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GIALLO QUOTIDIANO RITRATTO DI SASTRE HOMBRE VERTICAL

Retrospettiva del Tour di Carlos Sastre e della vita del cognato del “Chava” Jimenez. Una Grande Boucle iniziata lontana dalla pressione del riflettore, corsa coperto dai fasti dei compagni (specie Franck Schleck) e chiusa dando dimostrazione della serenità di un cronico piazzato ma sempre innamorato del ciclismo. Di Federico Petroni.

Brest, 5 luglio. “Sastre è il nostro capitano!”, proclama Bjarne Riis. C’è chi nicchia, chi strabuzza gli occhi, chi fa spallucce La griglia di partenza non annovera certo in prima fila la CSC: i riflettori della vigilia sono puntati su Evans, su Menchov, su Valverde. Neppure stavolta, si pensa, il team danese vincerà il Tour de France, dopo tre podi in sei edizioni. Dimenticato in un angolo, un taciturno Carlos Sastre si appresta per la decima volta ad appendere con la spilla da balia il numero di partenza. È l’undici. Il primo della sua squadra. Quel viso da indio triste, gli angoli degli occhi inclinati come per far scorrere meglio le lacrime, non tradisce alcuna emozione. Dentro di sé, Sastre sa però che è giunta l’occasione della vita. 33enne esponente di un ciclismo abbastanza attempato, dietro le montagne che tanto ama vede sorgere l’alba di nuovi campioni. Per questo s’è preparato scrupoloso come sempre ma come mai prima attento alla dispersione d’energie: una volta a settimana in sella alla bici da crono e pochi giorni di gara, nei quali far sfogare rivali e giornalisti, nei quali buscare mazzate, per accovacciarsi ancor meglio nell’ombra. Là dove la mente ragiona più tranquilla.

Hautacam, 14 luglio. Carlos Sastre è felice. Non per la finta luce irradiata dalla Saunier Duval su Lourdes, non per avere tenuto le ruote del leader, il fragile e fracassato Evans e nemmeno per la vetta quasi raggiunta (manca solo un piccolo secondo) dalla squadra, nella persona di Franck Schleck. Ci mancherebbe. Il team è bicefalo, una testa d’aquila (l’iberico) e una di grifone sputafuoco (il lussemburghese). Sastre è felice perché finalmente qualcuno gli fa da gregario. Undici anni di professionismo e mai lo straccio di una chance, rimpallato di capitano in capitano, di star in star. Prima di Basso ed Hamilton alla CSC, quanta fatica fatta per scortare Beloki, Olano e Jalabert alla Once. Di Jajà il migliore ricordo, talento gentile, imprevedibilità affettuosa. L’azione del maggiore degli Schleck altro non fa che continuare a proiettare un cono d’ombra sulla sua partita a poker. Lo specchietto delle allodole.

Bourg d’Oisans, 23 luglio. Partire e non voltarsi. Mai. Un monito mitico, rivolto ad Orfeo negli Inferi, per non perdere Euridice. Un insegnamento familiare, rivolto a Carlitos da papà Victor che per togliere i ragazzini dalla strada e dalle grinfie della malavita aveva fondato la Escuela de Ciclismo a El Barraco. Partire subito, un’Alpe sciroppata in solitaria, un solo colpo in canna per andare a vincere il Tour de France. Sastre sa di avere questi numeri. Come quella volta verso Plateau de Bonascre, nel 2003, quando, nel giorno dell’Armstrong vacillante sotto i colpi dell’Ullrich in maglia Bianchi, l’amoroso padre di Camilla pose fine alla vittoriosa fuga pirenaica infilandosi un ciuccio in bocca. Di solito, i campioni lo fanno per festeggiare una nascita. Camilla allora aveva 2 anni. I corridori come Carlos, che campioni non sono, tanto devono aspettare. Partire forte, forte quanto il suo idolo d’infanzia, quell’Angel Arroyo che nell’82, vincendo la Vuelta, fece scattare la molla ad un bimbo di otto anni dalla faccia triste. Già il giorno prima, là, in Cima alla Bonnette, comignolo d’Europa, Sastre avrebbe potuto (e voluto) provarci. Era bastata un’occhiata allo sguardo vuoto del compagno Franck Schleck, allora maglia gialla, per farlo desistere.

Cerilly, 26 luglio. Carlos Sastre è sereno. Ha la ricetta della felicità stretta tra le mani. Sapere di avere dato tutto per vincere il Tour. Rilassarsi con la famiglia, l’adorata Piedad e i due bimbi che nel giorno dell’Alpe scorrazzavano per Disneyland. Partire per ultimo, forte di un vantaggio più volte non disperso per strada. Ignorare di avere una reputazione di piazzato da sconfessare, tanto il ciclismo è bello anche se si arriva secondi. Contare su una condizione smagliante, tale da fargli sprigionare il 5% di potenza in più dei rivali sull’Alpe. Assaporare i momenti, più che rincorrere l’ipotetico futuro. Restare sempre lo stesso: tranquillo, pacato, dimesso, riflessivo, umile, fedele, quando tutto attorno a te gira vorticoso. Non è facile. Occorre avere un’anima profonda. Oppure… “Quel giorno pedalavo per qualcuno. O forse, qualcuno pedalava con me.” Dal suo stellato albergo, José Maria Jimenez era con il cognato, con l’amico, con il compagno di sogni. “Con El Chava condividevamo idee, valori, progetti. Ho realizzato il suo, il nostro sogno.” Ma che droga e depressione gli hanno impedito di portare a termine.
Parigi, Campi Elisi, 27 luglio. Dietro, l’Arc du Trionphe. Davanti, la Pyramide du Louvre. L’ebbrezza del podio. Mai provata, nonostante il palmares di Sastre annoveri cinque piazzamenti nei dieci al Tour, uno dei quali avrebbe riservato l’onore dei Campi Elisi. Era il 2006 e Landis si vestiva di giallo con l’imbroglio, relegandolo in quarta posizione. Come per il compatriota Pereiro, chi gli restituirà quella gioia mancata? Ascendendo i gradini del cielo, la nuova maglia gialla non potrà non avere pensato che esiste una giustizia, capace di ripagare dei sacrifici, dell’abnegazione, delle delusioni. Servono ingredienti essenziali: tenacia, coraggio e fede. E non intraprendere la via più breve. A proposito della quale, Sastre lancia un messaggio. “Ci saranno sempre sospetti su di noi. La truffa è una parte di questo mondo, come della società in generale. Ma ci sono state, ci sono e ci saranno persone che, in questo mondo, ogni giorno si allenano e si sacrificano per avverare i loro sogni.” Non ha parlato di percentuali campate per aria di angioletti, meglio così. Detto da uno che ha corso per la Once di Saiz (deus ex machina di Operacion Puerto) e per la CSC di Riis (Mister 60% di ematocrito nel Tour vinto del 1996), potrebbe suonare sospetto. Ma non da Sastre, un uomo d’onore, capace di restare se stesso nelle situazioni più turbinose ed educato all’umiltà di ringraziare, sempre e comunque, chi gli ha dato qualcosa. Persino Manolo Saiz.

Federico Petroni

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