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LPR vs LIQUIGAS IL TRIONFO DEL CAMPANILISMO

Domani il traballante sampietrino romano decreterà, a meno di sorprese, la vittoria di Menchov nel Giro del Centenario. Fin qui si è, comunque, già traballato abbastanza: a scricchiolare con gran frastuono sono state le praticamente inesistenti alleanze tra gli italiani, che hanno corso questo Giro col coltello fra i denti conviti di far ciascuno corsa giusta per sé. Ed alla fine, alla gatta Menchov non rimaneva che ballare mentre i topolini si scannavano.

.:nella foto Bettini, Menchov festeggia a ventiquattrore dall’epilogo romano

Il Giro è pronto a coricarsi, sfiatato dopo 3400 km corsi ad oltre 40km/h di media. Ha un padrone quasi assicurato: Denis Menchov, che scomposto cavalca la bicicletta come se solcasse le steppe. Qui, ha scalato gli Urali (ed è il caso di dirlo, viste le basse quote), ha difeso tenacemente e con merito la sua Stalingrado dagli strali dei rivali. Rivali, appunto, non rivale. In tanti sulla carta, in realtà mai nessuno ha impensierito la sua rosea cotta di maglia; nessuno ha mai fatto balenare un lampo di paura nella sua bronzea maschera; nessuno, in poche parole, lo ha mai messo sul serio in difficoltà.

Certo, non che il percorso agevolasse poi i voli pindarici: quanto pesa il sacrificio della fantasia sull’altare dello spettacolo nell’ultima settimana. Certo, Danilo Di Luca ha raschiato il barile dei suoi garretti per guadagnare qualche secondo sul russo. Tuttavia si sarebbe potuto/dovuto osare di più.

Dire che sia mancato il collante tra i rivali di Menchov sarebbe come accusare i sovietici e gli americani di non essersi messi d’accordo prima per dare a Hitler il colpo di grazia. Troppo, lo riconosciamo. Però, i vincitori della seconda guerra mondiale hanno aspettato di sbarazzarsi del baffuto e sanguinario dittatore per darsele di santa ragione. Sul Giro del Centenario, mai come quest’anno crocevia di popoli (dodici tappe su venti feudo di stranieri di nove nazioni diverse), è invece pesata l’ombra di due vessilli, di due brigate, di due campanili: quello della LPR e quello della Liquigas. La rivalità tra Di Luca e la coppia-che-scoppia Basso/Pellizotti ha, forse, deciso in modo inequivocabile il Giro d’Italia.

C’è una frase che ha marchiato a fuoco la corsa, pronunciata all’arrivo di Monte Petrano dallo staff della Liquigas: “Di Luca ha corso da perdente”. Il motivo? Per sua stessa ammissione, il Killer di Spoltore aveva preferito inseguire Basso e Sastre che lasciare l’incombenza alla maglia rosa, ugualmente preoccupato per l’andazzo. Meglio un uovo oggi (il secondo posto in cassaforte) che una gallina domani (riposarsi e sfinire Menchov)? Chissà. Con i tempi che corrono (e con le vicende di Humanplasma che incombono), anche un gradino sul podio fa la differenza. Di certo, in quella occasione, Di Luca ragionò da piazzato e puntò sul sicuro, invece che giocare sul rischio, magari innervosendo Menchov.

Ma le infuocate parole nella fornace del Montefeltro non erano altro che la punta di un vistoso iceberg navigante da giorni nei flutti del gruppo. La bomba ad orologeria, innescata tra le due corazzate, ha tardato ad esplodere dopo la cronometro delle Cinque Terre, proprio in concomitanza con la vestizione (sin qui mai più spogliata) in rosa di Menchov. Bologna, San Luca, Di Luca schiuma di rabbia (“ci hanno lasciati soli!”) e in Liquigas si gongola (“è scattato il trappolone”). Di Luca silura a Faenza (“le alleanze bisogna sapersele fare”), Pellizotti oltraggia sul Blockhaus (“che soddisfazione batterlo in casa!”). In mezzo, qualche riferimento a “di regali non ne facciamo più” e a “c’è chi non ci prova nemmeno, di vincere questo Giro”.

Punture di spillo, frecciate, alabardate sterili, soprattutto tatticamente. Il più classico de “tra i due litiganti, il terzo gode”. Il terzo - toh chi si vede - era Menchov, furbo e sonnacchioso panterone. Invisibile, nel senso del cocktail: non si vede ma lo senti alla fine, quando mette in riga i dispettucci nel nido. Come detto prima, non si pretendeva un’alleanza ma che non ci si corresse contro, come s’è visto da ambo le parti, specie in virtù della vecchia ruggine tra le parti, risalente al benservito dato a Di Luca da Dal Lago dopo il deferimento alla vigilia dei Mondiali del 2007 per la vicenda Santuccione. Che permalosi, direte. Sì ma la scaramuccia costò immagine e un Pro Tour già vinto alla Liquigas e, a Di Luca, la “retrocessione” alla LPR, sia in termini di contratto (già in questo Giro ha sollecitato gli sponsor a sborsare) che di carriera (da due anni, Di Luca non corre le Classiche del Nord).

La ruggine ha inceppato i moschetti in questo Giro, dove la posta era bella grossa, e han finito per darsi di baionetta, deconcentrandosi dall’obiettivo di (provare a) mettere Menchov alla corda. Non ha aiutato nemmeno l’aquila bicefala in casa Amadio, con i dilemmi tattici che conseguivano dalla convivenza tra Basso e Pellizotti, sulla carta coppia non impossibile dal punto di vista umano ma che proprio sotto questo aspetto ha finito per dare una discreta zappata al morale del varesino. Per non parlare di quello tattico, per il quale nessuno dei due ha mai voluto davvero sacrificarsi alla causa dell’altro (Monte Petrano?), dopo che per stessa ammissione di Basso “altri obiettivi al di fuori della vittoria, non m’interessano”.

È proprio vero: in Italia conta solo farsi la guerra tra campanili. E la tattica, cruciale in uno sport d’intelligenza come il ciclismo, va a farsi benedire.

 Federico Petroni

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