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L'APPROFONDIMENTO
BENNATI: IL GRAFFIO DELLA PANTERA

Un velocista atipico. Ecco il ritratto di Daniele Bennati, degno erede al trono lasciato vacante da Petacchi. Al Giro mancava dal 2004 e, dopo aver fatto piazza pulita nella passata stagione sulle strade di Tour e Vuelta trionfando sia a Parigi che a Madrid, l'aretino ha dimostrato oggi la sincronia con il suolo del Belpaese disputando uno sprint fatto non di 'potenza e watt' ma di 'intuito e savoir faire ciclistico' come ci racconta il nostro Federico Petroni nell'Approfondimento di giornata.
di Federico PETRONI

50km all’arrivo. La costa tirrenica del messinese è uno spettacolo. Dopo i foschi nembi dell’ora di pranzo, spunta un timido raggio di sole. Forte del consenso del popolo, dirada le tiranniche nuvole per aprire il sipario sulle Eolie. Nelle notti stellate, Stromboli regala fuochi d’artificio naturali. Daniele Bennati ha un vulcano in corpo. L’ultima volta che, nella corsa rosa, ha appeso il numero sulla schiena con una spilla da balia, le cose non erano proprio andate per il verso giusto. Correva l’anno 2004, quello della fioritura della rosa rossa di Cunego e del ciclamino di Petacchi come del definitivo appassire della pianta carnivora di Cipollini, caduto nel nubifragio della Val di Chiana. Bennati, casacca Phonak, quel Giro lo ha vissuto da comprimario per due giorni, salvo poi tornarsene mesto a casa per un problema fisico. Avrebbe voluto, sarebbe dovuto essere una primadonna, almeno riconoscersi sfocato nelle foto ritraenti le nove sinfonie di Petacchi. Da quel ritiro, le strade del Giro e del velocista aretino si sono separate, per poi ricongiungersi nell’isola della Storia. 27km all’arrivo. La carnevalesca parata del Giro d’Italia adagia il proprio caleidoscopio su Spadafora, asilo di pescatori, borgata che prende il nome dall’appellativo dato al suo fondatore, un principe borbonico cui era stato concesso il privilegio del codice cavalleresco di estrarre la spada davanti al re. Anche Daniele Bennati si sente un principe e sente che è arrivato il momento di impugnare il brando per guadagnare sul campo titolo e onore. La rinuncia forzata del sovrano delle volate, Alessandro Petacchi, ha aperto la guerra di successione. Zabel, investito dell’incarico in pectore; il rampollo dei Cavendish; McEwen, della Compagnia delle Indie Australi, i più seri pretendenti. La prima affermazione al Giro, corsa dei sogni diventata un incubo, non può mancare. 23km all’arrivo. Una caduta, l’ennesima. Mentre grovigli di pignoni e raggi avviluppano tra le proprie fatali spire uno, dieci, cento corridori, Daniele Bennati tira un sospiro di sollievo. La Liquigas, con Wegelius e Cataldo, lo tiene nella bambagia. La prudenza non è mai troppa, pensa l’aretino, considerato un pedigree da malato immaginario, se non lo si conoscesse a fondo. Perché la carriera dell’ex pupillo di Cipollini è costellata di tanti piccoli contrattempi che continuano a minarne il rendimento. Ma come una risorta fenice più bella, Bennati riesce sempre a rimontare in sella e a farsi fabbro del proprio destino. L’ultimo incidente, però, rischiava seriamente, dopo lo choc della Sanremo, di rimandare a tempo indeterminato il rinnovato abbraccio con la corsa rosa. Guadagnata la forma con la rapidità della Pantera, animale cui si ispira, si presentava a Palermo con poche manciate di giorni di gara ma ringalluzzito dalla sontuosa vittoria a Losanna, in terra romanda. Una manna per il morale. 