche. Massimo rispetto per la fatica dei corridori, ma questa non è serietà, a livello di sistema: altro che “Pro”. Un livello così scandaloso che viene il dubbio che l’UCI gliel’abbia chiesto apposta! Anche Ag2R e Bbox rientrerebbero benissimo in questa categoria, ma visto che sono team francesi li consideriamo come giocatori con “handicap”, quindi gli abbiamo rivolto uno sguardo più compassionevole. Così come era forse da “vuoto cosmico” anche la Xacobeo, team non Pro Tour, ma per costoro abbiamo coniato un’altra categoria, per rendere conto del fatto che una squadra piccola fa comunque fatica: non solo con i propri atleti, come tutte, ma anche per sopravvivere nel ciclismo professionistico.

Gabriele Bugada

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