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GIRO D'ITALIA - *L'ANALISI FINALE*

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SPECIALE CORSA ROSA
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***L'ANALISI FINALE***
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Anteprima: Simoni e Garzelli


Il quinto sottofattore è la splendida condotta di Gilberto Simoni. Appassionata. Se ne tratta nell’editoriale in home page, qui urge evidenziare la specificità della sua interpretazione al di là delle motivazioni. Il trentino ha compiuto il capolavoro di fascinazione e di attrazione di attenzione nella frazione di mezza montagna di Faenza, quando non era attesa l’azione dei grandi se non nelle sue forme consuete (già viste al Terminillo), e per un chilometraggio minore e quindi meno selettivo, sull’ultima asperità di giornata, il valico del Trebbio, peraltro posto a venti chilometri dal traguardo e quindi incapace, con ogni probabilità, di lanciare uno o due uomini soli fino all’arrivo. Simoni era a pochi secondi dalla rosa. Davanti tutte le grandi montagne. Certo: sul Terminillo Garzelli aveva tenuto alla grande. Ma la salita non era molto dura. E Garzo non aveva fondo. C’erano tante ragioni per ritenere che Gibì avrebbe potuto fare il vuoto sulle salite seguenti. Dunque non aveva necessità funzionale alla gestione del Giro d’Italia di andare all’attacco in quella frazione. Non lo si aspettava. La soddisfazione della giornata era contenuta. Il suo attacco ha acceso il confronto di classifica proprio quel giorno; ha dimostrato l’enorme passione di Gilberto per il Giro d’Italia, e si sa che la passione altrui per qualcosa stimola la passione di chi vi è a contatto in assenza di fattori di contrarietà nei confronti della persona o dell’oggetto in questione; ha accresciuto il senso dell’importanza della corsa, come si accresce il senso di importanza di qualcosa ogni volta che qualcuno si impegna nella sua trattazione, e quindi ha soddisfatto l’orgoglio di appassionati di ciclismo e di suiveur del Giro di chi stava davanti alla televisione; ha ricostruito una situazione di corsa appunto importante e per di più imprevedibile; e il senso di importanza era accentuato dalla consapevolezza che se da un lato Gibì avrebbe potuto guadagnare secondi e prendere la maglia, dall’altro un fallimento del tentativo avrebbe posto Simoni sotto il fuoco della critica sull’opportunità dell’azione, avrebbe prodotto una spesa inutile che perciò lo avrebbe lasciato nella stessa situazione prima di compierla e con meno energie, e inoltre avrebbe associato – nella sensibilità di Gilberto – all’idea della fatica il sentimento della delusione per il fallimento, per cui Simoni avrebbe avuto ridotta la propria passione e anche la propria disponibilità a spingere successivamente sui pedali durante questo Giro, nella misura in cui è una persona umorale, e lo è molto, in quanto molto intelligente e dunque sensibile. Il sesto sottofattore è la tenuta di Stefano Garzelli. La tenuta di Garzelli che ha mantenuto aperto il Giro fino alla caduta nella discesa del Sampeyre. Ammenda: Garzo non è crollato. Non facciamoci ingannare dagli otto minuti. Otto minuti sì, ma quattro ne ha persi per la caduta e la fatica in più – rispetto a quanta fosse disposto fisicamente e mentalmente, dunque atleticamente, a produrre – e quindi per la riduzione della capacità di corsa, e dell’andatura – che si è trovato per il dolore, per la limitazione dei movimenti dovuta all’inibizione, a dover sostenere. Ammenda perché avevamo previsto che sarebbe crollato. E non è successo. E forse non è accaduto per l’intelligenza tattica di Stefano. Ecco in che senso. Terminillo a parte, mi si era ancora nella prima settimana, poco dispendio accumulato, salita non tropo dura, il varesino non ha mai tenuto il passo di Simoni. Forse non ce la faceva, anzi, senz’altro; e però non si è neppure mai forzato più di tanto per tenerne la ruota, è salito del proprio passo spinto al massimo del sostenibile per non crollare prima della vetta, e insomma: ha gestito le energie. E il crollo avviene invece quando ci sia la pretesa di compiere un dispendio pari a quello di chi sta davanti, ma altresì pari alla propria disponibilità complessiva di