7km all’arrivo. Dopo il miraggio dell’insegna di Milazzo, la strada s’impenna sotto le ruote dei girini, stretta ma ingannevole, con la gentile partecipazione di qualche ciottolo di pavè. Una maglia verdeblu sfugge ai tentacoli del gruppo. Non è Daniele Bennati, anche se il suo viso arso dal sole di estenuanti allenamenti palesa una freschezza tale da temere la fiammata. È Nibali, astuto nell’unire l’utile (risparmiare l’onere di tirare ai suoi) al dilettevole (infuocare i propri tifosi). L’innocuo strappetto esaurisce i gradini e lascia spazio ad una biscia d’asfalto che modella il proprio tracciato alle esigenze del conturbante Capo Milazzo. Nibali ripreso, non c’è modo di organizzare il lavoro di squadra e Bennati se la cava da solo, come ha sempre fatto, anche all’ultimo Tour quando i compagni della Lampre o gli preferivano Napolitano o gli lasciavano le castagne sul fuoco. Corre davanti, sa che si spende di più a prender frustate in coda che a gestire il traffico in testa. La gamba è piena, gira che è un piacere. 1000 metri all’arrivo. Il trenino del latte della Milram stantuffa, come da triennale copione, per lanciare, paradosso del pedale, la propria locomotiva. Daniele Bennati regala un’altra pillola del proprio talento, fatto non di watt e frequenze ma di intuito e savoir faire ciclistico. Scorge la tortuosità della strada e si piazza a ruota dell’ultimo vagone della Milram, la squadra di Zabel, sì, proprio l’eterno tedesco, ormai incapace di profondere velocità estreme. Tra una semicurva e l’altra, con la strada in leggerissima – e decisiva – ascesa, Bennati salta con facilità gli inutili ostacoli tra sé e la vittoria. Un capolavoro. Non è il successo dello sprinter alla Petacchi, potenza e progressione; nemmeno alla McEwen, funambolismo e scaltrezza. È l’ennesima affermazione alla Bennati, la capacità di trovarsi al posto giusto al momento giusto e di leggere magistralmente la situazione di corsa. Come a Parigi. Come a Madrid. Volate di un certo peso specifico. Dieci minuti dopo l’arrivo. Ancora ansima, Daniele Bennati, contornato da una selva di camere, microfoni, facce questuanti una battuta. Gli chiederanno se intende lottare fino a Milano, dove provare a vincere: avrà la cortesia di rilevare come la città ambrosiana ospiterà una crono. Gli chiederanno se si sente il velocista più forte al mondo: come levarsi d’impiccio da un tranello tanto scomodo e impertinente? Semplice, tenendo i piedi per terra, ricordando dell’assenza di Freire, Petacchi e Boonen e di McEwen, impantanato nelle retrovie. Semplice, ricordando l’umiltà cristiana, corrimano dei momenti bui, come l’ingiusta esclusione dalla nazionale di Stoccarda o come l’infortunio prima del Fiandre 2006, corsa amica. Semplice, cercando di replicare con i risultati e non con discorsi verbosi. Daniele Bennati è un cocktail di talento. È l’astro nascente dei sessanta orari. Un’alba durata a lungo, forse troppo, dicevano i maligni; il mezzogiorno deve ancora venire ma, mentre alcuni sprinter si avviano sul Sunset Boulevard e altri vedono ancor dubbia l’aurora, il suo mezzogiorno sta arrivando. Il sole ha fatto pieno capolino lo scorso anno, quando dimostrò, tra Tour de France e Vuelta di Spagna, la sua atipicità quanto a velocista e la sua sincronia con le corse prese di petto. Già rodato per le azzuffate di massa, va in cerca del colpo grosso nelle classiche. Gli riuscirà, statene certi, è questione di pazientare ancora per poco. L’età – 28 anni – ormai matura e l’agilità sugli strappi depongono a nostro – suo – favore. Lo paragonavano a Cipollini, quando lui nicchiava e scannerizzava i movimenti di Freire. D’altronde, la Pantera è un felino come il Leone, dotato della scaltrezza della Volpe. Ecco Daniele Bennati.

Federico Petroni

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