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MENCHOV – DI LUCA
UN DUELLO LUNGO
3000 KM

Andiamo ad analizzare lo splendido duello che ha caratterizzato il Giro d’Italia del centenario, risoltosi solamente all’ultimo kilometro della conclusiva cronometro di Roma.

Il servizio di Matteo Novarini

“Erano anni che non assistevamo ad un finale entusiasmante come questo”. La frase con cui Adriano de Zan accompagnò le ultime pedalate di Marco Pantani nell’indimenticabile tappa di Montecampione del Giro 1998 riassume il pensiero di tutti gli appassionati di ciclismo, che nell’ultima settimana hanno vissuto un duello che per molti versi ha ricordato quello tra il Pirata e Tonkov della Corsa Rosa di quell’anno. Oggi come allora Italia – Russia, oggi come allora uno scalatore italiano obbligato a staccare un granitico russo per portarsi a casa la corsa. Epiloghi però molto diversi: a Milano, undici anni fa, il Pirata chiuse il primo capitolo del suo anno d’oro, a Roma, questa volta, è stato incoronato il terzo zar d’Italia dopo Berzin e lo stesso Tonkov.

Tuttavia, il punto di contatto più importante, anche se una grossa fetta di tifosi (e fin qui nulla di male) e di giornalisti (e qui invece è molto male) si ostina a non volerlo ammettere, è l’impressione che alla fine sia stato il più forte e meritevole a prevalere. Tralasciando il paragone con l’81a edizione del Giro, e concentrandoci invece sulla 92a, appena conclusasi, Menchov ha stravinto la cronometro delle Cinque Terre, la prova contro il tempo più impegnativa della storia recente del Giro, e ha conquistato l’arrivo in salita dolomitico dell’Alpe di Siusi (ci scuserete se ci rifiutiamo di scrivere “tappa dolomitica”, perché i 100 km di nulla prima dell’ascesa finale hanno molto poco di “dolomitico”). A ciò si sarebbe probabilmente aggiunta la crono conclusiva di Roma, non fosse stato per un’incredibile scivolata in rettilineo che avrebbe anche potuto distruggere in un attimo tutto ciò che Denis aveva costruito in tre settimane. In salita ha staccato almeno una volta tutti gli avversari tranne Di Luca, ai cui attacchi ha però risposto sempre con apparente facilità. Insomma, una prestazione di una solidità impressionante, che avrebbe dato al russo la quasi certezza di vincere il Giro ben prima della crono odierna, se non fosse stato per quegli abbuoni che teoricamente dovrebbero favorire la combattività, ma che danno l’impressione di ostacolarla, inducendo gli scalatori a risparmiare qualche scatto per potersi prendere qualche secondo quasi gratis nel finale.

Di Luca, dal canto suo, è stato il grande protagonista della prima parte di Giro d’Italia, vincendo a San Martino di Castrozza la tappa del Giro classifica come “alta montagna” più insignificante e noiosa dai primi anni ’80 ad oggi e la Cuneo – Pinerolo versione B (sia chiaro che non si vuole minimizzare a proposito dei meriti di Danilo, ma semmai evidenziare le enormi lacune del percorso del Giro del centenario). Il capitano della LPR è stato l’indiscusso protagonista della Corsa Rosa fino alla cronometro delle Cinque Terre, occasione in cui ha dovuto cedere la maglia a Menchov, ma difendendosi in maniera più che dignitosa. Da allora in avanti, però, la condotta tattica di Di Luca è stata via via più discutibile. L’abruzzese ha sì attaccato su tutte e tre gli arrivi in salita della terza settimana, ma ha sistematicamente finito per correre da gregario della maglia rosa, andando ad inseguire ora Sastre, ora Basso, ora Pellizzotti. Ogni volta che qualche uomo di classifica si avvantaggiava, Di Luca si offriva gentilmente di sostituire Menchov in quello che sarebbe il naturale compito della maglia rosa, ossia prendere in mano l’inseguimento. Danilo si è difeso dicendo che una volta resosi conto che il russo era troppo forte per essere staccato, ha sempre scelto di limitare quanto meno i danni rispetto agli altri. Cosa che può avere anche un senso, ma solo se si corre accontentandosi del secondo posto. Perché se un avversario è troppo forte per essere staccato da tre scatti di 200 metri, bisogna provare a logorarlo o scombinargli i piani in qualche modo, e questo modo non è certamente una condotta di gara degna di Ten Dam o Ardila Cano. Il tutto, peraltro, dopo che nella tappa di Bologna aveva spremuto come limoni i compagni di squadra per inseguire la fuga, a cui in precedenza aveva concesso troppi minuti in troppo poco tempo. Lungi da noi lanciarci in un’imitazione del cantore del Giro Marino Bartoletti, che sa sempre cosa va fatto e quando va fatto, ma non ci risulta che qualcuno sia mai riuscito a vincere una grande corsa a tappe correndo in questa maniera, lavorando per l’avversario.