energie, per cui succede che il corridore rimanga senza e non riesca proprio ad andare avanti. Nel caso in cui questo crollo avvenga a distanza dalla vetta, il corridore si dispone a perdere più di quanto perda se sale del proprio passo, ancorché forzato, nella gestione delle energie a disposizione. Se, insomma, fa quanto ha fatto Garzo. Ammenda, dunque, da parte nostra con questa considerazione: avevamo sottovalutato la sagacia tattica di Garzelli. E in parte la condizione fisica. Ma di fronte ad un buono, anche ad un medio ottimo corridore, che avesse fatto quanto si fa di solito nella mancanza di lucidità per la fatica e l’ansia della perdita del contatto dal primo e quindi delle chance di raggiungere il proprio obiettivo che è la vittoria e dunque l’avvantaggiamento su tutti i contendenti primo del momento compreso, la previsione si sarebbe avverata. Con Garzelli no perché non è un medio ottimo corridore. E’ un medio corridore super. Nella testa prima di tutto. (E il gregariato al fianco di Pantani, per il quale era talvolta costretto a dare tutto per un tratto per lanciare il proprio capitano, talvolta poteva salire del proprio passo sin dalle prime rampe della salita, a differenza di quanto succede ai campioni predestinati e stabiliti dall’inizio della carriera, che devono sempre andare al massimo, anche per esigenza istintiva, vedi il caso di Yaroslav Popovych, ha senz’altro insegnato a Garzelli questa conoscenza minima che quest’anno gli ha consentito di chiudere secondo in un Giro al quale è giunto con sette corse nelle gambe).




L'analisi


Se siamo qui a parlare con piacere del Giro anche un giorno dopo la sua conclusione magari con un po' di rammarico per non averlo più oggi è perché il Giro ci ha affascinato. E c’è riuscito grazie alla felice coincidenza di alcuni fattori. Il primo è la qualità del tracciato. Castellano non aveva mai disegnato una corsa così. Così come? 1) Così mossa nella prima parte per cui c'è stata concitazione anche nella fase di avvicinamento al momento della volata, pure mai in discussione finché l'arrivo è stato in pianura, merito della qualità del lavoro delle grandi squadre dei velocisti, la Fassa su tutte almeno nella prima settimana. 2) Così significativa per avere cinque arrivi in salita, e la corsa si decide e si esprime quando la strada sale, ed è allora che sale il piacere a seguirla, e quindi più arrivi in salita ci sono - e meglio sono disseminati - maggiore è l'attrazione della gente che segue, per quanto un numero fuori media (oltre i cinque che sono stati del Giro quest'anno) di traguardi in quota rischierebbe di ridurre il bisogno degli scalatori di usare i primi per disegnare la classifica preferita, e quindi vi ridurrebbe la competizione e la qualità. 3) Ma la corsa è stata anche così variegata, se si vuole, con l'alternanza di frazioni piatte a frazioni di montagna e frazioni di mezza montagna o di pianura ma con arrivo in salita (breve): spazio per i leader della classifica sin dalle prime settimane, al di là della collocazione del primo arrivo in quota, e poi occasione di azione diversificata rispetto alla conduzione piatta e lineare delle squadre dei velocisti, che pure fanno un grande spettacolo negli ultimi cinque chilometri, sin dalla preparazione dello sprint. 4) La corsa è stata poi libera dalla oppressione delle cronometro: qui più brevi ancorché lunghe, qui inserite tutte e due (e solo due) nella terza settimana in mezzo alle montagne, con gaudio degli scalatori (e vi invitiamo ad andare a leggere l’approfondimento sul rapporto montagne-crono in questo Giro. 5) Infine il tracciato ha saputo riscoprire la capacità di suscitare fascino per intermediazione dei suoi luoghi di leggenda. L’inserimento dello Zoncolan non è stato solo un fattore di creazione di incertezza di risultato e di certezza della battaglia tra i grandi della graduatoria con il seguito di attesa ed attenzione che ne consegue; lo Zoncolan è il prototipo della realtà della natura che supera la certezza del controllo e dell’affermazione dell’uomo, che suscita perciò un fascino fortissimo, che taglia il fiato. Come un grande lago. Un grande fiume. Il grande mare. La grande montagna nella sua immagine frontale e verticale. Come tutti questi spazi così