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GIRO 2009: UFFICIALE
UN AMERICANO A ROMA
ARMSTRONG CI SARA'

di Federico Petroni

Un americano a Roma. L’americano è Lance Armstrong. A Roma, invece, arriverà il Giro d’Italia 2009, l’edizione del Centenario. Tutto vero. Adeguatamente preparata con un pizzico di suspense dalla RCS, la notizia deflagra nel primo pomeriggio: il campione texano disputerà la corsa rosa, evento mai verificatosi nella sua carriera agonistica, scelto per iniziarne un’altra, quella promozionale. L’offensiva allo statico (e stantio) mondo del ciclismo, incapace di darsi una svolta d’immagine, era scattata il 10 settembre, data della conferma del ritorno alle corse di Armstrong. Si pensava ad un limitato numero di corse, in linea con una non certo verde età (38 anni). E invece il vincitor di mille battaglie (dal cancro ai sette Tour de France a quelle legali contro i diffamatori) ha nuovamente sorpreso il mondo. “Finalmente potrò rifarmi”, le prime parole dell’americano. “So quanto significhi il Giro del Centenario per voi italiani. Tutti dicono che sarà solo per preparare il Tour, invece può essere che venga in Italia per vincere. Proprio il Giro sarà la mia vera corsa a tappe di tre settimane dell’anno".

Perché un ex corridore che ha giurato, una volta terminata la scalata al terribile Mortirolo in un’uggiosa giornata invernale, che non avrebbe mai e poi mai disputato il Giro d’Italia, si rimette in gioco con questa tenacia? Già sentiamo echi di dietrologi legiferare: la popolarità non basta mai, la vittoria neppure, i soldi men che meno. Armstrong riesce ad essere straordinario (nel senso: fuori dal comune) anche nelle motivazioni. Non ha bisogno di rinfoltire il portafoglio. È la sfida alla piaga del cancro a muovere il texano, da anni impegnato a livello politico, sportivo e mediatico. Chi di noi non ha mai visto il braccialetto giallo della Nike con la scritta “Livestrong”? Negli USA, questo movimento è una realtà, meno conosciuta invece altrove. Lo sforzo promozionale di Armstrong sta appunto nel portare il messaggio in ogni angolo del globo. Ecco spiegata l’insistenza per correre il Tour Down Under, in Australia, cui non avrebbe potuto partecipare per una questione burocratica.

Nobile causa, non v’è alcun dubbio. Cui affiancata sta un’altra, sicuramente più terrena ma di grande rilevanza politica, non solo sportiva. Un come back con i fiocchi sarebbe una vetrina mostruosa che garantirebbe immortalità alla sua immagine. Armstrong non ha fatto mistero, nell’intervista a Vanity Fair, di volersi candidare alle elezioni a governatore del Texas nel 2014. E, come Barack Obama, s’è convinto a fare campagna elettorale anche – nel suo caso soprattutto – nella Vecchia Europa. D’altronde, quello tra pubblicità e campagna elettorale è un connubio sempre più stretto, come dimostra il continuo travaso di esperti dall’uno all’altro settore. Meno reclamizzato ma forse ancor più plausibile, una scalata di Armstrong al Tour de France. Voci di corridoio soffiano sul fuoco della megalomania, dando per probabile un accordo con Hein Verbrugghe (l’ex presidente dell’UCI assetato di danaro) per rilevare la Societé du Tour de France. Ma qui entriamo nella fantapolitica.

Ma la mossa di mercato del vincitore di sette Grandes Boucles coincide con l’operazione di marketing del Giro d’Italia, del quale il direttore Angelo Zomegnan si è dimostrato abile ed astuto restauratore, specie nell’immagine. Sullo sfondo di scandali in successione (nonostante i vertici del Giro ostentino pulizia nell’edizione del 2008), di un crollo generalizzato degli ascolti mondiali (si parla del 40%) l’invito di Armstrong sintonizzerà a maggio tutte le reti sullo Stivale. L’attenzione sarà alle stelle: si tratterà infatti del primo, vero impegno dell’americano, la cartina tornasole delle sue reali intenzioni di lì a luglio. Una gallina dalle uova d’oro? Sarà, ma per il Giro è di vitale importanza non soffermarsi su questa, in fondo, superficiale epifania, variabile impazzita, eccezionale e irripetibile. Occorre trovare la forza per rilanciarsi dentro si sé, puntando su fattori interni, endogeni. Ai posteri l’ardua sentenza.

Quando un americano viene in Italia, nel popolo italico rifiorisce un sacro terrore, un nazionalismo ostracista nei confronti dello straniero. Una diffidenza quasi si trattasse di alieni, di padroni in visita del contado. Muscolosa, però. Neanche il tempo dell’annuncio che i siti sportivi erano invasi da commenti del tipo: “Venga pure ma i nostri gliela faranno sudare!”. La Merica (non ho sbagliato) è d’altronde informe oggetto di culto o di mistero, di speranza o di sguardi cagneschi. Un retaggio del passato, dell’antica credenza nella Terra Promessa, verso cui milioni di italiani sono emigrati a cavallo del XIX e del XX secolo. Chi incontrando fortuna, chi trovando miseria. Mentre altri europei (irlandesi, tedeschi, polacchi) si stanziavano nel Nuovo Continente una volta per tutte, i nostri avi facevano spesso la spola da una sponda all’altra dell’Atlantico, raggranellando quei pochi denari per comprarsi una fetta di terra. Erano chiamati “birds of passage”.

Capovolgendo la storia, Lance Armstrong sarà Annibale o un bird of passage? Difficile s’impegni a fondo: se non tentò la doppietta a 30 anni, perchè provarci a 38, quando, ipse dixit, “il Tour è l’unica corsa al mondo”? La porta blindata del percorso del Giro del Centenario ha però qualche spiffero. Ribaltando tradizione e cartina geografica, pare proprio che la carovana rosa, nel 2009, si muoverà da Venezia a Roma, le Dolomiti snobbate ed il Vesuvio come ultima asperità. Se dunque la RCS si reinventerà sarta, per cucire ad Armstrong un tracciato su misura (tanta crono, dolci monti) come ai tempi di Moser e Saronni, issarsi sul gradino più alto del podio non sarebbe un’utopia. Un americano a Roma. Come Alberto Sordi davanti ad un piatto di spaghetti: “M’avete provocato? Mo’ ve distruggo!”.

Federico Petroni

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