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L'APPROFONDIMENTO
PLAN DE CORONES
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Pellizotti e Sella guidano il gruppo. Non solo sul traguardo di giornata ma anche nelle dichiarazioni a caldo, che il nostro Federico Petroni ha raccolto integrandole nel racconto della più bella giornata di questo 91esimo Giro d'Italia. C'è chi si commuove e chi sbraita: a qualche straniero certe pendenze non sono andate giù. Chi è il deluso? Non anticipiamo altro e rileggiamo la corsa nelle parole dei protagonisti.

di Federico PETRONI

Franco Pellizotti è bello come il sole. Negli occhi color nocciola si legge la felicità. Salendo il palco della vittoria con il figlioletto Giacomo, il sorriso che gli ingentilisce i tratti svela l’immensa soddisfazione, sin qui la più grande della carriera, della vittoria nella cronoscalata del Plan de Corones, la montagna delle incoronazioni. L’epica ladina narra come su questo panettone, spruzzato di zucchero d’inverno e di menta d’estate, avesse ricevuto la corona d’oro l’ultima della stirpe dei Re del Fanes, l’amazzone Dolasilla. Non è un caso che il biondo elfo della Liquigas sia premiato con un simile diadema, recante come effige il galletto, simbolo del consorzio. Pellizotti ha alzato la cresta. Ci aveva provato sul Giau ma aveva cantato l’alba troppo presto, finendo schiacciato dalle dure pendenze del Fedaia. Oggi, sulla montagna che delimita a nord le valli ladine, ha compiuto una mezza impresa. “Davanti a tutta questa gente, ad una marea di miei tifosi, a mio figlio, vincere è un sogno. Questa tappa rimarrà nella storia del Giro d’Italia, ho fatto qualcosa di grande.”

Vincere non sapendo di stare vincendo. Ecco il paradosso della prova che lo visto trionfare con un tempo di 40’26”, sei secondi meglio di Sella, unici ad avere infranto il muro dei diciannove di media. “Non avevo i riferimenti, ho pensato solo a spingere, riservando un briciolo per l’allungo nel chilometro finale.” Il migliore, rapportandolo agli altri big. Lo avevamo incontrato qualche sera fa, a Modena, il Delfino di Bibione e ci aveva confidato come credesse molto nella possibilità di ben figurare nella cronoscalata. Si era mostrato determinato, tranquillamente rabbioso, come si sarebbe poi rivelato sui pedali, non solo a parole, su pendenze a lui non amiche, in linea teorica. Sul Furcia, dopo 7.6km, perdeva 22” da Sella: gliene ha rifilati 28” nel tratto sterrato che, a ben vedere, si addiceva alle caratteristiche di uno scattista come l’atleta carnico, con agevoli tornanti ideali per rilanciare continuamente l’azione. Occorreva tanta birra. La maglia rosa dei primi giorni ha dimostrato di averne a pinte, spingendo un rapporto un filo meno duro degli altri.

Se Pellizotti ha dimostrato di cavarsela con la piccozza, Emanuele Sella ha confermato il feeling con le alpestri cime. “Ho fatto vedere a tutti di che pasta sono fatto. In salita, lotto ad armi pari con i migliori, anche dopo due giorni massacranti di fuga. Ho fatto fatica a rilanciare l’azione nel tratto in pari (tra i meno 2.5km e i meno 1.2km): lì, Franco mi ha castigato". Ci credeva, il piccolo Napoleone rivoluzionario, alla tripletta. L’iniziale delusione non era tanto dovuta al successo svanito, ciliegina su una già satura torta, quanto dall’impressione di non avere profuso il massimo, considerato che dopo Pellizotti, mancavano altri sei concorrenti. “La prova è stata bellissima – dirà a bocce ferme. Pensare che un tempo si correva su queste strade fa sognare. Da ripetere, è un esperimento nuovo e divertente”.