la salita che ha pendenze terribili, come lo Zoncolan, il Mortirolo e l’Angliru, e certo i nomi inconsueti ma che richiamano rispetto, lontani dal canone diffuso della risibilità, danno un contributo a creare quel senso di dimensione e incommensurabilità che è alla base del fascino. Il giorno della corsa, poi, ci pensa la realtà dell’ambiente e del micromondo intorno alla strada che sale a rafforzare il fascino, insieme alla durezza, alla novità, alla concitazione della corsa: nel caso dello Zoncolan quella curva che porta la strada dal fianco sinistro sulla schiena della montagna appena dopo il piazzale e i -3 km alla conclusione, e apre un panorama di prati irradiati dal sole e di grandi campi lunghi (come il cinema) attraverso strapiombi e altre montagne, e nubi e magari neve (che quel giorno non era vicina), il tutto per una duplice suggestione: la prima del tipo di quella che suscita la grandezza della montagna dalle pendenze impossibili, di cui abbiamo detto; la seconda il richiamo di memoria di grandi momenti di ciclismo che hanno quel volto e quei colori. I momenti di storia del Tour, ad esempio, su per i Pirenei o per la valle tra i massicci delle Deux Alpes o dell’Alpe d’Huez, i monti i campi lunghi il verde i prati ma soprattutto i prati irradiati dal sole, che in quel modo è tipico del luglio francese.
Il secondo fattore del fascino del Giro riguarda la situazione e il comportamento dei suoi protagonisti, e in realtà è un fattore composito. Il primo sottofattore è la velocità di Petacchi. Lo spezzino ha convinto e attratto stima con la sua capacità di vincere; dopo di che è venuta l’attesa delle due prestazioni; infine la partecipazione per la sua sorte con la caduta e – presa Alessandro la decisione di continuare – la soddisfazione profonda di vederlo vincere in quelle condizioni precarie. Il secondo sottofattore è il rendimento di Cipollini. Prima l’ingolfamento per cui non riusciva non solo a vincere, ma spesso stentava ad arrivare a partecipare allo sprint; poi le due vittorie e il record di successi parziali al Giro. Nel primo caso un po’ di delusione complessiva, sì, ma anche la crescita dell’attenzione, dell’attesa e del desiderio di infrazione del record (ora anche come moto di rivalsa sulla natura o qualunque fattore gli avesse impedito di vincere prima, e su quanti avevano demolito la figura del campione del mondo come atleta del presente ancora capace di vincere nel definirlo ormai vecchio e finito; non è il caso di Bulbarelli-Cassani-Martinelli che, anzi, hanno sempre rilevato la normalità tecnica, pure nell’inconsuetudine, delle difficoltà di SuperMario, normalità tecnica che significa riconducibilità a motivi puramente tecnici e non definitivi, per cui possibile è la crescita, che infatti è avvenuta). E nel secondo la soddisfazione – alimentata da tutti quegli elementi – per la riuscita dell’ennesimo tentativo di vittoria. La stessa uscita anticipata dal Giro del campione del mondo, per quanto abbia dispiaciuto e anche spaventato, anzi, nel momento in cui si è verificata la caduta che la ha determinata, lascia un più largo margine di quello che ci sarebbe stato nel caso avesse continuato il Giro, margine – si diceva – di una prosecuzione del suo impegno agonistico in primo luogo motivata dal desiderio di incrementare il divario su Binda nella classifica dei vincitori di tappa storici alla corsa rosa. Il terzo sottofattore è il rendimento di Pantani. Tre momenti. Il primo è l’attività nelle fasi antecedenti l’inizio delle due settimane che hanno deciso il Giro ed era prevedibile lo decidessero. Insomma, nelle frazioni di pianura e media montagna. Marco metteva la squadra davanti a tirare e questo ragionevolmente rincuorava delle sue possibilità in corsa e quindi alimentava l’attesa delle sue prove laddove si sarebbe misurata la capacità del Pirata di essere di nuovo competitivo lassù dove ha fatto sognare, dunque in salita, e nella condizione di fare sognare di nuovo, e quindi di volare verso le vette ma anche di costruire vittorie parziali e generali nelle corse a tappe. Questo ragionevolmente (ma non troppo) alimentava l’attesa per una ipotetica azione di Pantani sin da quelle prime frazioni, e di per sé questo attira l’attenzione di chi nutre stima