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LA PACE TRA UCI E ASO
SACRIFICA IL CICLISMO
SULL'ALTARE DEL DENARO

In occasione dei Mondiali di Varese, Uci e Aso hanno siglato un accordo. Più che una pace, un accordo di arricchimento indipendente. L’antidoping torna all’Uci, mentre le wild card e i diritti TV restano ai grandi organizzatori. Varato un nuovo calendario mondiale. Dimenticate riforme essenziali per la sopravvivenza del ciclismo. Di Federico Petroni.

di Federico Petroni

La vedetta ha avvistato terra. Salpata come una caravella di Colombo verso l’ignoto, la navicella del ciclismo ha solcato per anni le agitate acque dello scontro tra UCI ed organizzatori. Diritti televisivi, gestione dell’antidoping, inviti delle squadre: ogni giorno una bufera. Durante i Giochi Olimpici, il presidente dell’Unione Ciclistica Internazionale Pat McQuaid annunciò il varo di un “World Calendar” per il 2009, risultato della combinazione tra le corse del Pro Tour e quelle storiche (per intenderci, i tre grandi giri e le classiche monumento). “Sarà istituita una classifica mondiale, individuale e a squadre, che sommerà i punteggi ottenuti nelle due branche del calendario”, commentò il numero uno del ciclismo mondiale. A questo unilaterale annuncio estivo, s’è aggiunto, durante i Mondiali di Varese, quello dell’accordo, una vera e propria pace, tra l’UCI e i grandi organizzatori.

Prima di capire se e come ci si sta dirigendo fuori dalla selva oscura (o dal mare tempestoso, che dir si voglia), è forse utile ricapitolare come ci si è entrati. Correva l’anno 2005 quando fu varato il Pro Tour, un circuito comprendente una ventina di squadre e le maggiori corse internazionali. L’idea, fantastica: diritto-dovere per le migliori squadre del lotto di partecipare ai grandi eventi. La realizzazione, pessima: l’assenza di un meccanismo di promozione-retrocessione, antidoping differenziato per chi ne faceva parte e chi ne era escluso. La filosofia, abominevole: l’allora presidente Verbruggen e soci intendevano emulare il carrozzone della Formula 1, prediligendo corse prive di contenuti tecnici pur di gonfiare i loro portafogli. E le corse della tradizione, quelle che da oltre un secolo rendono epico il ciclismo? Immolate sull’altare dei diritti televisivi e dei grandi sponsor.

Questa slot machine dalla semplicissima combinazione (TV, sponsor, disprezzo per la tradizione) non era andata giù ai tre grandi organizzatori. ASO, RCS e Unipublic gestiscono da sole Sanremo, Roubaix, Liegi, Giro d’Italia, Tour de France, Vuelta e Lombardia: l’essenza del ciclismo. Perché lo schema applicato ai motori non poteva essere applicato alle due ruote nobili? Perché nel ciclismo è il luogo a conferire prestigio ad una vittoria. È il Tour de France, si dice, a fare grande il corridore, non il contrario. Come Wimbledon per il tennis. La questione “idealista” fu affiancata, nella lotta all’UCI, da una più realista: gli organizzatori non intendevano cedere né i diritti televisivi all’ente governativo mondiale né la prerogativa di invitare a proprio piacimento le squadre e gli atleti. Con il rifiuto di fare correre la Unibet.com alla Parigi – Nizza del 2007, si aprì una guerra senza esclusione di colpi, con i grandi eventi e le squadre di grido pronti ad uscire dal calendario del Pro Tour, l’UCI ad usare l’antidoping come arma di ricatto (ricordate le positività a orologeria del Tour 2007?).

Di colpo, la pace. Con l’accordo siglato durante i Mondiali di Varese, i grandi organizzatori di fatto hanno accolto le modifiche al Pro Tour ideate dall’UCI. Come detto, sarà istituito un World Calendar, nel quale convivranno corse Pro Tour e corse storiche per dare vita ad un ranking mondiale, anche se il punteggio delle singole competizioni è ancora in via di definizione. Dal 2011, la partecipazione al Tour de France sarà determinata in parte da un meccanismo di meritocrazia (le diciassette migliori squadre), per la restante parte dalle wild card in mano agli organizzatori. La Federation Française de Cyclisme, bandita lo scorso giugno, sarà reintegrata dall’UCI, così come le principali corse transalpine, organizzate nel 2008 sotto l’egida francese e non mondiale. Le date del Giro di Polonia e della Classica di Amburgo sono state spostate da settembre ad agosto. Ma le “riforme” finiscono qui. La navicella dell’ingegno dell’UCI ha navigato ben poco. S’era parlato d’un profondo restyling: quelli approntati da McQuaid e soci sono poco più di ritocchi che non scalfiscono l’ideologia di fondo del Pro Tour.

Se braccio di ferro era, a cedere pare siano stati i grandi organizzatori, anche se le concessioni sono state reciproche. Diversi indizi portano a sposare questa tesi. Innanzitutto, i firmatari dell’accordo. Le trattative non sono state condotte dall’ASO in persona, bensì dall’EPA (Editions Philippe Amaury), il gruppo che in Francia controlla, tra gli altri, il Tour e grandi testate come L’Equipe. Come ha dichiarato, quasi beffardo, McQuaid, “la ASO dovrà sottomettersi alle decisioni dei suoi superiori”. Sembra che la mediazione tra UCI ed EPA sia stata attivata da Jacques Rogge stesso, presidente del Comitato Olimpico Internazionale, in cui il deus ex machina dell’UCI, Verbruggen, detiene un seggio. Frutto delle trattative, una testa importante è caduta: Patrice Clerc, esperto dirigente sportivo da otto anni al timone dell’ASO, distintosi per l’inflessibile profilo tenuto con l’istituzione governativa mondiale. Al posto dell’ex direttore del marketing del Roland Garros, il rampollo degli Amaury, il 32enne Jean-Etienne, le cui credenziali sono ancora fumose. Dall’altra sponda, Hein Verbruggen s’è defilato nell’ombra, dimettendosi da vicepresidente UCI. Ma per il dirigente olandese si vocifera d’un rientro dalla porta principale, alla testa d’una società (nella quale entrerebbe anche Lance Armstrong) pronta a rilevare il Tour.