L’entusiasmo di Sella apre l’annoso dibattito sui pro e contro della cronoscalata. Giusto o sbagliato cercare con spasmodica chirurgia pendenze estreme? Jens Voigt non usa mezzi termini e va giù di mannaia. “E’ una corsa assurda. Il ciclismo è uno sport duro per duri; sono d’accordo con tappe di 200km ma sono contrario queste spettacolarizzazioni fini a se stesse.” Il tedesco è l’opposto di Sella. 190cm contro 160; stazza da classiche contro minuzia da scalata; amore per percorsi piatti contro odio per le pianure. Di parte anche il commento di Paolo Bossoni. “Robe da pazzi, l’ultimo chilometro era una rampa di lancio per missili, non riuscivo ad alzarmi, anche con il 34x29.” Di parte, perché il parmigiano ha concluso la prova a undici minuti di ritardo. Fuori tempo massimo e tanti saluti. Come in tutte le cose, “in media stat virtus”. L’elenco dei difetti della prova odierna va soppesato con cura certosina con i suoi pregi. La domanda che popola menti e labbra è se abbia senso una corsa del genere.

Il ciclismo è uno sport e come tale si deve adattare, nell’epoca moderna, ad esigenze di marketing e di spettacolo, spesso a braccetto. Per i valligiani, l’evento odierno è un veicolo di promozione del consorzio sciistico e anche un modo per premiare il lavoro di chi, questo meraviglioso angolo di Dolomiti, se lo è letteralmente inventato: Erich Castlunger, a cui il fratello Willi ha dedicato, organizzandola a puntino, la 16° tappa. Il paese di San Vigilio ha vissuto due giorni splendidi. Deserto ieri mattina, si è popolato di tifosi, appassionati, semplici curiosi. L’arrivo dei corridori; la cena tipica nella stube del Sonnenhof a base di canederli e jodel; la mattutina ascesa verso il Plan de Corones. La montagna vive. Settantamila persone hanno colorato di facce, gioia, risate; di vino, birra ed ebbrezza; di folklore, zampogna e campanacci il monte delle incoronazioni. Una cavalcata di tre settimane può concedersi un salutare bagno di folla, dopo tanti bagni di acquazzoni.

Il ciclismo è uno sport e come tale richiede contenuti tecnici, per soddisfare palati esigenti e perché una zuppa d’orzo saporita è meglio di un brodino di semolino. Si discute spesso dell’utilità delle cronoscalate, false prove contro il tempo. Si dibatte l’universalità dell’assioma-Zoncolan (forti pendenze, brevi distacchi). Il bilancio di una giornata di sport e spettacolo è da chiudere in avanzo perché la tanto sbandierata assenza di spunti, cunei, sorprese ha fatto un buco nell’acqua. La cronoscalata di Plan de Corones parlava agli orecchi capaci di sentire, seppure nel suo gusto delicato. Di Menchov pare chiara l’idiosincrasia con le ardue pendenze prolungate. L’assolo di Pampeago va letto ancora alla luce della balance of power, rottasi sui tornanti del Fedaia. Se isolato, il cosacco potrebbe alzare bandiera bianca, come pure Di Luca, parso il più ingolfato sulle rampe sterrate. L’abruzzese sola conosce, in questo Giro, la legge dello scatto grintoso, più che la concreta resistenza fisica. Sentenze della peso specifico dell’Inquisizione spagnola hanno condannato definitivamente le speranze teutoniche di Kloden.

I primi cinque classificati sono probabilmente gli scattisti più in forma del momento. Nonostante i distacchi tra questi fossero contenuti nell’ordine di 30”, melliflue crepe si sono aperte scorrendo l’ordine d’arrivo. Contador gioca alla Sacchi, più catenaccio che contropiede. Rileva giustamente Pellizotti che l’iberico dispone della crono conclusiva, per annunciare “les jeux sont faits”. Dietro, però, mentre Riccò soffre, per acerba gioventù, gli sforzi ripetuti (e il Mortirolo potrebbe aprire voragini), un Simoni a 1’20” dalla maglia rosa in vista della terza settimana, potrebbe costituire un luciferino cliente, viste le doti di fondo del Sandokan trentino. I maoisti grandi balzi in avanti di Pellizotti (quinto a 2’05”) e di Sella (nono e pronto a vendere l’anima a Satana piuttosto che defezionare) altro non fanno che aggiungere ingredienti piccanti ad un Giro a rischio implosione nelle giornate bergamasco-valtellinesi. Se è vero che lo scricciolo dei Berici e l’elfo della Liquigas sono finora gli eroi del 91° Giro d’Italia, stretto dalla morsa di Contador, la terza settimana albeggia tinta di rosso. Rosso sangue.

Federico Petroni

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