o fede nel romagnolo, inoltre accendeva la previsione non troppo ragionevole di un primo confronto dell’ordine che interessa di più, e cioè in funzione della vittoria finale, dunque tra i grandi. Questo semplicemente dava una suggestione di ritorno di grandezza e di forza che richiamava la memoria della grandezza e della forza del Pantani di un tempo, con tutte le emozioni che seppe suscitare, dunque con enorme coinvolgimento. Il secondo momento del rendimento di Pantani sono la fatica ed il ritardo accumulati sul Terminillo, con l’imposizione dignitosa e interessante di salire del proprio passo nel riconoscimento della contingente inferiorità rispetto ai primi e per l’affermazione dell’interesse alla corsa al di là della riuscita contingente nel confronto coi primi, in somma della disponibilità a fare fatica per tornare coi primi nel medio periodo e della tranquillità che consente la concentrazione per lo svolgimento del lavoro adeguato di preparazione o, nel caso, di completamento della preparazione, tutti elementi che facevano sperare nella reiterazione del lavoro per la crescita e quindi nella crescita, ma anche – motivazione della disponibilità alla reiterazione – nella vicinanza della condizione-obiettivo, così che si poteva sperare nella crescita magari anche fino al livello dei primi e in tempi neppure troppo dilatati, come in effetti è tutt’oggi probabile che avvenga. Il terzo momento è infatti il ritorno ad una competitività molto, molto vicina a quella dei primi di oggi. Sullo Zoncolan, ma anche a Pampeago e infine alla Cascata del Toce Pantani ha tenuto i primissimi a pochi secondi di vantaggio, pochi in relazione a quelli presi sul Terminillo e della media del Gruppo, segno di crescita ulteriore, per la conferma ulteriore delle suggestioni di cui al momento-due, e per di più con la soddisfazione di rivederlo davanti in molti casi, talora anche a scattare, che è l’aspirazione di chi aveva avuto la fortuna di seguirlo prima del ’99 e, appassionato di ciclismo, si era appassionato al corridore, e dunque con gaudio di una grossa parte delle masse sulle strade. C’è da dire d’altronde che le tenute maggiori (o tenute entro il minuto ma dopo la produzione di scatti, dunque il dispendio di energie non funzionale a tenere, così che la tenuta in sé ne risente, per cui risulta inferiore a quella sostenibile), sono avvenute su salite non troppo dure o su tratti duri ma brevi, in cui non c’è stato cambio di ritmo (almeno da parte di un manipolo di primi) o non è stato perpetuato fino al traguardo. Ma qui cerchiamo di stabilire i motivi del fascino del Giro. E in questa chiave lo scatto di Panta, a questo punto, basta, quale che sia il suo esito ai fini della competizione di frazione. Il quinto sottofattore è la splendida condotta di Gilberto Simoni. Appassionata. Se ne tratta nell’editoriale in home page, qui urge evidenziare la specificità della sua interpretazione al di là delle motivazioni. Il trentino ha compiuto il capolavoro di fascinazione e di attrazione di attenzione nella frazione di mezza montagna di Faenza, quando non era attesa l’azione dei grandi se non nelle sue forme consuete (già viste al Terminillo), e per un chilometraggio minore e quindi meno selettivo, sull’ultima asperità di giornata, il valico del Trebbio, peraltro posto a venti chilometri dal traguardo e quindi incapace, con ogni probabilità, di lanciare uno o due uomini soli fino all’arrivo. Simoni era a pochi secondi dalla rosa. Davanti tutte le grandi montagne. Certo: sul Terminillo Garzelli aveva tenuto alla grande. Ma la salita non era molto dura. E Garzo non aveva fondo. C’erano tante ragioni per ritenere che Gibì avrebbe potuto fare il vuoto sulle salite seguenti. Dunque non aveva necessità funzionale alla gestione del Giro d’Italia di andare all’attacco in quella frazione. Non lo si aspettava. La soddisfazione della giornata era contenuta. Il suo attacco ha acceso il confronto di classifica proprio quel giorno; ha dimostrato l’enorme passione di Gilberto per il Giro d’Italia, e si sa che la passione altrui per qualcosa stimola la passione di chi vi è a contatto in assenza di fattori di contrarietà nei confronti della persona o dell’oggetto in questione; ha accresciuto il senso dell’importanza