Se a cronometro, come prevedibile, non c’è stata partita, si può dunque dire che lo stesso discorso valga per la condotta tattica, molto più intelligente da parte del russo. A tal proposito, niente meno che Pier Bergonzi, giornalista della “Gazzetta”, ha dichiarato che Menchov ha dato poco al Giro perché ha corso alla Indurain, e per questo Di Luca è stato il vero protagonista della corsa. Premesso che non troviamo nulla di degradante nel correre “alla Indurain” se ce lo si può permettere, specie alla luce dei risultati che il cinque volte padrone del Tour ha ottenuto con strategie di questo genere, va detto che Menchov ha corso “alla Indurain” perché gli altri, segnatamente Di Luca e la LPR, glielo hanno permesso. Avendo la possibilità di rimanere a ruota dell’avversario per tutta la salita, con la certezza di limitare al contempo i danni da tutti gli altri rivali, il russo avrebbe forse dovuto chiedere gentilmente a Di Luca di farsi da parte, perché provava un irrefrenabile desiderio di tirare per qualche centinaio di metri? O ancora, constatando, che la LPR inseguiva le fughe al posto di una Rabobank peraltro dimostratasi ben lontana dall’accozzaglia di brocchi che era secondo molti, Menchov avrebbe forse dovuto pretendere che i suoi uomini si sostituissero a quelli di Di Luca? Insomma, oltre ad avere dimostrato una prevedibile netta superiorità a cronometro, l’uomo di Orel si è fatto preferire anche sotto il profilo tattico, anche se forse più per demeriti altrui che per meriti propri.

A sentire molti, Di Luca avrebbe però meritato di vincere ugualmente questo Giro, perché è stato più forte in salita. Anche su questo punto ci permettiamo di dissentire. Di Luca ha staccato Menchov soltanto a Pinerolo e al Blockhaus, rispettivamente per dieci e cinque secondi. Nel primo caso, però, non si è trattato di un vero e proprio attacco in salita, in quanto la differenza tra i due è maturata su uno strappo di 400 metri più da classica che da tappone alpino. Sulla montagna di casa, poi, Di Luca non si è avvantaggiato che negli ultimi 200 metri, in una volata in cui Menchov ha anche commesso, per sua stessa ammissione, un errore nella scelta del rapporto. I 5’’ di distacco generatisi nell’occasione sono peraltro stati compensati in parte (3’’) da quelli che il russo ha inflitto al rivale nelle due volate dell’Alpe di Siusi e di Monte Petrano. Ciò che è necessario, a nostro giudizio, non è però che si arrivi a stilare una classifica relativa alle tappe di montagna, ma rendersi conto che si sta discutendo di niente. Perché 2’’, se non consideriamo quelli della tappa di Pinerolo per i motivi già citati, sono niente. E anche comprendendo i dieci della frazione piemontese, 12’’ restano un’inezia se confrontati ai 2’15’’ che Menchov ha inflitto a Di Luca a crono. In sostanza, i due grandi protagonisti del Giro si sono equivalsi sulle salite. Di Luca è rimasto in corsa fino in fondo grazie principalmente agli abbuoni e ai 24’’ che il rivale ha perso per via della maxi-caduta della 3a tappa.