Il nulla osta al World Calendar è venuto anche grazie alla garanzia (provvisoria?) per gli organizzatori dei diritti televisivi e delle wild card. Come ha rilevato Bob Stapleton, team manager della Columbia, “UCI e ASO sono ora liberi di svilupparsi in modo del tutto indipendente”. Detto fuori dai denti, di lucrare nel reciproco rispetto. Ognuno per sé, Dio per tutti, a parte per il ciclismo, nel teatrino di questo sport sempre relegato al ruolo dell’ingenuo Arlecchino, sbeffeggiato a destra e a manca, tirato per la giacchetta quando serve, calpestandone valori e tradizione quando il Vello d’Oro chiama.

Completa l’affresco da “Tanto rumore per nulla” il tema dell’antidoping. Dal 2009, i controlli saranno organizzati dall’UCI, istituzione talmente trasparente che fino all’anno scorso pubblicizzava le positività col contagocce e in date strategiche, per screditare la corsa di turno. Dimenticatevi dunque il rigore dell’AFLD (assente per protesta alla presentazione del Tour de France) e i controlli contro l’autoemotrasfusione. Tutto sommato, il pentolone ribolliva troppo per essere scoperchiato del tutto. Come Operacion Puerto. È di qualche giorno fa lo sconvolgente rifiuto di McQuaid di consentire controlli retroattivi sui campioni del 2007. Stabilito il prezzo del futuro di questo sport: omertà e connivenza. E una bella pietra sul passato.

Il ciclismo ha bisogno di riforme. Profonde ed incisive riforme. Le modifiche apportate al Pro Tour con il papocchio del World Calendar non scalfiscono le questioni che più stanno a cuore dei corridori e degli appassionati. L’elenco è sterminato. In questa sede, ci limiteremo a richiamare alcune tematiche neanche affrontate dall’UCI.
1) Antidoping. Il passaporto biologico è un’ottima idea ma non se ne può lasciare la gestione ad un unico ente che, in passato, a dimostrato di sfruttarlo per meri fini politici e di ricatto.
2) Legislazione antidoping. Per uscire dal ginepraio delle legislazioni nazionali, occorre uniformare a livello mondiale. Impossibile pensare di punire sempre e solo i corridori: essi sono il motore della piovra del doping ma anche l’anello più debole e superficiale. L’inibizione dei medici non basta, il caso Riccò lo dimostra. E che dire dei team manager? Dovrebbe loro essere attribuita la responsabilità dei corridori, per evitare sceneggiate alla Ponzio Pilato.
3) Calendario. Troppo esteso. La rivalità tra i campioni è l’essenza del ciclismo. Pretendere che i corridori gareggino da gennaio ad ottobre è una follia. Occorre compattare gli eventi e selezionarne alcuni di vero richiamo, tessendo intorno una serie di corse di contorno, magari anche in luoghi esotici per promuovere lo sport. I corridori non sono vetture di Formula 1. Le quali, poi, gareggiano da Pasqua ad ottobre.
4) Meccanismo di retrocessione/promozione nel Pro Tour. Gli sponsor, per entrare nel ciclismo, hanno bisogno di garanzie circa quale vetrina avranno, è vero. Ma con l’attuale Pro Tour, ispirato alla NBA, si calpesta la meritocrazia.
5) Selezione dei partecipanti ai grandi giri. L’idea del ranking a squadre è ottima; accanto ad esso deve apparire anche la classifica per singolo atleta, magari lasciando un margine di qualche unità alla squadra per scegliere i gregari più valorosi o portare in extremis un campione che non sia riuscito a totalizzare un punteggio sufficiente, magari per un infortunio.
6) Wild Card. Il sistema dell’invito è utile per garantire la presenza di “grandi esclusi” o per promuovere il movimento locale. Il rischio è però il clientelismo, la compravendita delle wild card. Per evitare il provincialismo di certe corse e quindi l’impoverimento tecnico, si dovrebbe restringere il campo di scelta ad un tot di formazioni che hanno raggiunto un limite di punteggio e limitare il numero di inviti a squadre della nazionalità dell’evento. Deve essere poi ridotto il numero degli atleti per squadra, per favorire la combattività e l'incertezza.

Riforme congelate, portafogli arricchiti, trasparenza su cui viene passata una discreta mano di vernice. La vedetta non aveva avvistato terra? Per i forzieri dei grandi vertici di questo sport, forse. Non per i corridori, vilmente triturati da questo ingranaggio assassino dei più basilari valori sportivi ed etici ma lo stesso Terzo Stato inanime per la consapevolezza di avere la spada di Damocle dell’antidoping sul capo. Non per gli appassionati, vero motore d’uno sport altrimenti triste e privo di pubblico, costretti ad assistere allo svilimento delle corse cui erano più affezionati. La vedetta, comunque, ha avvistato terra anche per noi. Non una Terra Promessa ma un luogo ignoto, dove si nascondono magagne, cancri non risolti e siccità di campioni veri.

Federico Petroni

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