della corsa, come si accresce il senso di importanza di qualcosa ogni volta che qualcuno si impegna nella sua trattazione, e quindi ha soddisfatto l’orgoglio di appassionati di ciclismo e di suiveur del Giro di chi stava davanti alla televisione; ha ricostruito una situazione di corsa appunto importante e per di più imprevedibile; e il senso di importanza era accentuato dalla consapevolezza che se da un lato Gibì avrebbe potuto guadagnare secondi e prendere la maglia, dall’altro un fallimento del tentativo avrebbe posto Simoni sotto il fuoco della critica sull’opportunità dell’azione, avrebbe prodotto una spesa inutile che perciò lo avrebbe lasciato nella stessa situazione prima di compierla e con meno energie, e inoltre avrebbe associato – nella sensibilità di Gilberto – all’idea della fatica il sentimento della delusione per il fallimento, per cui Simoni avrebbe avuto ridotta la propria passione e anche la propria disponibilità a spingere successivamente sui pedali durante questo Giro, nella misura in cui è una persona umorale, e lo è molto, in quanto molto intelligente e dunque sensibile. Il sesto sottofattore è la tenuta di Stefano Garzelli. La tenuta di Garzelli che ha mantenuto aperto il Giro fino alla caduta nella discesa del Sampeyre. Ammenda: Garzo non è crollato. Non facciamoci ingannare dagli otto minuti. Otto minuti sì, ma quattro ne ha persi per la caduta e la fatica in più – rispetto a quanta fosse disposto fisicamente e mentalmente, dunque atleticamente, a produrre – e quindi per la riduzione della capacità di corsa, e dell’andatura – che si è trovato per il dolore, per la limitazione dei movimenti dovuta all’inibizione, a dover sostenere. Ammenda perché avevamo previsto che sarebbe crollato. E non è successo. E forse non è accaduto per l’intelligenza tattica di Stefano. Ecco in che senso. Terminillo a parte, mi si era ancora nella prima settimana, poco dispendio accumulato, salita non tropo dura, il varesino non ha mai tenuto il passo di Simoni. Forse non ce la faceva, anzi, senz’altro; e però non si è neppure mai forzato più di tanto per tenerne la ruota, è salito del proprio passo spinto al massimo del sostenibile per non crollare prima della vetta, e insomma: ha gestito le energie. E il crollo avviene invece quando ci sia la pretesa di compiere un dispendio pari a quello di chi sta davanti, ma altresì pari alla propria disponibilità complessiva di energie, per cui succede che il corridore rimanga senza e non riesca proprio ad andare avanti. Nel caso in cui questo crollo avvenga a distanza dalla vetta, il corridore si dispone a perdere più di quanto perda se sale del proprio passo, ancorché forzato, nella gestione delle energie a disposizione. Se, insomma, fa quanto ha fatto Garzo. Ammenda, dunque, da parte nostra con questa considerazione: avevamo sottovalutato la sagacia tattica di Garzelli. E in parte la condizione fisica. Ma di fronte ad un buono, anche ad un medio ottimo corridore, che avesse fatto quanto si fa di solito nella mancanza di lucidità per la fatica e l’ansia della perdita del contatto dal primo e quindi delle chance di raggiungere il proprio obiettivo che è la vittoria e dunque l’avvantaggiamento su tutti i contendenti primo del momento compreso, la previsione si sarebbe avverata. Con Garzelli no perché non è un medio ottimo corridore. E’ un medio corridore super. Nella testa prima di tutto. (E il gregariato al fianco di Pantani, per il quale era talvolta costretto a dare tutto per un tratto per lanciare il proprio capitano, talvolta poteva salire del proprio passo sin dalle prime rampe della salita, a differenza di quanto succede ai campioni predestinati e stabiliti dall’inizio della carriera, che devono sempre andare al massimo, anche per esigenza istintiva, vedi il caso di Yaroslav Popovych, ha senz’altro insegnato a Garzelli questa conoscenza minima che quest’anno gli ha consentito di chiudere secondo in un Giro al quale è giunto con sette corse nelle gambe).

Yaroslav Popovych ha aggiunto un po’ di pepe nell’inserimento nella lotta per il secondo posto. Ma è riduttivo ricordarlo per questo. Per il resto c’è molto da pensare e da dire. A presto.


Matteo Patrone
mpatrone@libero.it

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