Nonostante tutti questi elementi, che crediamo portino ad una conclusione abbastanza evidente ed univoca, ossia che Denis Menchov ha vinto il Giro d’Italia 2009 con pieno merito, molti non ne sono convinti e danno anzi l’impressione di ritenere che il russo si sia macchiato di un’infamia vincendo la Corsa Rosa, che abbia perpetrato ai danni del ciclismo italiano un torto vergognoso, che gli abbia sottratto un qualcosa che era suo di diritto. Così, nella più seguita trasmissione di approfondimento (sic) sul Giro della televisione italiana, il “Processo alla tappa”, ci si ritrova con Luigi Sgarbozza scandalizzato dalla levata di capo della ISD che si permette di animare la corsa mandando uomini in fuga privandoci/lo di un duello sul San Luca tra i due contendenti alla vittoria del Giro. O arrossito di vergogna per Garzelli, permessosi addirittura di sprintare per il 2° posto sul Blockhaus, sottraendo 4’’ a Di Luca (la bandiera verrà pure prima della squadra). O con Marino Bartoletti, il menestrello, che afferma con serena certezza che Gilbert ha rovinato la festa di Di Luca ad Anagni, dimenticandosi degli altri undici corridori che hanno preceduto l’abruzzese sul traguardo. Il tutto dopo aver mostrato le sue credenziali con una digressione storica del tipo “Anquetil vinceva i Tour con gli abbuoni” (ci scusiamo con il Maestro se per caso le sue dotte parole non sono riportate correttamente).

Perché vincere in salita e a cronometro, senza mollare un metro per tre settimane, nonostante l’aver preso meno abbuoni e l’aver perso 24’’ per mera sfortuna, non è sufficiente, se non si è italiani. Il che ci induce a pensare che forse i due rimpiangano i tempi di Osa e Honchar sul podio del Giro, in cui il livello della start list era degno di un Giro del Trentino, ma in cui potevano cantare le gesta del Cunego o Garzelli di turno (con tutto il rispetto), anziché di quel succhiaruote soporifero di Menchov.

Una nota in conclusione, per chiarire il senso di quanto è stato scritto sino a questo momento. L’autore di questo pezzo non è il presidente del “Denis Menchov Fan Club Italia”, né un uomo frustrato a cui Di Luca ha rovinato la vita anni or sono, nè un ingastrito da Mamma RAI, anche se ci rendiamo conto che alcuni passaggi potessero portare a questa conclusione. Proprio perché si colga il senso di quanto detto, precisiamo che non abbiamo alcuna volontà di sminuire il Giro d’Italia di Danilo Di Luca, splendido secondo al termine di una corsa in cui, al di là degli errori tattici che a nostro giudizio ha commesso, ha comunque dato spettacolo ad ogni pendenza, specie dopo la prima settimana. La vittoria di Menchov non sarebbe stata di così grande importanza e valore senza un avversario della caratura dell’abruzzese, che, a dispetto del suo temperamento di guerriero, per una volta tornerà a casa, come lui stesso ha detto, soddisfatto del secondo posto.

La nostra intenzione era semmai quella di esaltare i meriti, che in questi giorni sono stati da molte voci messi in dubbio, di un vincitore a nostro giudizio più che degno del Giro d’Italia del centenario, e di evidenziare come certe affermazioni o invocazioni patriottiche vadano contro lo spirito stesso del ciclismo. Uno spirito che riteniamo sia rappresentato dai tifosi che ai bordi delle strade tributano il medesimo applauso a italiani, russi, spagnoli e americani, e non da chi auspica l’esportazione nel mondo del pedale di sentimenti di patriottismo spinto e “tifo contro” che sono invece l’esatto opposto di questo modo di vivere il ciclismo, che ci auguriamo restino confinati in altre discipline. Perché, se si è veramente amanti di questo sport, anche se si è sperato che a portare a casa il successo finale fosse un atleta nostrano (cosa pienamente legittima), questa sera non si può, secondo noi, non riconoscere i meriti di chi ha giustamente conquistato la corsa più amata dagli italiani.

Matteo Novarini 

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